Versione 2di Pier Aldo Rovatti [1]

La settimana prossima Trieste ospiterà un convegno internazionale sulla salute mentale e sui diritti del malato: The right [and opportunity]  to have a [whole]  life /Il diritto [e la possibilità] di vivere una vita [nella sua pienezza]  (http://www.triestementalhealth.org)

Trieste gode ormai da molto tempo di una leadership mondiale in questo campo per i motivi che tutti conosciamo bene. La chiusura dei manicomi che Franco Basaglia ha reso possibile, operando una vera “rivoluzione” proprio a Trieste negli anni Settanta, ha fornito un modello che in seguito è stato tradotto in pratiche virtuose un po’ dovunque e che ancora oggi viene continuamente studiato ed emulato: un modello di radicale trasformazione dell’istituzione manicomiale, ma anche un modello di rivoluzione culturale cioè di trasformazione dell’idea stessa di salute mentale.

Lo stigma sociale della follia sembra essere smantellato e quelli che chiamavamo “folli”, allontanandoli da noi “normali” anche solo attraverso questo banale gesto linguistico che ne penalizzava la diversità, sono tornati a essere persone, cittadini, soggetti, riacquistando i diritti che la cultura dello stigma negava loro. Tutto ciò è avvenuto e sta ancora accadendo in modo lento e faticoso, con un processo disseminato di resistenze che non si è certo concluso e necessita quindi di una elevata soglia di attenzione perché le idee e le pratiche di rinnovamento (e di riassetto istituzionale) vengano sempre di nuovo rilanciate per contrastare l’entropia di una società disciplinare e spesso sorda come è quella attuale.

Se gettiamo un sasso nell’acqua si producono cerchi che si allargano, ma presto l’effetto si spegne e la superficie ritorna piatta. Basaglia lo sapeva perfettamente e lo spirito del suo tempo lo aiutava a capire che buttando il suo poderoso macigno nelle acque stagnanti della malattia mentale e dell’istituzione manicomiale si sarebbe prodotto un sommovimento che si spingeva ben oltre il recinto della follia andando a toccare la questione stessa della salute di ciascuno di noi.

La battaglia a favore della follia sarebbe stata perduta in partenza se fosse rimasta circoscritta alla malattia mentale e non avesse promosso una lotta più grande per liberare la medicina intera dalle sue chiusure e dai suoi pregiudizi. Parlare di salute mentale significava parlare della salute di tutti. Basaglia sapeva anche che non bastava un solo sasso, potente che fosse, per opporsi ai controeffetti della stagnazione che avrebbero sicuramente ricomposto le acque e spinto indietro ogni rinnovamento.

E infatti, quarant’anni dopo la legge 180 (il punto di arrivo politico-istituzionale della sua battaglia), siamo ancora, per dir così, in trincea, ben lontani dalla possibilità di smobilitare le operazioni di lotta sia a livello di attività politica (vedi la recente chiusura degli Ospedali psichiatrici giudiziari, sopravvissuti fino a oggi, e il Disegno di legge 2850 in attesa di discussione parlamentare che intende dare attuazione concreta ai principi della 180), sia a livello di attività culturale (e qui il fronte è ancora popolato di cecità e grandi incomprensioni, anche a livello di senso comune).

Non sto parlando solo di storia passata o di una memoria da riattivare, anche se è molto opportuno farlo in tempi nei quali tendiamo perfino a dimenticare quello che è appena accaduto, perché i problemi sono qui, sotto i nostri occhi, la loro urgenza resta pressante e c’è un bisogno non procrastinabile di consapevolezza critica e iniziative pratiche.

Basterebbe domandarsi se ci rendiamo davvero conto di cosa significhi il titolo stesso “salute mentale”. Abbiamo ormai compreso che questa espressione abbraccia l’intero percorso di una vita, dall’infanzia fino all’età avanzata. Facciamo ancora fatica, ma abbiamo anche capito che essa non riguarda solo “gli altri”, quelli che sono affetti dai cosiddetti “disturbi”, perché la vita in questione è proprio la vita di ciascuno, che risulta sempre più accerchiata dallo sguardo e dalle premure di una società che ormai si caratterizza o tende a diventare una società del controllo terapeutico degli individui. Medicina preventiva e supporti psicologici (e psichiatrici) premono quotidianamente su di noi con una cultura medicalizzante che ci mette dentro un doppio vincolo: ci vincola positivamente con pratiche di “vaccinazione” che non possiamo rifiutare, ma ci lega al tempo stesso all’orizzonte della malattia potenziale e degli scompensi psichici già osservabili nei bambini.

Dovremmo concludere che, se siamo sempre più aggiornati (e minacciati) sulla “carriera di malattia” cui potremmo essere destinati, non sappiamo quasi nulla della “carriera di salute” che tutti vorremmo intraprendere. Di ciò conosciamo ben poco anche perché l’idea di “salute”, che dovrebbe stare al centro dell’interesse culturale, scivola molto spesso in una zona d’ombra e appare di conseguenza abbastanza vaga e incerta. Cosa significa “salute” per il senso comune? Benessere? Felicità? Ecco il punto sul quale la nostra cultura critica mi pare in ritardo, non convincente, e comunque poco attrezzata a rispondere davvero all’ondata consumistica che ogni giorno ci propone ricette (letteralmente!) per stare meglio e sentirci in forma.


[1] da Etica minima in “il Piccolo” di Trieste del 10/XI/17

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