conferenzaDi Angelo Fioritti, psichiatra

Cinquant’anni dopo l’avvio della deistituzionalizzazione italiana, quarant’anni dopo la legge 180, venti anni dopo il Progetto Obiettivo Salute Mentale, dieci anni dopo l’avvio della chiusura degli OPG, non viene meno l’attualità di un interrogativo che oggi più che mai richiede riflessioni, risposte e azioni: i servizi italiani sono servizi psichiatrici o servizi di salute mentale?

Non si tratta di mera teoria.

La psichiatria, ce lo ha ricordato recentemente Benedetto Saraceno con un coraggioso libretto sulle sue povertà, è una disciplina fondamentalmente biomedica, storicamente fondata, finalizzata alla cura dei sintomi e delle malattie mentali. Le sue basi scientifiche non sono molto solide ed è sempre in bilico tra istanze di libertà ed istanze di controllo sociale. Ne conosciamo diverse versioni storiche e nella contemporaneità si declina in varie parti del mondo con modalità radicalmente differenti. Alcune di queste, in particolare quelle pesantemente istituzionalizzanti, quelle radicalmente biomediche, sono di grave ostacolo alla tutela della salute mentale. In fondo, il nocciolo della questione sollevata da Basaglia stava essenzialmente nella iatrogenicità della cura psichiatrica in manicomio.

La maggior parte degli psichiatri italiani sono professionisti seri, eticamente fondati, preparati e desiderosi di fare il bene dei propri pazienti. Non è questo il punto. Il punto è che non è scontato che un intervento psichiatrico anche tecnicamente fondato, un servizio psichiatrico orientato scientificamente, sia realmente un servizio di salute mentale. In sé la psichiatria nasce dall’aver raccolto il mandato sociale di cura e custodia, di riparazione di una mente che si è ammalata e di tutela (in tutti i sensi) degli stessi ammalati. Come porsi rispetto a questo mandato che di fatto persiste e si ripresenta in forme anche non immaginabili qualche anno fa è probabilmente il problema che accomuna tutti i nostri servizi e che determina la effettiva possibilità di essere registi dei processi di cura nel territorio.

La salute mentale è un bene comune, individuale e collettivo. È un diritto umano fondamentale, tutelato da diverse convenzioni internazionali vincolanti e da un corpus normativo nazionale e regionale. Non è una qualità intrinseca della persona, ma è il frutto della interazione tra l’unicità psicobiologica di un individuo ed il suo ambiente, con l’ambiente che presenta fattori favorevoli o di rischio per la salute mentale.  Inoltre, la salute mentale della popolazione è un fattore di grande rilievo per lo sviluppo economico, sociale e culturale di una comunità.

La salute mentale consiste nella possibilità di esprimere e realizzare il proprio potenziale, con armonia tra pensiero, emozioni e comportamenti, in modo diverso nelle diverse fasi della vita, riuscendo a contribuire validamente alla propria comunità. Non coincide con l’assenza di disturbi mentali. Persone senza disturbi mentali possono avere scarsa salute mentale, mentre persone con disturbi mentali persistenti possono recuperare buona salute mentale e realizzare appieno il proprio potenziale. Persistere a lungo in condizioni di scarsa salute mentale è per altro un fattore di rischio per sviluppare disturbi mentali.

La salute mentale individuale e della popolazione è fortemente condizionata da variabili ambientali, i cosiddetti determinanti sociali della salute mentale. Esistono strategie ed azioni globali e locali per ridurre i fattori di rischio ed incrementare la funzione sociale di promozione e protezione della salute mentale. Per questo, un aspetto fondamentale dei servizi che si definiscono di salute mentale dovrebbe essere l’impegno nella propria comunità, per condividere e promuovere scelte politiche ed amministrative coerenti in più settori: sicurezza sociale, istruzione, lavoro, abitare, benessere di comunità, equità di genere, sicurezza ambientale, sanità,….

