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Di Peppe dell’Acqua

“Il mio amico Goffman mi diceva che uno psichiatra può recarsi senza alcun disagio, anche senza conoscere la lingua, in qualunque manicomio del mondo perché la scena e le quinte non cambiano mai. Si troverà sempre col suo schizofrenico, col suo infermiere, col suo assistente o col suo direttore.” Così Franco Basaglia per commentare quanto riportava dai suoi viaggi, ma soprattutto per dire dell’immutabilità e della ripetitività di quei luoghi. Di paese in paese e di tempo in tempo i manicomi restano immutabili. Atteggiamenti, posture, sguardi, orrori, sempre gli stessi quelli che Basaglia troverà entrando a Gorizia e ancora gli stessi dieci anni dopo  quando io sono entrato a Trieste nel 1971. Gli stessi che ho visto di recente in Europa entrando negli ospedali psichiatrici di diversi paesi (si, ci sono ancora!).

La scorsa settimana, stavo sfogliando “Morire di classe” in preparazione di un incontro con gli studenti di un liceo, al GR1 3 brevi servizi “per cominciare a ricordare i 40 anni della legge 180”. Tre reportages il primo da Roma che senza mezzi termini riferiva dell’incolmabile carenza di personale, delle numerose cliniche e strutture private costosissime e produttrici di cronicità e abbandono, delle porte chiuse, grigiore e violenze e dell’eterno grido di dolore di una madre (il riconfermato Zingaretti vorrà fare qualcosa ?). Il secondo dal Veneto per dire della protesta dei familiari che vedono i loro figli annientati da fiumi di psicofarmaci e ancora cronicità, centri diurni infantilizzanti, porte chiuse, contenzioni. Il terzo da Reggio Calabria. Qui mi mancano le parole. La giornalista ha parlato di scarafaggi, di lividi, di braccia rotte. Di “reparti psichiatrici” situati nei luoghi più cupi e osceni degli ospedali civili. Di assenza totale di una qualsiasi logica se non l’evidenza dell’abbandono e della , ho pensato. Prima un senso di fastidio: è così che si parlerà alla radio e sui giornali della legge 180? Ho dovuto tuttavia riconoscere, pur nella superficialità sconcertante del servizio, la verità di quelle parole.Come non pensare alla vuotezza angosciosa dei diagnosi e cura, di troppe Rems, delle debordanti, misere e inutilmente costose strutture residenziali,  dei tanti luoghi detti terapeutici che non possono che riprodurre quelle stesse insensate atmosfere.Le foto che avevo sotto gli occhi,i reportages dai manicomi degli anni di Gorizia documentavano con forza rara quanto si andava scoprendo con le prime timide e osteggiate aperture.

Nelle foto di Carla Cerati, di Berengo Gardin, di Uliano Lucas, di Luciano D’Alessandro, s’impone violenta l’assenza: sottrazione di tempo, d’identità, del diritto, dell’“umano”.

Gli uomini che affollano i cortili circondati da alte mura, che si muovono instancabilmente in un vuoto di senso. Tanti, fiaccati, distesi immobili: figure indecifrabili, immagini senza tempo.

Le parole della giornalista non mi prendevano di sorpresa. So bene che“quotidiani crimini di pace” accadono ovunque e quotidianamente. Non possiamo smettere di scandalizzarci. Non possiamo restare indifferenti. Nell’ambito del forum salute mentale, delle associazioni, delle cooperative sociali da tempo andiamo manifestando i nostri timori. La posta del forum ( e la mia mail) riceve quotidianedenunce e richieste di aiuto per le impensabili insansatezze che accadono. Da tempo ormai il ministero della salute ha deciso di lasciare all’ultimo posto la salute mentale. La Società italiana di epidemiologia psichiatrica continua con serietà a documentare le disparità regionali, le miserie degli investimenti, la mancanza di una reale volontà di governo. Cosa accadrà ora?

Il disegno di legge (vedi) presentato in Senato lo  scorso settembre e ora a ruolo col numero S2850 sarà un banco di prova per tutti noi e per i governi che verranno.

Finalizzato allo sviluppo e all’attuazione dei principi della legge 180, il Ddl  invoca attenzione, discussione e impegno per far fronte al declino delle culture, delle organizzazioni, delle politiche della salute e per valorizzare e moltiplicare le sorprendenti rimonte di migliaia di persone che vivono l’esperienza del disturbo mentale.Successi e rimonte possibili proprio in ragione del diritto riconquistato, delle cure, dell’abbandono di pratiche prepotenti e mortificanti, di servizi che si sono sviluppati nel nostro paese nel solco tracciato dalla deistituzionalizzazione e dalla legge del ’78. L’obiettivo del Ddl è quanto mai “semplice”, direi alla nostra portata: concreta attuazione, in tutto il territorio nazionale di misure adeguate per garantire l’effettivo accesso ai diritti, alle cure, a percorsi di emancipazione, al budget di salute, alle possibilità di ripresa individuali.  Il Ddl richiama i servizi, le regioni e le magistrature a particolare sollecitudine e vigilanza nell’attuazione del Tso e delle misure di sicurezza. Un ruolo molto incisivo dovranno avere le persone con l’esperienza, i familiari, i cittadini e le loro associazioni.

Gli eventi che accompagneranno, con gioia immagino, i primi 40 anni della 180 dovranno essere occasione per interrogarsi sul che fare. Il panorama politico è radicalmente cambiato e a maggior ragione dobbiamo convocarci e stare insieme. In questa confusa incertezza che stiamo vivendo abbiamo bisogno di riconoscerci, di tessere reti più fitte, di stringere alleanze, di entusiasmare tanti compagni di lavoro e tanti giovani operatori che sono sfiduciati e scettici. Bisogna, malgrado i tempi, riscoprire il coraggio e la passione civile che hanno accompagnato il difficile cammino dei 40 anni del cambiamento.

Cosa faranno i governi che verranno? Le incognite che abbiamo davanti possono togliere il respiro e ogni possibilità di guardare oltre.

È necessario esserci, dire la propria presenza, trovare il coraggio di raccontare i quotidiani crimini di pace che siamo costretti inerti a testimoniare, aprire un ampio confronto che ci aiuti a mettere in campo proposte, progetti, “sogni”, dare evidenza a tutte le straordinarie esperienze che accadono, riportare sulla scena i

soggetti, le persone, i protagonisti. Ricominciare.

Foto di Berengo Gardin

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