vagabondo_scarpeDopo quattro anni di internamento nell’opg di Montelupo l’incubo diventa riscatto.

Nella vita non contano tanto i passi che fai, ma le scarpe usate e le impronte che lasci. «Anche se si cade, l’importante è come ti rialzi e vai avanti». Andare oltre, per Domenico, significa provare a buttarsi dietro la spalle quella conflittualità in famiglia che lo ha portato nel 2004 ad aggredire suo padre e a finire per quattro anni nell’ospedale psichiatrico giudiziario di Montelupo fiorentino. Indosso una diagnosi di paranoico con deliri. «Quando dalla libertà, ti trovi a vivere in cinque metri quadri con quattro persone impari ad adattarti, a rispettare il prossimo – racconta oggi che ha ripreso in mano la propria vita – ma il momento in cui, alla sera, senti serrare a più mandate la cella dietro di te ti senti morire». Da uno spazio d’annullamento però Domenico, fiorentino oggi 57enne con una compagna e lavoro recuperato, è riuscito a tirare fuori il buono per trasformare un incubo in un’occasione di riscatto. A mettere, insomma, uno dopo l’altro i tasselli giusti, a passo di corsa.

Le scarpe da running che in questi anni ha consumato non si contano più, tanto che in opg per tutti lui era il podista. «Nell’ora d’aria correvo nel cortile mezz’ora in un verso e mezz’ora nell’altro– sorride, quando si paragona ad un criceto in gabbia – perché questo mi aiutava a pensare meglio ». In quei quarantotto mesi «continuavo a ripetermi che ero lì per un’ingiustizia – è il suo racconto a bocce ferme – e che dovevo orientare tutta la mia rabbia in qualcosa di positivo, come lo sport e la cucina». Lo avevano infatti fatto passare come un patricida, quando invece la sua reazione «comunque esagerata» – ammette Domenico – alle parole di un padre padrone «violento con tutti in famiglia», era solo la sua ribellione ad anni di umiliazioni e bugie.

Oggi tutto è ancora scolpito nella mente, anche se quella pagina è ormai superata grazie a un progetto alternativo messo in piedi dal Dipartimento di salute mentale di Pistoia; un percorso terapeutico «che ti limita nelle scelte, ma porta a scavarti dentro», con tutto il dolore che implica. Comunque, «ringrazio Dio di aver avuto un mestiere tra le mani che mi ha aiutato a reagire», fa mentre continua a ripetere che anche se adesso ci ironizza su, sono stati i giorni più duri della sua vita. Pensava addirittura che non sarebbe mai più uscito: «Già mi immaginavo vecchio lì dentro ». E invece la sua rinascita parte proprio dalla cucina dell’opg dove, visto il suo impiego in una mensa aziendale prima dell’arresto, «ho potuto passare la maggior parte della detenzione senza rimuginare sul passato, pensando invece a guadagnarmi con il mio lavoro la stima degli altri». Così è riuscito a ricambiare la fiducia degli operatori. Da qui ha imparato a guardare i suoi compagni d’internamento come esseri umani sfortunati, non come pazienti da curare. E questa è stata la sua fortuna.

Libri, sport, la nuova avventura da studente d’infermieristica e la fede, poi, hanno fatto il resto. Per gli psichiatri «il merito è stato solo mio», ma continua a credere che «è stata la mano divina a guidarmi, perché dall’opg altrimenti non si esce». La sua è una religiosità vissuta in solitudine che «mi ha aiutato ad andare oltre la sofferenza»; oggi Domenico così è in grado di «guardare il mondo con occhi diversi» e di rifugiarsi nel «santuario dei veri valori». La mente va agli anni in opg senza nemmeno una visita degli amici e i pochi colloqui con la madre, eppure «nel Vangelo il Signore dice: Ero carcerato e siete venuti a trovarmi».Domenico ci ha messo una pietra sopra, ha dimostrato a se stesso e al mondo che è diverso da quel che si leggeva sulla sua cartella clinica. E questo basta.

(da Avvenire)

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