Rispetto ad un paradigma psichiatrico il paradigma di salute mentale raccoglie e rilancia la tradizione nata dalla 180, con tutto il suo portato di deistituzionalizzazione, di impegno politico nei territori, di lotta alle diseguaglianze, di inclusione sociale, di tutela dei diritti umani e di promozione del benessere e della salute.

Tutto ciò premesso, i nostri Dipartimenti possono a ragione chiamarsi Dipartimenti di Salute Mentale o sono Dipartimenti di Psichiatria?

Senza alcun dubbio in Italia abbiamo una rete psichiatrica capillare ed organizzata, prevalentemente territoriale, che nasce da una idea di salute mentale di comunità, che per mantenere questa aspirazione e questa tensione deve oggi sciogliere alcuni nodi problematici che minacciano di riportarla ad una dimensione meramente psichiatrica, per quanto modernizzata.

Quali bisogni esprimono oggi le nostre comunità? Quali mandati impliciti ed espliciti convergono sui servizi di salute mentale oggi?

Sei nodi da sciogliere tra i DSM e le proprie comunità

Al di là delle ovvie differenze tra ambiti rurali ed urbani, tra territori ricchi e deprivati, tra comunità multietniche e tradizionali, i territori esprimono importanti aspettative sui nostri servizi.

1. Quanti, chi e come?

Nel 2016 è risultata trattata presso i CSM l’1,6% della popolazione adulta. Rispetto a questo tasso esistono differenze rilevanti, del +28% dell’Emilia-Romagna e del -89% della Sardegna. La maggior parte della varianza dipende da come viene affrontato il tema dei disturbi minori e da quale livello di priorità viene dato ai disturbi mentali gravi e persistenti. È diffusa la consapevolezza che i disturbi emotivi comuni riguardano una proporzione della popolazione generale ragguardevole ed in aumento.  Pur essendo di gravità inferiore, nel loro complesso costituiscono la principale causa di disabilità sociale e di mortalità evitabile legata a disturbi mentali. Si tratta di un importante argomento di sanità pubblica, che i DSM italiani affrontano nei modi più disparati. È possibile aspirare ad avere una politica comune al riguardo? La risposta psichiatrica è: avere più risorse per visite e farmaci. Quella di salute mentale? La stepped-care con la Medicina Generale è risultata molto positiva in diverse regioni italiane: è pensabile avere un indirizzo nazionale e linee di finanziamento dedicate a questo tema?

2. Lavoro clinico e/o lavoro sociale?

Le contraddizioni sociali legate all’aumento delle diseguaglianze, al ciclo economico, alla organizzazione del lavoro, alle difficoltà del welfare generale, hanno grandemente ridotto l’impatto dei fattori protettivi per la salute mentale ed aumentato i fattori di rischio. Affianco alle espressività psicopatologiche più note si è andata formando una vasta platea di sofferenze contraddistinte sul piano clinico dalla disregolazione emotiva e dalla impulsività, ma soprattutto dal punto di vista sociale dall’impoverimento relazionale, economico ed educativo. Nei contesti delle grandi città sotto la voce dell’urban suffering si ritrova una umanità dolente, imprigionata nei circuiti viziosi della povertà materiale, della violenza intrafamiliare e di vicinato, nella intossicazione da alcol e droghe, nella lotta tra categorie svantaggiate e popolazioni indesiderate. Nello studio QUADIM i disturbi di personalità trattati nei servizi di salute mentale costituivano il 17,7 % dei casi gravi in Lombardia ed in Emilia-Romagna ed il 6,9% a Palermo. Considerato che questa è la diagnosi alla quale si legano la maggior parte delle problematiche psicosociali del territorio e che non è verosimile pensare ad epidemiologie radicalmente differenti, è evidente che ci troviamo di fronte a due modi diversi di porci rispetto allo stesso problema. La risposta psichiatrica è: è un problema sociale. Quella di salute mentale? Le azioni coordinate con gli Enti Locali, con il volontariato, con la Giustizia sono complesse ed onerose e danno frutti nel lungo termine, ma sono forse oggi eludibili? È ipotizzabile avere delle linee di indirizzo nazionali in materia?

