slegalo_1Il corpo domato. La persona legata è la prima testimone della sconfitta del medico.

Ecco di cosa parla il libro di Giovanna del Giudice “… E tu slegalo subito”.

Quando vedi un uomo legato, tu slegalo subito” (Franco Basaglia)

Nei giorni scorsi abbiamo parlato di un caso di tentata censura manifestatosi ai danni della presentazione del libro della psichiatra Giovanna Del Giudice “… E tu slegalo subito”. Il clamore suscitato dalla notizia di cronaca ha paradossalmente oscurato il tema stesso trattato nel volume. La seguente scheda informativa intende sottrarre all’oscuramento ciò che deve invece essere sempre rimesso al centro dell’attenzione: l’argomento di quelle pagine e la finalità che esse si propongono. Solo così, infatti, è possibile comprendere e decostruire anche la logica che ne ha frenato la divulgazione.

Di cosa parla il libro

“… E tu slegalo subito” è apparso nel 2015 in una collana dell’editore meranese alphabeta, intitolata “180. Archivio critico della salute mentale”. Il sottotitolo circoscrive in modo chiaro l’argomento trattato: “Sulla contenzione in psichiatria”. Ecco la definizione di questa pratica: “Nella terminologia medica e infermieristica si parla di contenzione fisica per definire l’immobilizzazione parziale o totale di una persona in cura attraverso l’uso di cinghie, lacci, fascette, polsini, cinture, corpetti, bretelle, sedie e letti di contenzione o altri mezzi più o meno sofisticati. Nei manuali di psichiatria non si parla mai di contenzione, pur essendo tale pratica da sempre collegata al trattamento dei malati di mente” (pag. 193). La ricognizione teorica è preceduta da una prima parte (pagg. 21-190) che prende spunto da un doloroso fatto di cronaca, ossia la morte di un venditore ambulante – Giuseppe Casu –, deceduto dopo essere stato ricoverato, previa attivazione di un TSO (trattamento sanitario obbligatorio), nel reparto di psichiatria dell’ospedale Santissima Trinità di Cagliari. Secondo l’esame autoptico, Casu muore in seguito all’improvvisa manifestazione di una tromboembolia all’arteria polmonare. Si scoprirà poi che alcune parti del cadavere furono occultate e sostituite, rendendo impossibile tracciare un quadro causale esaustivo (con la conseguente labilità dell’attribuzione delle colpe). Fatto è che l’uomo, prima di morire, viene “contenuto” e sedato per ben sette giorni consecutivi. L’autrice è diretta testimone degli eventi, perché all’epoca (2006) rivestiva là il ruolo di direttrice del Dipartimento di Salute Mentale. “Il lavoro a Cagliari – scrive – è iniziato da quella morte. Sono rimasta a Cagliari per tre anni e mezzo, un tempo significativo per conoscere e operare; sono stata testimone e ho partecipato a una grande azione di rinnovamento nella sanità, e nella salute mentale in particolare, che ha coinvolto un’intera regione. Ho avuto esperienza piena di come il cambiamento in questo ambito possa determinare ancora, a trent’anni dalla legge 180, resistenze, conflitti e contemporaneamente come possa divenire motore di cambiamento e di visioni innovative anche in altri campi. Ho sperimentato in maniera diretta, quasi sulla mia pelle, come le lobbies e i poteri istituzionali possano far pressioni e influenzare i tecnici per contrastare il cambiamento in difesa di interessi e privilegi” (pag. 35). Tutta la prima parte del libro, dunque, narra la battaglia compiuta da Giovanna Del Giudice per giungere al risultato che si è prefissa: consolidare le pratiche territoriali di cura, relazionali e orientate alla persona (cioè al malato, non alla malattia), al fine di ridurre il più possibile il ricorso alla contenzione. Immaginandone, anzi, “una sua abolizione”. In linea con l’interpretazione dello spirito autentico della legge 180, l’obiettivo più vasto è comunque sempre quello indicato da Franco Basaglia, del quale Giovanna Del Giudice raccoglie l’eredità: latrasformazione della nozione stessa di “psichiatria” – secondo il paradigma manicomiale dominante prima della legge (ma come si vede tutt’altro che sconfitto), intesa come un complesso di meccanismi cautelari, per i quali il malato è sempre e comunque una potenziale fonte di pericoli per sé e per gli altri – in quella di “salute mentale”, che al contrario respinge in linea di principio qualsiasi ricorso a metodi basati sul restringimento della libertà individuale.

