Giù i muri. Franco Basaglia, in una foto del 1973, insieme a un gruppo di pazienti abbatte una delle recinzioni dell’ex manicomio di Trieste 1978. Quarant’anni fa il via libera alla legge sulla chiusura dei manicomi in Italiadi Lidia Catalano

Antonella è stata l’ultima a lasciare la città dei matti. È così che chiamano ancora oggi, bonariamente, l’ex manicomio di Trieste, perno della rivoluzione guidata da Franco Basaglia e culminata, 40 anni fa, nell’approvazione della legge sulla chiusura degli ospedali psichiatrici in Italia. A guardarlo oggi, questo complesso vivace di padiglioni giallo ocra incastonato nel parco collinare di San Giovanni, con il suo viavai di studenti e professori della vicina Università, triestini che fanno jogging con il cane e bambini che giocano a pallone, si fatica a immaginare che per decenni sia stato un contenitore di violenze, diritti negati, identità sradicate. Per trovarne traccia bisogna arrampicarsi per sei chilometri sull’altopiano del Carso e suonare al campanello di una casetta con giardino nel borgo di Opicina, dove abita una delle ultime testimoni di quello che Basaglia definì «l’annientamento dell’individuo messo in atto dall’istituzione psichiatrica». Ci accompagna Carla Prosdocimo, una vita spesa come operatrice all’ex manicomio e oggi amministratrice di sostegno di Antonella. «La Anto – racconta – non è stata riconosciuta alla nascita. Così nel 1951 è finita in un orfanotrofio, dove nel giro di pochi anni le sue condizioni sono precipitate». Il destino di Antonella è racchiuso in due certificati del pediatra. «Il primo, quando ha poco più di un anno, dice che la bambina ha qualche difficoltà di sviluppo del linguaggio ma se inserita in ambiente idoneo può recuperare». La raccomandazione viene ignorata, tant’è che quattro anni dopo il medico dichiara: «Antonella è affetta da frenastesia di grado elevato». Tradotto: intelligenza prossima allo zero, nessuna possibilità di recupero.

A nove anni, ancora bambina, Antonella varca per la prima volta le porte del manicomio di Trieste. «L’hanno mandata al Ralli, il reparto infantile. Un ricettacolo di tutta l’infanzia perduta, povera, abbandonata. Ci finivano anche tanti profughi istriani, figli di nessuno. Sai come canta Cristicchi in quella canzone che ha vinto a Sanremo? La mia patologia è che sono rimasto solo. Ecco, la solitudine era la loro malattia».

Antonella adesso vive insieme ad altri due ex internati in una casa accogliente, con il parquet nella camera da letto e il caminetto nel soggiorno. Alla parete c’è un grande quadro realizzato durante un laboratorio di pittura. Sulla libreria, in file ordinate, gli album delle vacanze: la Maremma, l’isola d’Elba, le gite al borgo carsico di Samatorza, le estati al mare in Croazia. «Adora prendere la tintarella – racconta Carla -. In questo è proprio una triestina doc, perché qui tutti stanno al sole da marzo a ottobre e anche nelle giornate limpide d’inverno. Credo che per lei rappresenti finalmente l’opportunità di vivere il proprio corpo come veicolo di benessere e non di dolore».

A 13 anni Antonella passa dal padiglione dei bambini a quello delle donne agitate. «Il famigerato “O”, dove elettroshock, camicie di forza e celle di isolamento sono la quotidianità». Per i medici però la terapia non è sufficiente. La ragazza continua ad essere inquieta, aggressiva verso se stessa e gli altri. Chiedono che venga sottoposta a lobotomia frontale. «L’hanno mandata a Torino per l’operazione, poi è tornata qui», spiega Carla.

