basa

di Massimo Bucciantini

Le quattordici conferenze che tenne in Brasile a giugno e novembre del 1979 sono il testo di Basaglia più conosciuto fuori dall’Italia. E al tempo stesso – come osserva Maria Grazia Giannichedda – sono «il modo migliore per avvicinarsi al suo lavoro e alle sue idee e per ritrovare, nelle sue parole, le radici della Legge 180». Già, le sue parole. C’è un lavoro ancora da fare sulle “parole” di Franco (di Franca e dei «goriziani»). Perché tanto si è discusso in questi mesi dell’azione che lo condusse allo smantellamento del manicomio, meno, però, delle sue parole, che accompagnano e guidano quella esperienza radicale. E il presente libro – più di altri – si presta a riflettere su questo aspetto. Tornando a leggerlo, sono rimasto colpito dall’inquietudine che lo pervade. Eppure era trascorso appena un anno dall’approvazione della legge che prese il suo nome. Non siamo cioè all’inizio di un percorso ma a un significativo risultato di messa in pratica del progetto a cui lui – insieme al gruppo di psichiatri che partecipò a quella stagione irripetibile – dedicò quasi vent’anni della sua vita. Ma l’aria che si respira in queste conferenze non ha niente di celebrativo. Si percepisce subito che Basaglia non si sente maestro di alcunché, né è venuto per esportare un modello di psichiatria o di salute mentale. Ciò che gli interessa è «organizzare qualcosa che vada al di là di queste riunioni, qualcosa che sia come un cemento che può unire le persone che vogliono lavorare in modo diverso». Quello che gli preme comunicare è l’urgenza di un agire che non può limitarsi al rapporto con i malati e con la follia, ma che deve coinvolgere «il popolo in generale» e le sue organizzazioni sociali e politiche. Ben sapendo che ogni conquista di libertà può tramutarsi nel suo contrario, in una nuova forma di oppressione. Ma questa situazione di pericolo e di incertezza non vanifica i cambiamenti, come se gli sforzi di trasformazione della società fossero destinati sempre e comunque all’insuccesso perché «il potere» ha la capacità di recuperare tutto. Scrive, al riguardo, Basaglia: «Se questo fosse vero dovremmo dire che le Brigate Rosse hanno ragione, cosa che invece non è affatto vera perché sono anch’esse manipolate dal potere: il terrorismo in Europa è un’immagine speculare dello Stato». Siamo nel 1979, a un anno dall’assassinio di Moro, e sono parole pesanti le sue. Così come lo sono quelle lanciate contro la psichiatria e la medicina tradizionali. Una lotta impari, del nano contro il gigante, di una minoranza che vuole una realtà diversa, ma che può diventare – e il nome di Gramsci ricorre più volte – una minoranza egemonica. Le Conferenze brasiliane sono abitate da parole ed espressioni che oggi ci sembrano lontane, che appartengono a un orizzonte ideologico e politico distante ere geologiche dal nostro presente. A una prima lettura siamo quasi tentati di trascurarle, di metterle in secondo piano, come se provenissero da un passato arcaico. Ma che invece non possono essere cancellate, se vogliamo provare a calarci dentro quella pratica antistituzionale, se vogliamo capirne il senso. Ecco allora che brani come questo diventano occasione di riflessione: «Penso che in un certo senso la logica terapeutica e la logica della lotta di classe siano due cose molto vicine, e che solamente con dei passi in avanti della lotta di classe si potrà creare un nuovo codice per una nuova scienza, una scienza che sia al servizio del malato». Il passaggio a una nuova scienza assume così uno dei tratti fondamentali dell’esperienza basagliana. Ma che si caratterizza appieno solo se la associamo al timbro e alla grana della sua voce, inconfondibile: «Per noi il problema era quello di trasformare la scienza in una nuova scienza, di trovare un nuovo codice che si poteva trovare solo attraverso nuove risposte all’altra classe, la classe oppressa, il proletariato e il sottoproletariato che popolavano il manicomio». Si tratta di avviare un’opera di restituzione, anche filologica e linguistica, di quel progetto. E ciò significa, a quasi mezzo secolo di distanza, provare a leggere quei testi pesando e bilanciando le sue parole, all’interno di