3. I giovanissimi

Tra le popolazioni più vulnerabili della nostra epoca abbiamo scoperto il dramma dei giovanissimi. I dati su accessi ai servizi sociali, sanitari e socio-educativi, i dati sui minori allontanati e inseriti in comunità, i dati sui ricoveri psichiatrici e gli accessi in PS sono inequivocabili. Se il paradigma della sofferenza mentale era quello della rottura psicotica, quello della generazione attuale è il paradigma del trauma, della crescita in ambienti inadeguati dal punto di vista emotivo, educativo e sociale, in cui ogni esperienza può diventare traumatica. La risposta psichiatrica è riparativa: letti di NPIA e residenze attrezzate. Quella di salute mentale? L’organizzazione dei servizi per i minori è estremamente frammentata: servizi socio-educativi, consultori, servizi di tutela minori, autorità giudiziarie, scuola, servizi di NPIA, SerD, SPDC, spesso si trovano a lavorare sulle stesse situazioni con uno sforzo di integrazione impossibile da realizzare. Una riforma coraggiosa nel segno della semplificazione e del potenziamento dei servizi per i giovanissimi è quanto mai necessaria. È ipotizzabile avere delle linee di indirizzo nazionali in materia?

4. Alcol e droghe

L’evoluzione del consumo di alcol e sostanze negli ultimi trent’anni è un problema sociale di dimensioni ancora non pienamente comprese. Da problema di una fascia marginale giovanile disadattata e ribelle è diventato un fenomeno pervasivo trasversale ad ogni fascia sociale e ad ogni sottocultura. Le dipendenze oggi sono un problema di sanità pubblica tanto vasto quanto sottovalutato. L’intreccio con i disturbi mentali e le problematiche giovanili è fortissimo. Quanto a lungo può reggere una organizzazione a canne d’organo che separa in Dipartimenti diversi o in unità operative diverse CSM, SerD e NPIA? La risposta sanitaria e psichiatrica è la clinica delle dipendenze. Quella di salute mentale? Quanto a lungo reggerà la separazione tra CSM e SerD? Quanto a lungo le attività delle Cure Primarie potranno delegare ai servizi per le dipendenze un tema che riguarda oramai una percentuale della popolazione a due cifre? L’ultima conferenza nazionale sulle Droghe risale a dodici anni fa. È ora di rifare seriamente il punto su questo problema.

5. Lo scandalo della mortalità evitabile

L’OMS ha definito il mortality gap come problema centrale da affrontare sia in termini di tutela della salute che di tutela dei diritti umani. Riguarda disturbi emotivi comuni (rischio minore, ma numeri altissimi), i disturbi psicotici (rischio e numeri intermedi) e soprattutto i disturbi di personalità e le dipendenze (rischi altissimi e numeri intermedi). Stili di vita, farmaci e droghe, negligenza sanitaria sono le cause principali del problema. Le risposte sono culturali ed organizzative: educazione sanitaria, orientamento alla prevenzione, accuratezza ed appropriatezza nella prescrizione e nel monitoraggio dei farmaci, organizzazione del Pronto Soccorso (cfr. regione Veneto!), stepped-care con i MMG, coinvolgimento e sensibilizzazione dei colleghi ospedalieri, promozione della salute.

