(@thewilliamanderson)
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Mi chiamo Elena, ho cinquantatrè anni e vivo a Trieste. La mia esperienza personale di sofferenza mentale è la mia schizofrenia che risale agli inizi degli anni ’90. Mi si presentò d’improvviso quando mi trovavo a un corso di perfezionamento per insegnanti di lingua tedesca in Germania a Monaco di Baviera. Ero all’ epoca insegnante di tedesco. Ero sposata, laureata in lingue con centodieci e lode, avevo incarichi di supplenza a scuola per l’insegnamento del tedesco, un futuro dinanzi a me fatto di sogni, ambizioni di carriera e una grande motivazione alla ricerca storico-letteraria, cui mi ero dedicata durante il lavoro di tesi.; mi affascinavano cultura, storia e letteratura dei tedeschi che vissero nelle colonie lungo il Volga. Era stato il tema della tesi di laurea. Proprio negli archivi di Monaco avrei voluto approfondire le mie ricerche.

A Monaco incontro invece la follia.

Scompaiono d’improvviso, come una bolla di sapone, tutti i miei sogni, le mie aspirazioni, le mie ambizioni, i  miei progetti e vengo ricoverata nel terribile ospedale psichiatrico di Haar. Così ha inizio la mia schizofrenia.  Oggi vengo curata con farmaci e regolari colloqui con lo psichiatra e la psicologa. Partecipo al lavoro di Articolo 32, un gruppo di partecipazione di persone con l’esperienza del disturbo mentale,  che si impegna per i diritti delle persone con disturbo mentale  affinché ognuno di noi sia protagonista consapevole della propria ripresa (recovery) e del p processo di  crescita (empowerment). Ho partecipato al corso di formazione di 300 ore di peer support, sostegno tra pari, sempre nell’ambito dei programmi del Dipartimento di salute mentale, presso l’istituto Enaip di Trieste, anche per conoscere più a fondo la natura del disturbo mentale. Dopodiché ho lavorato come peer nei quattro centri di salute mentale della mia città.

Sono nata e vissuta a Trieste, sono bilingue, di origini slovene. La mia follia non si esprime né in sloveno, né in italiano, bensì in immagini persecutorie e deliranti che mi costringono ad avere comportamenti particolari che non ho in assenza di sintomi, ovvero in assenza di situazioni mentali persecutorie e deliranti. In seguito ai sintomi la mia percezione del mondo che mi sta attorno si trasforma, anche il mio linguaggio assume connotazioni agli altri incomprensibili, assurde.

Amo infinitamente la storia, la cultura, la lingua, la letteratura del mio popolo, quello sloveno, amo Trieste, la mia città, con la bora dispettosa, il mare splendido, la quiete del Carso. Le mie origini sono a Barka, un piccolo paese della Slovenia. Lo sloveno è la lingua del cuore, è la lingua degli affetti, della famiglia; l’italiano è la lingua dell’Università  dove ho perfezionato le conoscenze scolastiche, le competenze acquisite nelle scuole con lingua di insegnamento slovena, a Trieste. Amo tutte e due le lingue, indistintamente, infinitamente l’italiano, perché è stata la lingua in cui mi sono dedicata con impegno e passione agli studi universitari, infinitamente lo sloveno perché è la lingua dei miei nonni. A casa mia, in famiglia, non parlavamo l’italiano, si parlava sloveno misto al dialetto del mio paese e spesso usavamo il dialetto triestino.

Mi impegno quotidianamente nel difficile compito di mettere la mia schizofrenia tra parentesi come ha insegnato Franco Basaglia, che prima a Gorizia poi a Trieste, si è impegnato affinché venissero riconosciuti gli essenziali diritti umani alle cittadine e ai cittadini che devono convivere con il loro disagio mentale. Franco Basaglia aprì le porte del manicomio di Trieste sostituendolo con strutture aperte ventiquattro ore su ventiquattro, i centri di salute mentale, dove noi  che abbiamo problemi di salute mentale veniamo accolti e curati. Per tutti si cerca di garantire la libertà di vivere la propria vita all’interno delle relazioni e del contesto sociale.

Da qui prese avvio la legge 180.

