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di Silvia D’Autilia e Andrea Muni

[pubblicato su Charta Sporca il 3 Giugno 2016]

Durante la presentazione de La pazza gioia a Trieste, il 26 maggio scorso, Paolo Virzì ha raccontato a Charta Sporca il suo ultimo film, nel contesto di una conferenza stampa organizzata dall’associazione Articolo 32 e dalla Collana 180-Studio Sandrinelli al Posto delle fragole.

La pazza gioia è la storia di Beatrice Morandini Valdirana (Valeria Bruni Tedeschi), sedicente contessa appartenente a una ricca famiglia, e Donatella Morelli (Micaela Ramazzotti), ex cubista e madre di un figlio dato in adozione. Le due sono ospiti di una comunità terapeutica (Villa Biondi) per donne sottoposte a misura di sicurezza: sono donne da recuperare, da rieducare, che un giorno, di ritorno dall’ergoterapia, approfittano di un momento di distrazione del personale per prendere di soppiatto un pullman che le condurrà verso una folle avventura on the road.

La pazza gioia è il racconto di una fuga o forse di una speranza, la dolceamara celebrazione di un’evasione non soltanto fisica, ma soprattutto emotiva e psicologica. Le due protagoniste infatti – oltre a darsi alla “pazza gioia” – litigano, si scontrano, si ritrovano, si aiutano e si confortano, al punto che la trama del film potrebbe in buona parte essere considerata la scrittura dei loro altalenanti, labili e delicati umori.

Sì, certamente. Non posso negare che quando abbiamo deciso di affrontare un argomento così delicato, qual è quello del disagio mentale, inizialmente c’era un po’ di tremarella, benché tenessimo moltissimo a raccontare una storia in cui – proprio come nella realtà – gli aspetti più dolorosi e quelli più leggeri della vita si mescolano senza soluzione di continuità, senza essere separati col righello. È per questa ragione che abbiamo deciso di riflettere sulla sofferenza e sull’angoscia nella forma, decisamente inabituale, della commedia avventurosa. A questo scopo abbiamo cominciato col contattare persone, soprattutto psichiatri e operatori della salute mentale di cui avevamo letto libri e articoli. Dopodiché abbiamo fatto visita ai luoghi della cura, venendo a conoscenza di nomi specifici di diagnosi, di piani terapeutici e di pareri medici. Ma quello che c’interessava di più era capire le storie di ogni degente. Perché si trovavano lì. Quando la psichiatria diventa narrazione credo finalizzi le sue funzioni sociali. Così abbiamo cominciato a immaginare i personaggi di Beatrice e Donatella. Abbiamo anche immaginato il posto e poi pian piano lo abbiamo realizzato e costruito. Villa Biondi era un podere abbandonato tra le colline pistoiesi, abbiamo dipinto i muri, arredato le stanze delle degenti, realizzato un orticello e curato ogni dettaglio. L’icona ricorrente del cavallo blu, Marco Cavallo per chi conosce la storia di Trieste, è un simbolo, una cifra che rimanda a una trasformazione e a un processo di cambiamento che si è consumato nel nostro paese, ricordando che ogni luogo della cura può diventare una sofferenza. Le protagoniste scappano perché, nonostante tutto, hanno voglia di vivere, d’immaginare una realtà diversa.

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Tra le altre cose, quel che risalta nel film è il modo in cui sei riuscito a restituire in maniera profonda e realistica i rapporti umani. Colpisce l’accudimento reciproco tra le ricoverate, e in particolare tra le due protagoniste. Ad esempio, Donatella cerca di regolare la stravaganza e l’estrosità della Morandini Valdirana, e quest’ultima dal canto suo stempera come può l’estrema timidezza della Morelli. Credi che La pazza gioia, in questa apologia senza retoriche dell’amicizia, contribuisca a mettere in luce una prospettiva ulteriore della cura, che passa proprio per la valorizzazione dei rapporti umani, sia all’interno che all’esterno dei luoghi di cura?

