16388221_10212429828043950_4923863036953650941_ndi Peppe Dell’Acqua

L’incontro di Trieste ha segnato una data storica: la sorprendente fine, a 140 anni dalla nascita, del manicomio criminale, dell’ultima istituzione psichiatrica, dell’ultimo e arcaico luogo di segregazione. Chiude un ciclo di mezzo secolo di impegno. Marco Cavallo nitrisce di gioia ma non riesce a fermarsi deve continuare ad andare. Tutto cominciò con una Commissione parlamentare che, come si sa, nell’ottobre 2010, denunciò con parole insolite, dolorose e pesanti come macigni, la condizione di vita di 1.300 uomini e di 100 donne che abitavano, loro malgrado, i 6 Ospedali psichiatrici giudiziari del nostro Paese. Di fronte a quanto avevano visto lo smarrimento fu tale che decisero di chiedere consiglio al Presidente della Repubblica, e questo fu quanto mai irrituale. Sorpresi e sgomenti non sapevano cosa fare: documentarono con un video gli orrori e lo mostrarono al Presidente Napolitano. Il Presidente non perse tempo, chiamò Marco Cavallo, che conosceva da tanti anni, per chiedere aiuto. Sapeva che poteva contare su di lui. Nel comunicargli la sua pena non riuscì a trattenere le lacrime. L’imbarazzo dei corazzieri fu indicibile. Qualcuno dovette soffiarsi più volte il naso.

I manicomi criminali dovevano essere chiusi. Non c’era altro da fare.

La sera dell’ultimo dell’anno del 2012 si sentirono a telefono per gli auguri e Marco Cavallo lo esortò a parlarne nel suo tradizionale messaggio alla nazione. Il Presidente quella notte sorprese tutti. Per la prima volta, gli internati, gli ultimi, i reietti, i senza storia, i pazzi, i pericolosi furono ricordati a tutto il paese. Giorgio Napolitano disse: “luoghi   indegni per un Paese appena civile”.

Marco Cavallo comprenderà alla fine del suo viaggio la profondità dello sconforto che aveva colto i senatori. Ovunque l’assetto carcerario era prepotente e ineliminabile. Cibo, mense, docce, dormitori non potevano che essere così: inospitali. Era sempre più convinto ormai che l’orrore di cui aveva parlato il Presidente della Repubblica non stava nelle mura scrostate, nei cessi intasati, nei termosifoni malfunzionanti, nella qualità scadente del cibo.

Era l’insensatezza di quei luoghi la cosa più orrenda.

Nelle celle, uomini con storie diverse e drammatiche, spesso drammatiche solo per l’incomprensibile internamento, giungevano ad abitare e condividere quel piccolo spazio. Uomini che non si conoscono, costretti gli uni accanto agli altri. Ognuno suppone dell’altro la pericolosità e ne teme imprevedibili gesti e rischiosi comportamenti. Riuscire a sopportare una così inimmaginabile vicinanza dell’altro sconosciuto e reso ormai inconoscibile dallo sguardo e dalla parola della psichiatria, e del quale si ha timore, è una prova di dimensioni che a noi non è dato di intendere. I più finiscono per costruire un muro di resistenza intorno al proprio corpo e ai propri pensieri. Come la realtà che a causa della malattia non riusciva a contenere, ora l’internato nell’istituto cui non può opporsi non ha che un unico scampo: la fuga nella malattia, il rifugio nel delirio dove non c’è né contraddizione né dialettica. Una sorta di campana di vetro infrangibile. Gli internati si isolano così nella propria malattia, si rifugiano in essa, la coltivano e vi trovano conforto.

