Le questioni da riprendere

Soffermiamoci su tre punti particolarmente critici: OPG, psicofarmaci, contenzione,

Ospedali Psichiatrici Giudiziari e salute mentale in carcere

Riteniamo inutile ribadire in questa sede l’assurdità e la violenza dell’OPG.  Non è possibile un OPG “migliore”, l’OPG va definitivamente superato.

Permane da alcuni anni pressoché stabile il numero di internati/e nei 6 OPG, circa 200 per ogni istituto, con una lieve flessione verso l’alto, in particolare per le donne; da anni i disegni di legge per il superamento degli attuali OPG rimangono senza alcun riscontro legislativo. Permane, pur a fronte di piccoli e stabili numeri una cultura pronta a re-invadere la convivenza civile, che pretende di continuare ad assimilare pericolosità e diversità.

Di contro ai dibattiti, alle ricerche e alle prese di posizioni sugli articoli 88 e 89 del C.P. (capacità di intendere e di volere), appare carente un impegno operativo per il superamento degli OPG, e questo oggi vogliamo sottolineare.

Esiste un grande margine di azione da parte degli operatori/trici dei Dipartimenti di Salute Mentale sia per una presa in carico dell’utente che ha commesso reato per evitare l’invio in OPG, sia per la dimissione degli attuali internati/e negli OPG attraverso specifici  progetti individuali di deistituzionalizzazione.

A questo proposito va ricordato l’impegno di gruppi regionali che in Campania e in Sicilia da 2 anni stanno lavorando per la dimissione dei ricoverati dagli OPG di Aversa, Napoli e Barcellona.

Riteniamo oggi di poter dire che gli OPG permangono anche per responsabilità dei DSM. La questione dell’OPG necessita di essere significativamente affrontata da parte dei DSM attraverso la presa in carico dei loro pazienti internati, da primo affrontando le situazioni più immediate e possibili (già il Ministero di Giustizia afferma che il 20% dei ricoverati siano  internati per reati affatto minori e con indice di pericolosità del tutto “evanescente”) e insieme impedendo nuove ammissioni e bloccando il flusso di invio dal carcere.

Una azione importante di erosione dell’OPG, di significativa diminuzione del numero degli/lle internati potrà forse mettere l’attenzione sulla necessità della chiusura dello stesso (come già è avvenuto per l’ospedale psichiatrico) attraverso misure “speciali”, in quanto fortemente individualizzate, per chi rimane.

Un impegno particolare investe quelle ASL nel cui territorio insistono gli OPG, cadendo su di loro la residenza anagrafica dei lungo-degenti; pertanto vanno immaginati progetti finalizzati regionali che impieghino fondi aggiuntivi per affrontare questi programmi di deistituzionalizzazione.

La questione della salute mentale in carcere, ad eccezione di poche situazioni italiane, risente a tutto campo della non applicazione del decreto n.230 del 1999 per il riordino della medicina penitenziaria, anche nelle 6 regioni individuate per la sperimentazione.

Il Forum vuole ribadire il proprio dissenso contro ogni forma di doppio binario, ed affermare la necessità di un rapido trasferimento delle competenze dalla medicina penitenziaria a quella ordinaria, contro tutte le resistenze di ordine preminentemente economico-corporativo.

I servizi territoriali di salute mentale devono assicurare la continuità assistenziale per gli/le utenti che finiscono nel carcere, anche per contrastare il ricorso da parte del carcere all’OPG, per affrontare e rispondere alla sofferenza aggiunta prodotta dall’internamento e assicurare strumenti di reintegrazione sociale dentro e fuori dal carcere.

Ma come si può immaginare che possano fare questo DSM che nella maggior parte del paese sono funzionali e non strutturali, quindi con nessuna capacità di governo delle risorse e incapaci di coordinare alcunché, perché privi di una responsabilità effettiva?

Gli psicofarmaci

Riteniamo che la “questione degli psicofarmaci”, sottovalutata nella sua complessità anche nelle pratiche più avanzate vada riproposta all’attenzione, proprio perché intorno agli psicofarmaci le multinazionali del farmaco in perverso intreccio con le università hanno ricostruito, dopo la riforma, l’artefatto della divisione tra psichiatria biologico istituzionale e psichiatria sociale. Assegnando alla prima il compito di fornire e legittimare l’idea di avere le chiavi e la conoscenza dell’organo, e il modo con cui aggiustarlo, e alla seconda il compito di sostenere l’uso indifferenziato ed esteso degli psicofarmaci nella popolazione, integrandosi con i medici di medicina generale. Alla produzione partecipa la psichiatria biologica universitaria. La vendita è promossa dalla psichiatria dei servizi e dai medici di base. La verità è che da 50 anni non sono stati fatti significativi passi avanti nella ricerca di nuovi prodotti ed assistiamo ad un continuo riciclo, a prezzi superiori e a volte esorbitanti, di molecole note, anche se ripulite e meglio conosciute.

Nella prassi dei servizi di salute mentale, l’uso di farmaci da ausilio alla cura si trasforma nell’intervento principale, che declassa tutto il resto a puro intervento satellite,  a mera pratica di supporto alle terapie farmacologiche stesse. La ricaduta sui servizi è  notevole. Si  crea un circolo vizioso in cui la necessità (vera o presunta) di somministrare farmaci  giustifica perfino pratiche repressive come la contenzione.