Lo spero di cuore. I personaggi di Beatrice e Donatella sono contraddittori, conflittuali: devono confrontarsi con un passato che le ha segnate, per arrivare alla fine coraggiosamente ad assumersene la responsabilità, senza sprofondare nei sensi di colpa. Entrambe hanno alle spalle due calvari; entrambe hanno ricevuto poco affetto e stima dalle loro famiglie, ritrovandosi a sopportare la vita come hanno potuto. Hanno commesso degli errori, per cui giustamente hanno pagato, e nonostante i quali si sono sforzate di mantenere una qualche forma di contatto con quella realtà che – in più di un’occasione – era sembrata sfuggirgli irrimediabilmente dalle mani. L’ambizione del film è quella di creare un ponte, un punto d’incontro tra il pubblico e il privato: una sorta di crocevia culturale, capace di tenere insieme due aspetti che di solito abbiamo tutti la tendenza a dissociare, non solo quando guardiamo un film, ma anche in generale nella vita. Ho cercato un collegamento tra i momenti di forte immedesimazione emotiva nei drammi delle protagoniste, e i momenti in cui è quasi possibile guardare le due protagoniste dall’esterno, dalla giusta distanza. Non solo, avendo sul set, come attrici, delle ragazze in cura nei servizi, appositamente scortate da presidi medici, abbiamo vissuto tutta la confusione di non capire più chi venisse dalla scuola di arte drammatica, chi dalla follia di casa sua, chi dalla clinica, chi dallo spettacolo. Dopo un’inziale timidezza, la loro energia ci ha letteralmente contagiato. Sette attrici alla fine delle riprese hanno realizzato un video in cui davano a me una diagnosi psichiatrica, prescrivendomi l’annessa terapia farmacologica. Diciamo che la realizzazione di questo film è stata una specie di terapia di gruppo…

C’è, in Beatrice e Donatella, nel loro modo di essere “fuori dalle righe”, un’ironia – anzi, un’autoironia – che ci prende in contropiede, che ci fa sospettare al contempo della loro follia e della nostra normalità. Beatrice e Donatella conoscono minuziosamente le loro diagnosi, le definizioni che il DSM (Diagnostic and Statistic Manual of Mental Disorders) offre delle diverse patologie; sono straordinariamente informate sulle perizie che le hanno dichiarate “folli” e hanno una conoscenza puntuale dei farmaci e dei loro dosaggi (e sovradosaggi). Sembra quasi che le due donne abbiano talmente interiorizzato quel lessico e quelle parole della burocrazia, della psichiatria e della giustizia, da potersi ormai permettere di trattarle con disincanto e leggerezza. Come se ci fosse un limite, una certa soglia, superata la quale l’ironia e l’autoironia rappresentano le ultime armi per ritagliarsi un proprio spazio di immunità. Ne deriva un modo di essere così autentico, naturale e spontaneo che si fa davvero fatica a considerare “folle”, nel senso abitualmente peggiorativo che si dà a questa parola.

Beatrice e Donatella fanno di continuo i conti con il mondo fuori, devono lottare contro il pregiudizio che le ha segnate. Donatella, che era una cubista, durante la fuga viene riconosciuta da un uomo proprio a causa del suo passato; mentre nelle orecchie di Beatrice rimbombano le sentenze di una famiglia che non ha mai cessato di ritenerla “una deficiente che ha sperperato tutto il patrimonio familiare.” Il vero confine non sono le mura di Villa Biondi ma lo sguardo delle persone, uno sguardo che tutti abbiamo la tendenza a interiorizzare e da cui è importante riuscire a prendere le distanze. Le due donne vanno da una veggente per trovare una sorta di anticipazione del loro futuro, chiedono aiuto alla madre e al padre di Donatella, rintracciano Maurizio, padre del suo bambino, si recano a casa dei genitori di Beatrice e nella villa sull’Argentario di Pierluigi, l’ex marito. In ognuna di queste situazioni si scontrano con il ridicolo e l’assurdo: nessuno pare davvero disposto ad aiutarle. Tutti sono già alle prese con le loro difficoltà, troppo concentrati su quegli obiettivi, e in questo manicomio a cielo aperto che è la vita, le due protagoniste cercano come possono di ritagliarsi una speranza, di darsi una possibilità.

Quello che hai appena descritto sembra un tratto comune a molti dei tuoi film: seppure in modo sempre nuovo e diverso, sembra infatti che per te sia fondamentale evidenziare una certa vulnerabilità dei personaggi, nel senso di una coraggiosa capacità di restare aperti alla vita. Pensiamo al perbenismo quasi patologico de Il capitale umano, piuttosto che alle maldicenze de La prima cosa bella o allo sfruttamento vergognoso del lavoro cosiddetto “a progetto” in Tutta la vita davanti.

