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Dopo la conferenza internazionale che, dal 23 al 26 settembre, ha riunito a Trieste (Italia) 400 partecipanti sul tema “Buone pratiche dentro ai servizi: promuovere i diritti umani e la riabilitazione nella salute mentale”, abbiamo voluto intervistare Roberto Mezzina, poco prima del suo pensionamento, avvenuto lo scorso primo ottobre.

Alla conferenza di Trieste, quali sono stati i principali esempi presentati di buone pratiche dei servizi comunitari che rispettano i diritti e promuovono il recupero?

In questa conferenza, ci è sembrato essenziale dimostrare che i servizi di salute mentale incentrati sui bisogni delle persone, che evitano le misure coercitive, che sostengono la riabilitazione e che promuovono l’autonomia e l’inclusione sociale, conformemente alle norme internazionali in materia di diritti umani, esistono e funzionano, sono efficaci e devono essere diffusi per informare e ispirare i politici e gli altri attori chiave ad agire in questa direzione in tutto il mondo. Gli esempi sono numerosi: dispositivi di risposta alle crisi come alternativa all’ospedalizzazione (Belgio, Spagna, Brasile…); l’”Open Dialogue” in Finlandia; l’abolizione della contenzione (Malesia…); il sostegno tra pare, l’intervento con le persone senza-tetto (India, Francia, Stati Uniti); una rete globale e un approccio comunitario (Lille in Francia, in Brasile, così come a Trieste); gli interventi nel campo della riabilitazione e dell’inclusione sociale (una casa, un lavoro, ecc) in Nuova Zelanda, in Israele e in Italia; progetti personalizzati con budget di salute; esperienze alternative agli ospedali che ricevono le persone in assistenza legale, o altri servizi (“recovery college”, case di cura)…

Che cosa ne è dell’esperienza di Trieste?

Trieste è una città senza manicomio da quasi 50 anni, con un sistema di porte completamente aperte dentro i Centri di salute mentale che ci sono in città. Questa esperienza dimostra che è possibile agire in un modo diverso per favorire il recupero e l’inclusione sociale dentro la comunità, il tutto adottando un approccio basato sui diritti della persona. Il Dipartimento di salute mentale di Trieste è diventato un centro collaborativo dell’OMS nel 1987, perché considerato come un modello duraturo e sostenibile per lo sviluppo dei servizi in città con un comprovato rapporto costo-efficacia (OMS, 2001). I processi di cambiamento del pensiero, della pratica e dei servizi, hanno portato a un passaggio da un modello clinico – basato sulla malattia e sulla sua cura – a un concetto più ampio di salute mentale comunitaria che si concentra sulla persona nel suo ambiente di vita. L’organizzazione è basata su centri di salute mentale completamente accessibili 24/24 con pochi posti letto comunitari in ciascuno, sostenuti da una piccolissima unità dell’ospedale generale con una équipe mobile in caso di crisi. Il budget per l’assistenza sanitaria personale consente di adattare dei piani personalizzati di riabilitazione e di inclusione sociale, estendendosi a settori della vita quotidiana in particolare per coloro che hanno esigenze complesse in materia di bisogni, di assistenza sanitaria e servizi sociali (circa 150 persone all’anno). Diverse cooperative sociali offrono reali opportunità di lavoro e di formazione. L’obiettivo è quello di raggiungere il massimo livello di integrazione, passando gradualmente da livelli di assistenza più intensi ad un abitare in autonomia. Oltre alla psichiatria, si tratta di integrare i servizi di salute mentale negli altri servizi sanitari di medicina di comunità (per le persone anziane, per i giovani e gli adolescenti, per le persone con una disabilità fisica, la medicina specializzata, ecc…).

I nostri tassi di Trattamenti Sanitari Obbligatori sono tra i più bassi d’Italia e sono, la maggior parte delle volte, gestiti dai Centri di salute mentale a porte aperte. Sotto l’impulso della psichiatria, una delibera regionale del 2017 ha perfino vietato la contenzione meccanica dentro tutte le strutture sanitarie e di servizi sociali, comprese le case di cure e gli ospedali generali.

Se “la libertà è terapeutica”, è stato il motto originario dell’esperienza triestina, è ora particolarmente rilevante che principi come l’apertura delle porte, l’ospitalità, la negoziazione e le alternative alla coercizione siano integrati nella visione e nella cultura dei servizi.

L’affermazione “Freedom First” (Muusse e Van Rooijen, 2015) sottolinea che la libertà è individuale non è il risultato ma un prerequisito per la cura, che inverte i meccanismi di controllo e li sostituisce con la responsabilizzazione delle persone. Pertanto, i servizi riconoscono anche il valore della partecipazione di tutte le parti interessate, attraverso la creazione di reti, forme di coproduzione, cooperazione e scambi. Per questo motivo Trieste è anche uno standard dei Diritti dell’uomo per le Nazioni Unite (UNHCHR, 2018).

Un approccio basato sui diritti deve essere valorizzato nella prospettiva della “persona nel suo complesso”. Sappiamo che può aiutare nella guarigione in quanto “riconosce” la persona e quindi si riferisce a valori fondamentali comuni dell’umanesimo, un riconoscimento della persona oltre la malattia.

[L’intervista è apparsa sul bollettino del CCOMS di Lille, numero di ottobre, ed è stata tradotta dal francese da Agnese Baini. Il numero contiene anche il rapporto di missione della Commissione Affari Sociali francese all’Assemblea Nazionale]

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