Marco Cavallo la notte di Capodanno non riuscì a prendere sonno. Sentiva una strana eccitazione, scalciava di rabbia e nitriva di gioia. All’indomani il Presidente lo chiamò: era arrivato il momento, bisognava tenersi pronti. Marco Cavallo era preoccupato, aveva paura di non farcela, di non avere più l’età, la forza delle idee, la vicinanza delle persone. Sentiva ostilità intorno come quando 40 anni prima furioso e risoluto aveva sfondato le mura di San Giovanni per affrontare i nemici e i professori sapientoni. Era forte allora, giovane, cocciuto come un mulo, indomabile. Erano passati 40 anni che per un cavallo sono tantissimi. Che si potesse perdere quella irripetibile occasione era il suo timore più grande.

Già a Montelupo Fiorentino, 10 anni prima, aveva dialogato con tutti gli internati. Una giornata memorabile e gioiosa. Gli internati lo incalzavano: finirà mai il manicomio criminale? Romperai queste mura come hai fatto a Trieste? Hanno detto che sono incapace? A me che sono pericoloso? Ma finirà mai la misura di sicurezza? Io, caro cavallo di Trieste, voglio andare in carcere, qui tu non sei più tu!

E lui aveva risposto che si, che accadrà e che verrà un giorno che del Manicomio Criminale si perderà la memoria e quelle parole suoneranno come parole vuote! Tornando a Trieste pensò che aveva esagerato, che si era fatto prendere dall’entusiasmo, come gli capitava spesso. Che dolore, ora, soltanto al pensiero di quante vite desiderose di vivere si era lasciato alle spalle. Un dolore e una tristezza che durarono a lungo.

Con la fine dell’inverno, il Presidente lo chiamò di nuovo: non c’era più tempo! Gli internati di Montelupo avevano parlato del magico incontro col cavallo e ora gli amici di Aversa, di Castiglione, di Reggio Emilia, di Barcellona Pozzo di Gotto e di Napoli lo aspettavano impazienti.

Con l’autunno tornò a nitrire e a scalpitare. Tutto era pronto. Il viaggio durò 2 settimane per quasi 5000 chilometri. Incontrò gli internati di tutti i manicomi criminali, il Presidente del Senato, gli studenti delle università di Torino e di Napoli, salutò Garibaldi a Genova sullo scoglio di Quarto prima di prendere il mare, accompagnò in corteo ballando e cantando “bella ciao” gli attori di due specialissimi teatri a Livorno e a Firenze, dialogò con i terremotati dell’Aquila, a Palermo fu accolto dal sindaco e da tante persone in una villa sequestrata alla mafia e si fermò a parlare e ad ascoltare fino a tarda notte. Ora poteva dire a tutti che qualcosa si stava muovendo. Che si poteva riprendere a sperare.

Venne la legge, le resistenze di psichiatrie e magistrature, le burocrazie, i populismi, il rischio ancora più minaccioso di piccoli e più terribili manicomi, i nemici di sempre e nuovi professori sapientoni e ancora e ancora e ancora.

I nuovi internati hanno chiamato Marco Cavallo da Pontecorvo, da Volterra, da Castiglione, gli hanno raccontato di fili spinati, di porte blindate, di telecamere in ogni angolo, di rigori e di isolamento. Tante Rems sono orribili e ancora più insensati luoghi di reclusione e di annientamento. Tanti operatori malgrado tutto cercano di fare del loro meglio. Troppi  giudici e psichiatri continuano a dire di incapacità, di pericolosità come parlassero del teorema di Pitagora, di un sacco di patate, di un motore di automobile. La grande nave sta affondando ma già da tempo navigli, flottiglie, imbarcazioni pirate si profilano all’orizzonte.

Il cavallo azzurro presto dovrà ripartire. Dovrà continuare a correre, altre battaglie ora lo attendono. Le diseguaglianze, le lobbies, le porte chiuse, i confini insormontabili continuano ovunque a riprodursi. Il Cavallo rischia sempre di ferirsi e di tornare a essere imbrigliato, rinchiuso, circondato da mura e filo spinato.

Ma nessuno potrà mai più  impedirgli di sognare e ai tanti operatori che si sono riuniti a Trieste, di sognare insieme a lui.

“Il sogno di una cosa migliore”.

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