(Roberto Sambonet)
(Roberto Sambonet)

La malattia mentale non è mai stata la prima voce di spesa nei bilanci di salute pubblica. Un passo in avanti per rimediare alla posizione ancillare dei disturbi che colpiscono la sfera psichica è stato fatto lo scorso settembre, quando la Nazioni Unite, tra gli obiettivi dell’Agenda di Sviluppo Sostenibile da realizzare entro il 2030, hanno incluso per la prima volta la promozione della salute mentale e la riduzione di un terzo dei decessi causati da malattie non trasmissibili, inclusi appunto i disordini mentali (vedi). Secondo più di un osservatore internazionale si tratta di una presa di posizione storica (vedi), cui dovranno seguire politiche economiche e sanitarie all’altezza dell’intento: in molti Paesi del mondo la strada da percorrere è ancora lunga.

Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (vedi), gli Stati africani che dispongono di un sistema sanitario investono, laddove siano stati avviati, meno dell’1% in servizi psichiatrici (mentre nei Paesi occidentali la media varia dal 6 al 12%). Per intenderci: in Nigeria operano tre psichiatri, in Liberia ce n’è uno, in Sierra Leone nessuno. Nei luoghi in cui la malattia mentale non ha strumenti clinici di riferimento, a occuparsi dei malati sono le famiglie (in particolare le donne: mogli, figlie, sorelle) oppure, quando i familiari non ce la fanno più, i “campi di preghiera”, dove gli unici mezzi per affrontare psicosi e correlati sono preghiera e contenzione fisica.

Per avere un’idea di come venga concretamente trattata la malattia mentale in questi recessi religiosi, vale la pena rileggere i due reportage che la giornalista Benedict Carey ha scritto l’anno scorso per il New York Times  (riassunti qui con il titolo di Mental Health Care in Chainsvedi. Quello dedicato al Togo (vedi) si basa su un itinerario di visita che include nove campi di preghiera, che variano dalla dimensione familiare ai grandi centri di raggruppamento. Uno dei maggiori si chiama “Jesus is the Solution”. Qui, a breve distanza dall’area dedicata al culto, sono incatenati alle caviglie oltre 150 uomini e donne, le catene fisse a un albero o a blocchi di cemento. In Ghana, si legge nello stesso reportage, l’ONG Human Rights Watch (vedi) ha visitato otto campi di preghiera: di impianto evangelico o pentecostale, nel 2012 accoglievano circa 200 malati, tutti incatenati alle caviglie intorno a un albero, dove rimangono per settimane, mesi, a volte anni.

Ma se contenzione e reclusione sono ancora i mezzi più diffusi per affrontare la malattia mentale in molti paesi dell’Africa e dell’Asia, nei paesi occidentali le zone d’ombra non mancano e una di queste è il carcere. Una ricerca di qualche anno fa, condotta dal dipartimento di Psichiatria della Oxford University e dal Dipartimento di Salute Pubblica e Cure primarie della Cambridge University (vedi), con l’obiettivo di raccogliere dati clinici sullo stato di salute mentale dei carcerati in dodici paesi occidentali, conclude che il modo in cui la malattia mentale è trattata in questi contesti rimane nella maggior parte dei casi ignota. In Italia la chiusura degli OPG è stata un processo lento e travagliato, di cui ora andrebbero monitorati gli esiti  (vedi). Ed è proprio agli strumenti di monitoraggio e misurazione – parametri sempre sfuggenti nell’ambito della malattia mentale – che le Nazioni Unite stanno attualmente lavorando per avviare il percorso nella direzione prevista dall’Agenda 2030, mentre l’Organizzazione Mondiale della Sanità, per porre fine alla contenzione con catene, ha promosso una serie di iniziative specificamente dedicate (vedi).

A cura di S.Boggio

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