È vero, nei miei film ci sono, per così dire, molti casi clinici. Quando giravo La pazza gioia, venivo dalla ricca Brianza de Il capitale umano, dove la follia si annidava in seno agli agi di un benessere materiale incapace di garantire alcuna reale felicità. Carla Bernaschi, per esempio, era una donna ricca ma sofferente, mentre Valeria Golino, che interpretava la parte di una psicologa, si occupava di ragazzi problematici. La follia, o meglio la fragilità dell’umano, c’è in tutti i miei film. Eppure, con La pazza gioia ho voluto fare qualcosa di più: volevo trovare una risposta al dolore, valorizzando la presenza dell’altro quando si soffre. Ma soprattutto volevamo dire che si può essere vivi anche dopo che si è sbagliato, dopo che si è caduti. Quelle donne hanno sbagliato e forse continueranno a sbagliare, ma come tutti. Donatella si è macchiata di quello che è forse il peggiore reato che si possa commettere, eppure ha diritto a un’altra possibilità. Non si tratta di fare del facile buonismo, ma di far capire che non esistono persone intrinsecamente mostruose o pericolose, ma solo persone che, in condizioni di abbandono e stigmatizzazione sociale, possono perdere il controllo e il senso della realtà. Per esempio, non è una coincidenza che Donatella abbia commesso un gesto così grave e che sia una donna così sola e indifesa. La ferocia del mondo è sempre lì fuori, non è per niente facile tenerle testa e ne siamo al contempo sempre vittime e carnefici. Ne Il capitale umano questa ferocia del mondo è esemplificata dal cinismo dei broker che scommettono sui debiti dell’Italia: “avete scommesso sulla rovina di questo paese e avete vinto”, recita sul finale la Bruni Tedeschi. Allo stesso modo, nel copione de La pazza gioia, questa ferocia potrebbe declinarsi nella cinica scommessa sul valore di mercato delle nuove molecole utilizzate per creare gli psicofarmaci. Il capitale umano è un numero: nei linguaggi assicurativi è il valore statistico in base a cui è possibile stimare la capacità di ogni soggetto di generare reddito sulla base di parametri quali il sesso, l’età, la salute, il lavoro, la famiglia. La società odierna ha finito per sostituire la vita con questo numero, con questa variabile, confondendo il valore di una persona con la ricchezza che è capace di generare.

Dalla comunità al reparto di psichiatria, dall’ospedale psichiatrico giudiziario (Opg) fino al dispositivo giudiziario delle misura di sicurezza prescritte a chi, in presenza di malattia mentale, si sia macchiato di un qualche reato, il film attraversa le tappe salienti di molte “carriere psichiatriche”, facendo luce, in maniera non pedante, né banale, su quella che è ancora oggi la realtà dell’istituzionalizzazione. Quel che non accade nella realtà forse però è proprio la fuga…

Sì, in questo senso il film ha corso un po’ il rischio della fantasia. Ma neanche troppo se si ricorda che siamo in Italia e se si ipotizza che qualcuno potrebbe aver preso dei soldi per aiutare Donatella a lasciare l’Opg a mo’ di “io non ho visto niente”. Le istituzioni sono lo sfondo della trama, una minaccia costante per le persone che entrano in certi “circuiti”. Il più temuto è senz’altro l’Opg, che tanto terrorizza Donatella. Non appena vi ritorna il dottore parla chiaro: “speravo proprio di non rivederti qua, stavolta però niente cazzate.” A questo proposito vorrei ricordare che, proprio mentre realizzavamo il film, si svolgeva la campagna per la chiusura degli Opg, che oggi hanno preso il nome di Rems (Residenze per l’esecuzione della misura di sicurezza). Per capirci, si sconta una misura di sicurezza se si è stati riconosciuti pericolosi socialmente dopo aver commesso un reato, proprio come è successo alle due protagoniste in custodia all’istituto. Villa Biondi è una comunità protetta, che ospita donne in un clima tutto sommato accogliente. Tant’è che quando abbiamo smantellato la scenografia ho provato un dispiacere enorme: iniziavo a convincermi che Villa Biondi potesse esistere davvero nella realtà, e non come luogo a parte in cui rinchiudere l’altro, il diverso, bensì come posto in cui fare terapia di gruppo, tutti insieme. Ma un recinto, anche se prevede il canto, l’ergoterapia e le attività ricreative, è pur sempre un recinto, e la conferma si trova nel fatto che la fuga resta comunque l’unico vero spartiacque tra il manicomio della comunità e il manicomio del mondo di fuori.

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Possiamo dire che La pazza gioia è una sfida, ironica e sottile, a molti di quei pregiudizi che, nonostante tante chiacchiere, siamo ancora ben lontani dall’aver abbandonato?

Io credo, e spero, di sì: è un’occasione per dire che la paura è solo di chi ha paura. Duole dirlo, ma la nostra è proprio un’epoca della paura, in cui più di tutto temiamo i diversi, quelli di cui non riusciamo a sondare i desideri e i pensieri. Questa insondabilità, credo, è proprio ciò che ci fa temere che potrebbero toglierci quel poco che ci è rimasto.

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