Nel 1971 a dirigere il manicomio di Trieste arriva Franco Basaglia, chiamato dall’allora presidente della Provincia Michele Zanetti a completare l’opera di smantellamento dell’istituzione psichiatrica già avviata dal medico veneziano durante la precedente esperienza a Gorizia. «Quando mise piede per la prima volta in manicomio fu colpito dall’assenza», ricorda Peppe Dell’Acqua, uno degli allievi e divulgatori del pensiero basagliano. «Vide davanti a sé centinaia di corpi ma nessuna persona. Gli individui erano ridotti a oggetto, non c’era altro che la loro malattia».

Inizia così una lenta opera di restituzione dell’identità, a partire degli effetti personali, gli abiti, le fotografie, le spazzole per i capelli. Basaglia chiede a medici e infermieri di liberarsi del camice e del loro ruolo di carcerieri, di semplici tutori della tranquillità sociale. «Per la prima volta – spiega Dell’Acqua – veniva messo in discussione l’approccio positivistico alla medicina e il rapporto di sottomissione gerarchica tra medico e paziente».

Nel 1973 Basaglia rilascia un certificato su Antonella, che allora ha 22 anni e ha smesso da tempo di parlare. «La paziente non può restare in cattività nel padiglione agitate. Bisogna iniziare con lei un graduale percorso di recupero». Viene trasferita in una casetta all’interno del parco di San Giovanni, insieme ad altri casi difficili. «Era completamente assente – ricorda Carla – passava la giornata seduta su una panchina a dondolarsi. Aveva assunto quell’atteggiamento di rinuncia tipico di chi sa che la propria parola e la propria esistenza non hanno alcun valore».

Giorno dopo giorno, lentamente, Antonella recupera il coordinamento motorio, inizia a partecipare ad attività e laboratori e trasforma i pochi suoni gutturali che escono dalla sua bocca in parole e frasi di senso compiuto. «Non esistono persone con cui non è possibile intraprendere un percorso terapeutico – spiega Roberto Mezzina, attuale direttore del dipartimento di salute mentale -. Con Antonella è stato fatto quello che ancora oggi caratterizza il “modello Trieste”, scelto come riferimento dall’Organizzazione Mondiale della Sanità». Un modello che mette al centro la guarigione non in senso puramente clinico, ma della persona nel suo complesso. «Ci riusciamo grazie a una struttura di intervento ramificata sul territorio, con quattro centri di salute mentale aperti 24 ore al giorno, a cui ogni anno si rivolgono circa 5000 utenti. Abbiamo medici e operatori che seguono le persone a domicilio e una rete di associazioni e Cooperative sociali che organizzano attività finalizzate all’inclusione sociale e al reinserimento lavorativo. Grazie a questo approccio siamo riusciti ad abolire ogni forma di contenzione fisica, purtroppo ancora diffusa in Italia, nonostante rappresenti una delle più terribili violazioni di diritto che la psichiatria possa compiere». Oggi Antonella ha una casa con nome e cognome sul campanello, due volte alla settimana va a trovare i suoi amici al «Posto delle fragole», l’affollatissimo bar del San Giovanni gestito da pazienti con disturbi psichiatrici e frequentato da tutti i triestini. «Ogni tanto – racconta Carla – la sera va a cena fuori. Sa che cosa ordina? Gli spaghetti. Per lei sono il frutto proibito. In manicomio non glieli davano, perché le forchette erano considerate oggetti pericolosi. Si mangiava solo riso o pasta corta, col cucchiaio». Per Antonella gli spaghetti sono simbolo di libertà. «Quella libertà che senza la battaglia combattuta da Basaglia non avrebbe mai potuto assaporare».


Da vedere anche il videoreportage: 40 anni dopo la legge 180:

La foto: Giù i muri. Franco Basaglia, in una foto del 1973, insieme a un gruppo di pazienti abbatte una delle recinzioni dell’ex manicomio di Trieste 1978.

Articolo da –>http://www.lastampa.it/2018/05/04/italia/dal-manicomio-alla-libert-lultima-paziente-di-trieste-salva-grazie-a-basaglia-lnS9XbCYiBaachwKEebYiK/pagina.html

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