MarcoDi Luca Negrogno, Dottorando di Ricerca presso l’Università degli Studi di Urbino Carlo Bo

Nell’ambito del percorso di avvicinamento alla Conferenza Nazionale sulla Salute Mentale – che si terrà a Roma il prossimo giugno – l’Associazione Insieme a Noi di Modena riflette sui suoi primi venticinque anni di esperienze di inclusione sociale per persone con disagio psichico e di lavoro per il miglioramento dei servizi di salute mentale. Sarà presente anche Cinzia Migani, che si occupa dal 1990 di progett-azione sociale con particolare attenzione alle reti di volontariato contro l’esclusione sociale, con il suo libro “Memorie di trasformazione. Storie da manicomio.”

Il percorso dell’associazione Insieme a noi è nato 25 anni fa, nel 1994, su stimolo di un gruppo di familiari di persone seguite dai servizi psichiatrici della città di Modena. In quel periodo erano ancora attivi gli ospedali psichiatrici (la nostra provincia, non avendo un ospedale psichiatrico pubblico, era “servita” dal San Lazzaro di Reggio Emilia) e i servizi territoriali pubblici erano ancora in una fase embrionale. Ciò che soprattutto mancava, e le famiglie avvertivano come una grande lacuna questa mancanza, erano i percorsi di inclusione sociale. Una situazione del tutto diversa da quella che viviamo nel 2019: ogni anno da ormai otto edizioni gli Enti Locali e la ausl organizzano, in collaborazione con l’associazione e il terzo settore, la Settimana della Salute Mentale, che si apre con un corteo colorato e rumoroso per le vie del centro, in cui si rivendica l’orgoglio di essere diversi, “matti”, perché la salute mentale non è una questione solo legata a storie drammatiche. Parlare di salute mentale, 25 anni fa, sembrava invece un tabù. Le famiglie di persone con un disagio psichico erano indotte a chiudersi in casa per la vergogna, finivano per perdere le relazioni con amici e parenti, provavano l’angosciosa esperienza di non sapere cosa sarebbe successo “dopo di noi”. Anche grazie all’associazione, le cose sono molto cambiate. È sempre stato nello spirito dell’associazione, infatti, collaborare con i servizi pubblici per progettare nuove soluzioni e per supportare la vita delle persone in difficoltà, mettendo a disposizione un particolare fattore “moltiplicativo” delle energie disponibili: la capacità di sensibilizzare e coinvolgere molti cittadini non direttamente colpiti dal problema, che hanno iniziato a dare una mano e a fare da cassa di risonanza per i problemi di queste famiglie per senso civico e per portare avanti valori morali, politici e sociali. Negli anni l’associazione ha organizzato eventi pubblici, momenti di formazione, iniziative di convivialità e confronto che hanno reso possibile collaborare con ampi pezzi di cittadinanza: l’Arci, le nascenti cooperative sociali, molte parrocchie e realtà associative del mondo laico hanno iniziato ad interessarsi al tema e a costruire reti di solidarietà attraverso cui sono iniziate varie esperienze di inclusione abitativa, lavorativa e sociale. Alla attività di denuncia delle lacune e dei disservizi pubblici e privati, cui l’associazione non ha mai rinunciato (l’ultima volta è accaduto quando l’associazione ha preso posizione pubblicamente contro la contenzione meccanica nei reparti psichiatrici), si è infatti da subito affiancata una attività pratica rivolta a produrre alternative reali, con o senza la formalizzazione del servizio pubblico, ma che spesso sono state per il servizio pubblico motivo di stimolo e cambiamento. Così in città si sono costituiti appartamenti supportati per l’autonomia, comunità socio-assistenziali, luoghi per l’inclusione lavorativa, sportelli per l’inclusione sociale; contemporaneamente la grande sfida dell’associazione Insieme a Noi era quella di mettere in contatto tra loro famiglie precedentemente isolate, affinché iniziassero ad avere un luogo in cui confrontarsi e parlare liberamente ma soprattutto per iniziare a organizzare e fare qualcosa di pratico: uscite in compagnia, gite in barca a vela, laboratori di teatro, musica e cucina. Durante queste attività miglioravano i rapporti intrafamiliari e anche le persone più limitate dal disagio scoprivano di poter esplorare nuovi bisogni e nuovi desideri: avere amicizie, divertirsi, coltivare aspirazioni. Svolgendo molte attività pratiche, oltre a dare senso ad un tempo libero che altrimenti sussisteva come tempo deprivato e anestetizzato, si iniziava a liberare ciascuno dalle incrostazioni di anni di isolamento familiare o di istituzionalizzazione; contemporaneamente cadevano i pregiudizi più comunemente associati alla malattia mentale: quello della pericolosità, quello relativo all’incapacità di avere relazioni, quello dell’irresponsabilità. Dopo i primi 20 anni, l’associazione ha iniziato a stipulare rapporti di collaborazione più strutturati con i servizi sanitari e sociali: questo ha permesso di introdurre nuove figure di collaboratori professionali e di raffinare la progettazione e la realizzazione delle attività. Contemporaneamente cambiava anche la composizione anagrafica e sociale delle persone che attraversano l’esperienza del disagio psichico e delle loro famiglie: ad una generazione che aveva subito periodi lunghi di istituzionalizzazione in contesti di isolamento e di esclusione si affiancava una generazione di giovani con volontà di comprendere e di mettere in discussione le categorie dominanti del disagio, gli aspetti ancora escludenti e stigmatizzanti delle pratiche del servizio, i limiti materiali e sociali che ostacolavano le loro aspirazioni. Sono iniziate nuove progettazioni che hanno via via spostato l’obiettivo della associazione verso la “salute mentale di comunità” intesa come bene comune su cui incidono soprattutto determinanti sociali, relazionali e culturali e questo è diventato il terreno su cui impostare un nuovo ciclo di progettualità attraverso nuovi rapporti e nuove ibridazioni con la cittadinanza. Alcune delle idee emerse in questi anni sono: lo sviluppo di attività in senso imprenditoriale, la gestione di servizi sperimentali come convivenze e cohousing per l’autonomia, la creazione di momenti di autoformazione e ricerca, lo sviluppo di momenti aperti alla cittadinanza di approfondimento e di socialità. Ad essersi sviluppata in questa nuova progettualità è stata una la consapevolezza di aver superato gli steccati tra “volontari” e “assistiti”, che serve solo nei momenti in cui emerge un bisogno di assistenza, ma che viene meno quando si realizza un fine comune e quando ci si inizia a sentire un “soggetto collettivo” che opera a pieno titolo nella coprogettazione dei servizi e nella autogestione della salute mentale. Emergendo le persone che stanno dietro le diagnosi e venendo valorizzate le loro risorse, si sono sviluppati percorsi di aiuto reciproco e di capacità critica sul senso degli etichettamenti diagnostici stessi, nella misura in cui le diagnosi ancora si ricollegano a una azione invalidante e istituiscono un rapporto di potere subalterno con l’utente, come ancora si può vedere nell’impostazione sanitaria dell’uso della psicofarmacologia o nel ricorso eccessivo ai ricoveri e ai contesti “protetti”. Oggi la sfida è quella di superare questi contesti per ricostruire aspirazioni collettive e capacità di agire, che possano influenzare positivamente tutti i cittadini, non solo quelli marchiati da un’etichetta o colpiti da un disagio.

Write A Comment