Metto la mia malattia tra parentesi impegnando le mie energie fisiche e mentali a sviluppare il capitale umano che è in me. Amo la mia schizofrenia semplicemente perché è parte di me, e nonostante il disagio e il dolore che molte volte mi ha causato, mi ha dato occasione di vivere una dimensione esistenziale altra, ad altri sconosciuta.

Amo  i rapporti umani, se noto un’ingiustizia dico francamente come la penso. Sono molto diretta e il mio comportamento spesso non è gradito anche a causa del pregiudizio che avverto su di me.  Mio marito Vittorio è stato il mio salvatore quando è venuto a prendermi   in automobile nel terribile ospedale psichiatrico di Haar.  Ho un figlio, Thomas, ha ventidue anni. L’unico periodo in cui non avevo nessun bisogno di assumere farmaci, sono stati i nove mesi di gravidanza, per me uno stato di grazia, un dono immenso di valore incommensurabile.

Dal periodo di Monaco in cui è comparsa la mia follia per la prima volta, mi si è ripresentata molte altre volte; da quella volta ho dovuto ricorrere ai servizi di salute mentale della mia città con i quali tramite gli operatori trattengo un rapporto continuativo che nei momenti di crisi talvolta si interrompe e io sono tentata a rifiutare qualsiasi cosa costringendo me e gli operatori a interminabili negoziazioni e a brevi ricoveri nel servizio di diagnosi e cura e a  periodi di ospitalità nel Centro di salute mentale del mio distretto. Per me significa constatare lo sconforto di  una ripetizione di stati d’animo vuoti, situazioni di profonda sofferenza e un susseguirsi di sconfitte mie personali umane e sociali che mi debilitano e mi fanno regredire e stagnare nella disperazione, nella sofferenza, nel dolore più profondo.

Il gruppo peer support mi aiuta molto nei momenti in cui sto male. I peer sono miei pari, vivono come me l’esperienza del disturbo mentale; da loro vengo considerata, ascoltata, capita e rassicurata ogni volta che ho bisogno di forza per impegnarmi a superare i momenti di crisi.

Quando i sintomi mi invadono provo orrore e paura e mi sono negate felicità e meraviglia. Quando invece i miei sintomi sono contenuti e silenti, sto bene, sono felice e svolgo con piacere ed entusiasmo le normali attività quotidiane, organizzo incontri culturali bilingui nella mia città, scrivo poesie, vivo la meraviglia dell’incontro con le persone.

Che cosa è per me la felicità?

Per me è molte cose la felicità. Ad esempio, svegliarmi la mattina presto, e iniziare una nuova giornata tutta da scoprire, vivere, inventare. Felicità è andare di mattina presto in cucina, in silenzio facendo attenzione a non far nessun rumore. Felicità è aprire le finestre, fare entrare luce e aria, osservare i colori del cielo, il volo dei gabbiani, ascoltare, il cinguettio degli uccelli e  in lontananza il rumore delle automobili che stanno andando.

Amo cantare e ballare, amo la musica, classica, country e i canti sacri sloveni. Amo ascoltare Bruce Springsteen che mi sprona a vivere e a combattere.

Da piccola avrei avuto bisogno di un padre che non ho mai avuto. Non l’ho mai conosciuto. Tutti i papà delle mie amiche rappresentavano per me un sogno che mai si poté realizzare. Li osservavo tutti, incantata, con ammirazione e reverenza.

Ho scoperto dopo la diagnosi della mia malattia, in un lunghissimo e difficilissimo processo di ripresa, che la mia felicità sta in piccolissimi gesti banali che costruiscono la mia quotidianità. Il caffè che ho preparato io, senza zucchero, bevuto dalla mia tazzina preferita; la voglia che nasce in me di indossare uno dei jeans che ho e sono felice quando ho voglia di scegliere uno tra i miei jeans.

Felicità è sentirmi dire da Vittorio che la mia schizofrenia non sono io ed è solo una diagnosi, non è la mia persona. Perché, mi ricorda mio marito, io sono molto di più, sono moglie, madre, insegnante, amica, peer support, casalinga, persona impegnata. Quando me lo ricorda mio marito sono felice poiché lo stigma nei confronti di noi malati mentali esiste. Amo la mia follia perché fa parte di me. La guarigione è uno dei miei obiettivi, naturalmente, ma per me è più importante vivere la mia vita dignitosamente con la mia malattia.

Trieste, agosto 2018

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