(foto di Raffaella Del Toso)
(foto di Raffaella Dal Toso)

di Francesca De Carolis.

S’è aspettato un po’ a dirlo. Forse un po’ per scaramanzia, forse un po’ perché dopo tanto dannarsi e tanto lottare contro le maglie di meccanismi paradossali e crudeli, c’è bisogno di riservarsi del tempo, c’è bisogno di tenere dentro di sé la gioia, accarezzarla con tremore, difenderla dal frastuono del mondo…

Ma la notizia è che Antonio (ne abbiamo seguito e raccontato la storia sulle pagine del forum – vedi in fondo il rimando agli articoli), finito poco più che diciottenne in un ospedale psichiatrico giudiziario grazie al perverso gioco di rimandi fra giustizia e psichiatria, è finalmente fuori.

Un’ordinanza del Magistrato di Sorveglianza del Tribunale di Reggio Emilia, del 4 febbraio scorso, riconosce inutile la misura detentiva in Opg, e mette Antonio in libertà vigilata, affidandolo al competente servizio psichiatrico territoriale di Vicenza e Trieste, accogliendo il progetto terapeutico riabilitativoche da tempo era pronto per lui.

A raccontarlo, quasi solo sussurrando, a spezzoni, emozionato come si può immaginare, è Peppe Dell’Acqua, che passo passo ha seguito questa vicenda con due giovani avvocati, Marco De Martino, napoletano, e Luca Alifuoco, vicentino. Una sorta di “soccorso rosso”. Sono arrivati fin davanti alla Commissione dei Diritti umani del Senato. E immaginate con quanta trepidazione in tanti, mamma e papà in testa, hanno atteso che il Tribunale di Sorveglianza si pronunciasse sul ricorso contro la condanna a quattro anni di Opg in misura di sicurezza detentiva.

Il Tribunale infine ha ascoltato e dato fiducia a chi pensa che Antonio ha semplicemente bisogno di riprendersi un po’ della sua vita. Il magistrato ha preso in considerazione quanto riferito dalla stessa equipe dell’Opg di Reggio: “l’attuale sistemazione non sembra essere in grado di garantire le prioritarie esigenze di cura, risultando eccessivamente sbilanciata dal lato del mero contenimento e della sicurezza collettiva, peraltro in modo comunque deficitario e a medio termine (laddove una cura mirata ed efficace coglierebbe nell’ulteriore intento di garantire una vera ed effettiva sicurezza sociale a lungo termine)”. E il nodo è proprio in questa considerazione messa tra parentesi, che una parentesi proprio non è: l’individuazione di ciò che davvero possa servire a curare Antonio, rispondendo “all’urgenza terapeutica di sottrarlo da luoghi chiusi e stigmatizzanti”, perché non è costringendo in schemi rigidi che ci salviamo dall’inquietudine che il confronto con la malattia mentale fa nascere in noi.

Varrebbe la pena di leggerla tutta l’ordinanza, nelle sue articolazioni, anche per gli elementi di umanità che vi si trovano, l’accenno alla giovanissima età di Antonio, la riflessione ponderata, sofferta anche, sulle misure adatte a tutelare sì la collettività, ma che siano per Antonio “la migliore cura possibile”, e non esasperanti nuove prigioni.

Evviva la legge 81!

Che se questo fosse stato il sentire, se questa fosse stata la logica seguita fin dal primo intervento dell’autorità giudiziaria, si sarebbero risparmiati ad Antonio gli ultimi due anni di buio e terrore. Alla luce dell’ordinanza del giovane magistrato appaiono oggi ancora più ingiuste le sentenze sorde e disumane che Antonio ha dovuto sopportare.

Appena fuori dalle mura dell’Opg di Reggio Emilia, Antonio ha telefonato a Trieste: “Peppe, è finito l’incubo .. sto andando a Trieste!”.

Ad aspettarlo all’uscita gli operatori del Dsm di Trieste e della piccola Comunità che lo accoglierà. Tra gli altri anche Matteo, lo psicologo della comunità familiare di Vicenza che l’aveva ospitato per due anni, prima del ricovero al Servizio di Diagnosi e Cura di Vicenza, dove era stato contenuto e infine avviato all’Opg. Proprio quel Matteo “vittima” dell’aggressione, secondo i giudici, che ha scatenato su Antonio l’inferno degli ultimi anni.

Poi prima sosta in autostrada, un panino al prosciutto e un selfie per mamma e papà. A Trieste sarà ospite inizialmente del Centro di salute mentale della “Maddalena”, il tempo per familiarizzare con gli operatori e con un altro Matteo, psichiatra, che è il coordinatore del programma “terapeutico riabilitativo individuale”. Il mattino dopo l’arrivo, con due giovani operatori della piccola comunità che lo ospiterà, è uscito per esplorare Trieste, che non aveva mai visto prima. Una lunga passeggiata in una ventosa giornata di sole. Poi a pranzo nella comunità educativa che ospita non più di sei ragazzi e ragazze, con un gruppo di operatori giovani e motivati. Credo abbia ricevuto l’abbraccio amoroso di Ornella. Una grande casa circondata da prati e alberi. E già si allarga il respiro…

Antonio è finalmente tornato “in un ambiente di cura, di vita e non di destino”, come dice Dell’Acqua. La fine di un incubo, viene da dire con lui. Ma non è la fine della storia. Che qui ricomincia.

Dopo due anni di strazio, le innumerevoli contenzioni di Castiglione delle Stiviere e l’isolamento durato 8 mesi in una cella dell’Opg di Reggio Emilia, l’ultimo incubo dei quali la sua vita pure è stata piena, c’è bisogno di tempo. Il tempo della cura. Che è, soprattutto, tempo di relazioni. Nel senso proprio del ritrovare a poco a poco intorno a sé persone che ascoltano.

Così, in questi primi giorni, Antonio è stato accompagnato per una lunga passeggiata in Carso, è andato a vedere il mare. Ha incontrato in una piazza di Trieste il suo amico Peppe e ha telefonato al senatore Luigi Manconi: “onorevole – ha detto – devo ringraziarla. Sono felicissimooo!”

Venerdì sera karaoke. La cosa che più desiderava. Gli piace cantare ed è anche bravo.  Ha cantato “un’altra vita mi darai..” (NdR: “L’emozione non ha voce”, Adriano Celentano)

Tra qualche giorno verranno a trovarlo i suoi genitori.

Quando avverrà, ci piacerà raccontarlo …

(di lui e della sua storia si può leggere sul forum che da sempre segue questa storia insensata:

Write A Comment