Di fronte alla “efficacia” del farmaco, cioè alla sua capacità di dare risposte rapide, gli operatori non medici della psichiatria hanno spesso accettato un ruolo di “contorno”. Alcuni medici, dal canto loro, hanno rinunciato ad essere promotori di processi di cura articolati, in cambio di un indiscusso primato all’interno dei servizi  e di una nuova immagine “professionale” da camice bianco ed esperto del cervello. Si aggiunga inoltre che le multinazionali del farmaco, finanziando ricerche universitarie, intervengono pesantemente anche sui manuali statistico-diagnostici.

La miopia, se non una vera e propria cecità, di fronte al preteso primato della terapia farmacologica è grave e travalica gli stretti limiti della psichiatria abbattendosi su altre istituzioni. Sul carcere, dove gli psicofarmaci vengono usati a sproposito per mille ragioni fra cui alcune strettamente connesse alle pratiche detentive e punitive; sulle case di riposo, dove servono ad adattare comportamenti disturbanti e noiosi da sindrome istituzionale degli anziani; sul sistema scolastico, sui centri di permanenza temporanea ( per gli/le immigrati extracomunitari) e infine sulla società in generale.

La contenzione

La buona pratica non parte da un gesto generoso del medico verso la persona sofferente, gesto che può essere tradito mille volte al giorno da un dolore più o meno nascosto, da una aggressività con o senza giustificazione, da una violenza che ferisce. La buona pratica è il risultato di una volontà collettiva di partire comunque dal rispetto e dalla libertà della persona che spesso proviene da una storia in cui questo rispetto e libertà sono venuti meno o non sono mai esistiti. La buona pratica cresce e si sviluppa attorno a questo nucleo centrale, da cui si dipana ogni altro intervento.

La contenzione blocca questo sviluppo nell’atto stesso che parte dal massimo dell’umiliazione e della mortificazione della persona e ripropone la copertura della nostra incapacità ad affrontare diversamente la sofferenza e la violenza, con una risposta irresponsabile di violenza e di difesa di sé, di violenza da parte del più forte, di chi è in condizione di porre una distanza fra sé e l’altro: il ruolo, le regole, l’istituzione, il potere.

Contro tutto questo si è lottato per anni e si è dimostrato possibile perseguire altre strade con il supporto di operatori/trici formati e motivati che reggano l’impatto senza ferire, senza umiliare, con la costruzione di un ambiente e di un clima non violento, libero nel suo complesso, che fa capire come altri passi siano possibili e  della stessa natura.

La contenzione blocca ogni passo successivo. Contamina e rafforza il sopravvivere di vecchie tradizioni nelle case di riposo e nei servizi per anziani, negli istituti per handicappati, nei reparti di geriatria, di medicina …. per facilitare l’immobilità, per preservare dal danno… alla fine  per semplificare il lavoro di medici e infermieri.

2 Comments

  1. La cultura farmaco-centrica in Salute Mentale è un caposaldo dell’accolita narcisismo professionale & industria farmaceutica. Ed è vero che molti operatori non medici, che pure in Salute Mentale avrebbero cittadinanza e ruolo, abdicano schiacciati dalla “consuetudine” che implica l’uso di psicofarmaci per “superare” le crisi e delle fasce di contenzione negli SPDC, in molti di essi, non appena il paziente appare agitato ( in molte realtà permane l’utilizzo del termine “agitazione psicomotoria”, misteriosa noxa indescrivibile nosograficamente, ma di tutto un po’ ). Così che i pazienti in molte realtà italiane vengono trattati per non nuocere più che per guarire. Un tempo sottoposti a getti di acqua gelata, per placare i bollenti spiriti, oggi manipolati nella chimica cerebrale per ottenere analoghi risultati. Ma tutti quegli operatori che potrebbero e dovrebbero dare il loro contributo alla cura ed alla cultura in Salute Mentale non sono esenti da colpe, perchè tacciono ed acconsentono. Non reclamano spazi, non denunciano le illegalità, abdicano spesso offuscati dal burnout ( che i pazienti non possono permettersi ) e cambiano servizi e settori sanitari appena possono. Lasciare tutto il campo ai sacerdoti del sapere in psichiatria è una responsabilità non meno pesante che operare in senso medico – centrico nella sua più ovvia accezione. Si tradisce un mandato, si smette di credere e di sperare, si è modelli di arresa e si impedisce all’intera società di credere nella restituzione dell’individuo alla normalità. Non basta quindi solo puntare il dito.
    Roberto Cafiso, direttore DSM ASP Siracusa

  2. giformen

    Rifuggendo da discorsi approfonditi, e lasciandomi andare all’amarezza di alcune pensieri stimolati da singoli episodi, mi viene da pensare che questa psichiatria non sia più la mia psichiatria. Prescrizioni del Tribunale per cui una persona viene affidata in libertà vigilata ad un DSM per due anni per essere collocata “nella più idonea comunità psichiatrica di tipo chiuso” (cito testualmente dalla sentenza), ragazzini quattordicernni sospetti rei di ADHD (per chi non fosse addentro disturbo da deficit dell’attenzione ed iperattività) contenuti in pronto soccorso un attesa che arrivi lo psichiatra a prenderlo in braccio e cullarlo fino a che non si addormenta. E purtroppo non sto parlando di un servizio di qualche remoto anfratto del nostro paese. Anche se non so cosa troverò, e spero non delusione, aspetto il forum di Roma per comprendere se non siamo voci fuori dal coro.
    Gianmaria Formenti Como

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