Negare la soggettività

Una persona legata è offesa nella dignità, negata nella soggettività e nel diritto. Inerme, abbandonata e priva di qualsiasi difesa, perde la possibilità di contrattazione, di resistenza. Violata e mortificata, è ridotta a corpo domato”, scrive Giovanna Del Giudice. La seconda parte del libro (“La contenzione fisica in psichiatria”, pagg. 193-316) è dedicata a ricostruire la genesi storica, l’estensione applicativa e a descrivere la fenomenologia della contenzione (sia quella fisica che quella farmacologica, tecniche peraltro spesso utilizzate contemporaneamente), e a ribadire che solo il suo completo superamento potrebbe ripristinare quel patto di fiducia tra operatori e assistiti spezzato da chi, legando, rende vano e intrinsecamente contraddittorio ogni tentativo di “cura”. “Non si potrebbe commettere più grave errore – scriveva John Conolly già nel 1856 – di quello di credere che un uso moderato della contenzione possa essere coerente con un programma generale di cure per ogni altro verso intergale, indiscutibile, umano. L’abolizione deve essere assoluta, altrimenti non riesce efficace” (pag. 218). Pur continuando a mantenere il focus critico sui residui della psichiatria manicomiale, inerenti una concezione “biologico-organicista” della malattia o dei disturbi mentali, qui il tetro universo della contenzione è esplorato in tutti i suoi angoli: “In particolare, nell’attuale organizzazione sociale, in situazioni di ricovero o di istituzionalizzazione, subiscono in maniera massiccia, o rischiano di subire tale trattamento, le persone anziane, indebolite da legami sociali e familiari labili o assenti, da una diminuita capacità cognitiva, perché dipendenti, in gran parte o totalmente, dalle cure dell’altro. Ma anche sono legati i disabili, gli adolescenti e i bambini e le persone con handicap. Non è raro che persone affette da tossicodipendenza vengano legate quando sono ospiti di comunità terapeutiche. Anche nel carcere, come prevede la riforma dell’ordinamento penitenziario del 1975, si può fare ricorso all’uso di mezzi di contenzione, anche se limitatamente a problemi di ordine pubblico” (pag. 196). La problematicità del paradigma incentrato sulla “cultura della pericolosità, della non comprensibilità, della non curabilità, del destino certo verso la cronicità” non si restringe dunque ai malati di mente, ma rivela ovunque il suo nucleo ideologico: privare il soggetto della sua soggettività, reificarlo, cosificarlo, ridurlo a corpo istituzionalizzato e definitivamente risolto in un oggetto da controllare. Sarebbe possibile estendere così l’elenco appena fatto e tracciare parallelismi con molti altri ambiti. Il primo che viene in mente è certamente la riduzione a “numeri” degli immigrati, quantificati e poi stoccati nei protocolli che dividono il loro doloroso universo in deceduti durante il viaggio e/o stipati nei CIE (centri di identificazione e espulsione). Sono le stesse procedure che mettono a tacere i bisogni, che li comprimono, li schiacciano, fino a farli risuonare solo nel grido inarticolato che poi deve essere silenziato con la violenza, al pari delle grida dei “folli”, anch’esse fatte ammutolire dai lacci e dagli psicofarmaci.

Rianimare la speranza

Nonostante la crudezza del tema trattato (“La contenzione – ha scritto nella prefazione Eugenio Borgna – frantuma ogni dimensione relazionale della cura, e fa ulteriormente soffrire esistenze lacerate dal dolore e dall’isolamento”), il tono adoperato da Giovanna Del Giudice non è sterilmente polemico e non rinuncia mai a sostenere le ragioni del cambiamento. “Questo non è un libro di denuncia, è un libro di speranza. Anche a Cagliari, dove era avvenuto un caso così drammatico, dove le sue parti anatomiche erano state trafugate e distrutte per non rendere possibile l’acquisizione delle prove, anche lì è stato possibile arrivare con un processo complesso all’abolizione della contenzione. Dobbiamo guardare in faccia le cose, nominarle, per poterle superare” (pag. 315). La speranza proviene da quella minoranza dei Servizi che dimostrano come sia possibile anche “fare a meno del legare”, dalle buone pratiche che fanno vincere i medici, la loro professionalità, certo non disgiungibile dalla loro umanità e quindi dal pieno riconoscimento dell’umanità di chi, in quel particolare momento, si trova esposto e in una limitata condizione di autonomia (al contrario: “La persona legata è la prima testimone della sconfitta del medico”). Chi lega, si potrebbe concludere, rinuncia a stabilire una relazione proficua con i propri assistiti e, sostituendo al progetto di cura un mero esercizio di contenimento, ne cancella i diritti fondamentali. Tentare di salvaguardare tali diritti e restituire la soggettività a chi ne ha patito la riduzione, è questo, in estrema sintesi, l’intento che ha mosso la scrittura di “… E tu slegalo subito” e il messaggio affidato ai suoi lettori.

(da: https://www.salto.bz/de/article/31102016/il-corpo-domato)

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