6. Gli autori di reato

È argomento al quale è dedicata una sessione specifica. Qui richiamiamo solo il fatto che l’impatto della riforma sui DSM e CSM è stato forte, quantitativamente e soprattutto qualitativamente. Non sono più i 1000 dell’OPG, sono i circa 5000 già in carico, sono potenzialmente i detenuti che il DAP ha classificato come disagio psichico. Quello che sta avvenendo nelle carceri è un segnale esplicito di come si manifesta il mandato sociale alla psichiatria oggi. Chi non si adatta all’universo afflittivo del carcere ha un disagio psichico e deve essere sanitarizzato. La risposta psichiatrica è dietro l’angolo, è quella inglese (8000 posti letto psichiatrico forensi). Quella di salute mentale?

Quattro nodi da sciogliere tra il DSM e la propria azienda USL

Queste domande ne pongono altre di natura organizzativa, che riguardano l’organizzazione interna dei CSM, l’organizzazione più complessiva dei DSM, la relazione con le articolazioni delle Aziende Sanitarie.

1. Esistono ancora le aree di confine?

Disabilità intellettive, autismo, DCA, GAP, etc. Il coinvolgimento nella valutazione e nella gestione di problematiche complesse per le quali esistono servizi specifici o linee di sviluppo dedicate è compatibile con una dimensione generalista dei CSM? Quale peso e quale investimento occorre dare a qualificazioni di competenze tecniche sanitarie e psicosociali per queste tematiche?

2. L’organizzazione del lavoro di équipe

I CSM sono stati uno dei primi esempi di lavoro di équipe multiprofessionale, cosa che oggi viene recuperata nella organizzazione di altri servizi territoriali (Case della Salute). Siamo in una epoca di progressiva riduzione del numero dei medici e di ampia disponibilità di altre figure professionali (psicologi, educatori, terapisti della riabilitazione psichiatrica, infermieri). Siamo pronti ad affrontare un serio cambiamento dei profili di attività?

3. Standardizzazione o personalizzazione?

Il proliferare di linee guida e strumenti normativi (ad esempio LEA) che definiscono prestazioni e diritti sta generando una aspettativa di una pratica normativizzata e prescrittiva. Ciò vale tanto per gli aspetti di contenuto clinico-assistenziale, quanto per gli aspetti economici legati al finanziamento dei percorsi tra SSN, Enti Locali e cittadino. Più in generale la psichiatria potrebbe allinearsi alle altre discipline che si spostano sempre più verso la standardizzazione delle cure (PDTA, programmi, etc.). Questa tendenza rischia forse di penalizzare una qualità peculiare di tutto il lavoro territoriale che consiste nella personalizzazione, orientamento verso il quale sono stati fatti importanti passi in avanti ad esempio con il Budget di Salute e la negoziazione con contratti terapeutici?

4. Quale modello di DSM e di CSM?

Più in generale, l’insieme dei quesiti sopra esposti pone l’interrogativo sulla migliore organizzazione dipartimentale nella fase storica che attraversiamo. Il Dipartimento gestionale DSM-DP che si sta affermando nella maggior parte delle regioni ha la forza e le risorse per affrontare le sfide dell’oggi? Quali alleanze e collaborazioni sono necessarie? Svolge una regia su processi di cura così interconnessi con temi sociali che richiedono un impegno nella comunità a livello politico ed amministrativo che le Aziende condividono? Ed il CSM come regia della cura nel territorio deve essere la struttura forte che può assumersi il ruolo di responsabilità della sofferenza della comunità o è uno degli attori del territorio che guida i processi di cura all’interno di un sistema di comunità nel quale la politica locale ha una chiara leadership? Andiamo verso un CSM con linee di attività per intensità di cura (salute mentale primaria, presa in carico multidisciplinare, attività specialistiche)? Quanti letti in SPDC, residenze, REMS, residenze per minori, Gruppi appartamento e comunità alloggio?

Tre nodi da sciogliere tra il DSM ed i propri utenti e le loro famiglie

Grazie anche a quaranta anni di psichiatria (o salute mentale) territoriale e di sviluppo umano della nostra società, l’utenza afferente ai nostri servizi, per quanto sofferente, è meno disabile e disposta a relazionarsi passivamente con i servizi sanitari e sociali. Il tema non è forse più la restituzione dei diritti e della contrattualità all’utente, ma la definizione di come questa contrattualità si declina. Questo comporta chiare posizioni nella relazione tra il DSM e gli stakeholders in forma singola ed associata.