quell’originale incrocio tra battaglia scientifica e battaglia politica su cui Basaglia ha tentato di costruire una nuova forma di umanesimo. Al tempo stesso, però, si avverte la necessità di ascoltare altre voci, di entrare in quel pezzo di storia da punti diversi. Per questo, il racconto autobiografico di Antonio Slavich (1935-2009) riempie un vuoto e vorremmo che altri se ne aggiungessero. Intanto è una testimonianza preziosa, di un protagonista. E non solo perché Slavich fu il primo allievo di Basaglia, colui che dal 1961 lavorò al suo fianco fino al 1969, fino a quando i coniugi Basaglia decisero di trasferirsi prima a Colorno e poi a Trieste, ma anche perché riesce, con una scrittura in terza persona limpida e coinvolgente, a rendere il clima di fermento e di continua sperimentazione che si respirava nei padiglioni di uno degli ospedali psichiatrici più periferici e insignificanti d’Italia, al confine del mondo occidentale. Ci si accorge subito che siamo di fronte a uno sguardo che cattura i dettagli, anche quando vorresti che il racconto non indugiasse ed entrasse subito nel vivo della battaglia. Anzi, in un primo momento saresti quasi portato a saltare, ad andare al dunque. Poi però scopri che questa andatura minimalista ha il merito di farti vedere le persone più da vicino e di spazzare via luoghi comuni. «Il primo incontro di Basaglia con Slavich fu sobrio, breve, cortese, nessun tu asimmetrico fra barone e allievo implume. Da quella mattina di fine ottobre del ’59, fino al ’68, Basaglia e Slavich si sarebbero dati sempre del lei». E riferendosi a Basaglia: «Il francese lo leggeva bene e molto, come l’italiano e l’inglese; il tedesco, invece, se lo faceva tradurre; quanto a parlarle, le lingue, l’unica che orgogliosamente usava era il veneziano, a meno che la cosa fosse proprio inopportuna». Ma le vicende si susseguono senza tregua, e il ricordo si fa incalzante. A cominciare dalla «bella primavera» del 1965, quando a Gorizia, arriva Agostino Pirella già primario a Mantova («lo sguardo era diritto, intelligente e un po’ ironico, uno studioso serio») e subito dopo Nico, Domenico Casagrande, e poi ancora, nell’ottobre del ’66, Giovanni Jervis, la psicologa Letizia Comba Jervis, Lucio Schittar. I sette goriziani, come li chiama Slavich. Il settimo era Leopoldo Tesi arrivato nel novembre del ’62. E attorno a questo sparuto, e a volte conflittuale, gruppo si formano in quegli anni tanti operatori, allora studenti e giovani laureandi, che diventeranno il motore della preparazione della Legge 180. Slavich racconta la genesi del libro collettivo Che cos’è la psichiatria?, curato da Basaglia e stampato dall’Amministrazione provinciale di Parma, «con il disegno autoritratto di Hugo Pratt in divisa da matto in copertina». E subito dopo affronta i nodi concettuali che portarono all’uscita dell’Istituzione negata. Rapporto da un ospedale psichiatrico. È uno dei capitoli più belli del libro, con la discussione delle contraddizioni che emersero all’interno del gruppo e provocate dalla presenza degli ultimi due reparti ancora chiusi, i reparti C uomini e donne. Il libro uscì nel febbraio del ’68. E fu un successo. Slavich ricorda così la commozione di Basaglia al momento della consegna del dattiloscritto a Einaudi: «I primi di dicembre, un pomeriggio, Franco aspettava pazientemente in biblioteca la consegna degli ultimi dattiloscritti. Li impilò in bell’ordine in un faldone da ufficio, di quelli grigi con i nastrini neri subito legati a fiocco; sollevò felice il faldone stringendolo al petto, salutò tutti, guardandoci uno a uno con uno sguardo mite carico di affetto e gratitudine: poi di scattò si girò e scendendo le scale a grandi balzi s’infilò in macchina, grattò la marcia, e si precipitò a Torino». Un’immagine fulminante.

Articolo Originale

Franco Basaglia, Conferenze brasiliane. Nuova edizione, a cura di Franca Ongaro Basaglia e Maria Grazia Giannichedda, Raffaello Cortina, Milano, pagg. XI, 232, € 15 Antonio Slavich, All’ombra dei ciliegi giapponesi. Gorizia 1961, Edizioni Alphabeta Verlag, Merano (BZ), pagg. 271, € 16 (Collana 180. Archivio critico della salute mentale)

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