1. I meccanismi di partecipazione

Il dipartimento è ben più della somma dei suoi professionisti o delle sue unità operative. È organizzazione e cultura, valori e pratiche finalizzate ad aspetti estremamente sensibili per la società civile. È un soggetto sempre più improntato alla partecipazione dei cittadini in forma singola o associata. Il DSM-DP è cioè un campo istituzionale, uno spazio di prassi e di competenze nel quale molteplici soggetti interagiscono e collaborano: utenti, operatori pubblici, operatori privati accreditati, università, familiari, associazionismo, volontariato, operatori di altre istituzioni, cittadinanza. È uno spazio nel quale la comunicazione interna ed esterna assumono una importanza fondamentale per contrastare i rischi di isolamento, tale da richiedere una loro accurata programmazione e manutenzione. È uno spazio, infine, nel quale ogni componente (adulti, neuropsichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza, SerT) così come ogni professionalità deve trovare valorizzazione e rappresentatività per i valori e le competenze che porta. Per tutti questi motivi, i soli meccanismi tradizionali di rappresentatività non sono più sufficienti. I Comitati misti od il loro analogo devono evolvere in forme che prevedano il coinvolgimento degli utenti e dei familiari in tutte le fasi di progettazione, realizzazione e valutazione dei servizi. Ampio spazio deve essere dato alle coprogettazioni ed alle sperimentazioni condotte. Non è una questione di opportunità politica, ma di concreta realizzazione dei processi di democrazia, che come dice Amartya Sen, sono la base della salute mentale.

2. Il tema della volontarietà e della obbligatorietà delle cure

L’ingresso nei percorsi di cura degli autori di reato, le maggiori insicurezze presenti nella popolazione, l’intreccio con i fenomeni di tossicodipendenza e di devianza comportamentale impongono una riflessione congiunta sull’uso degli strumenti coercitivi ed una azione congiunta nel monitoraggio finalizzato al loro contenimento. Analogamente vanno sviluppate le attività volte al superamento della contenzione fisica ed al recupero della condivisione nei trattamenti farmacologici. Le conoscenze su come curare questi aspetti sono oggi ampiamente disponibili.

3. Il contributo diretto di utenti e familiari alla vita dei CSM è di grandissimo valore

Le varie esperienze italiane di animatori sociali, utenti e familiari esperti, esperti nel supporto tra pari, orientatori al supporto tra pari, etc. si sono dimostrate strumenti assai utili nel cambiamento di culture e pratiche nei servizi di salute mentale. Occorre sostenerle nella organizzazione dei servizi e con gli strumenti normativi ed amministrativi che consentano un loro reale radicamento nei CSM.

In conclusione l’esperienza italiana rappresenta ancora oggi qualcosa di speciale nel panorama internazionale, per la sua vocazione alla deistituzionalizzazione, alla dimensione psicosociale, alla inclusione ed al rispetto dei diritti umani. La nostra epoca propone cambiamenti sociali, economici e culturali che si tramutano in sfide per potere mantenere e rilanciare tale vocazione. È necessario creare una cornice istituzionale che tuteli questa impostazione verso la salute mentale e rafforzare la fiducia in tutte le amministrazioni locali nel fatto che ciò è possibile ed utile per lo sviluppo umano, sociale ed economico delle nostre comunità. I tredici nodi proposti richiedono una coerenza tra orientamenti e decisioni nazionali, regionali e locali che possono scongiurare il pericolo che l’Italia si allinei alle politiche psichiatriche di altri paesi e si allontani dalla linea di sviluppo che in quarant’anni ha fatto di noi un paese di alta civiltà in questo campo.

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