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Pubblichiamo di seguito un altro articolo che ci arriva da Gian Antonio Stella, che sta spulciando l’archivio del Corriere della Sera per compilare una storia della disabilità e talvolta si imbatte in suggestioni riguardanti la storia della salute mentale. Questo secondo aneddoto riguarda il barone Pietro Pisani (1761-1837) e si tratta di una riflessione di Leonardo Sciascia sui grandi cambiamenti che avvengono nel manicomio di Palermo e che aprirono agli entusiasmi di una possibile psichiatria che cura. Quanto scritto da Sciascia nel 1969 sembra preannunciare i cambiamenti che dovranno avvenire nel campo di quella psichiatria che non aveva mantenuto le sue promesse.

Il testo parte descrivendo una rappresentazione dell’opera mozartiana Così fan tutte avvenuta a Palermo nel 1811 ed organizzata dal barone Pisani; la rappresentazione fu un fiasco, tanto che – come scrive Sciascia – «per centotrentasei anni le cronache del teatro musicale palermitano non registreranno altre rappresentazioni pubbliche di opere mozartiane».

Questo signor barone era un personaggio stravagante ed eccentrico, viene citato da Dumas ne Il conte di Montecristo proprio come il famoso fondatore della Real Casa dei Matti della città di Palermo, la prima casa di cura dedicata esclusivamente alle patologie psichiatriche nata nell’agosto del 1824. Il Regno delle Due Sicilie aveva due manicomi, uno ad Aversa e uno a Palermo ed entrambi sono stati fondamentali nel passaggio da forme di psichiatria arcaica al cosiddetto “trattamento morale”, in cui si pone maggiore attenzione alla persona. Studiò, per l’ospizio, un modello innovativo che andava dall’organizzazione della struttura alla pianificazione delle attività, passando dalla regole di igiene a regolamentazioni sulle visite. Il volume Il barone Pisani e la Real Casa dei Matti, scritto da Germana Agnetti e Angelo Barbato (Palermo 1987) racconta la vita del Barone e la sua storia con il manicomio di Palermo, tra cui anche l’organizzazione interna pensata dal barone Pisani per questo spazio.

Leonardo Sciascia, in questo articolo del 1969, ci parla della figura di Pisani e della sua vita artistica nella città di Palermo. Ne riportiamo un estratto in cui viene narrata la sua biografia.

Agnese Baini

Leonardo Sciascia, La corda pazza (estratto)

Corriere della Sera, martedì 4 febbraio 1969, p. 3

Pietro Pisani nacque in Palermo nel 1761. Fin da ragazzo ebbe vivissima inclinazione alla musica; e senza maestro, contro la volontà del padre che l’avviava invece agli studi di legge, assiduamente la studiò. Si addottorò all’università di Catania in diritto civile e «prese a battere le vie del foro», ma di controvoglia. A ventitré anni sposò Maria Antonia Texeira Albornoz, che ne aveva diciannove, «bella della persona, di cuore ingenuo e pudico, ma spesso combattuto da insanabile gelosia, a cui certo dava egli alimento»: di lei Giovanni Meli canterà la voce, gradevole linda spirante desiderio e dolcezza. Ne ebbe otto figli, tra i quali egli predilesse il secondo, Antonino, che gli pareva realizzasse con seria e profonda applicazione quella sua sempre viva ma ormai dilettantesca passione per la musica.

Antonino aveva appena pubblicato un lodatissimo saggio sul dritto uso della musica strumentale quando, nel 1815, moriva. Poiché «nelle sue passioni toccava gli estremi, quantunque agli atti e ai modi sembrasse di una stoica impassibilità», Pietro Pisani tentò il suicidio. Salvato dai familiari, totalmente mutò modo di vivere. E si sarebbe del tutto chiuso nel lutto, così come fino alla morte ne portò l’abito, se i suoi doveri di funzionario non l’avessero, forse fortuitamente, portato alla passione per l’archeologia. Ufficiale della Real Segreteria di Stato e, dal 1820, segretario del luogotenente generale principe di Cutò, Pisani volse tutta la sua attenzione agli scavi che gli inglesi Harris ed Angeli facevano a Selinunte: in quanto funzionario e in quanto dilettante, come allora si diceva, di antiquaria. Fermò l’emigrazione delle metope rinvenute, dando in compenso agli archeologi le copie in gesso che si trovano al Museo Britannico; e si diede a un paziente lavoro di ricostruzione e interpretazione dei pezzi, pubblicandone poi i risultati in una Memoria sulle opere di scultura in Selinunte che venne fuori, con un certo ritardo, nel 1824, quando già era preso da un’altra passione, più profonda e durevole. «Mi è stato – diceva poi – confidato dalla Provvidenza un deposito prezioso, la ragione dei poveri matterelli, ed io devo, loro appoco appoco restituirla». La Provvidenza si manifestò attraverso il marchese Pietro Ugo delle Favare, nuovo luogotenente del Regno, che il 10 agosto del 1824, ritenendo che «per disposizione di cuore e per esattezza nell’adempimento del dovere» il Pisani rispondesse alle intenzioni del re e alle sue premure, lo nominava deputato alla Real Casa dei Matti.

Quando la lebbra si ritira dall’Europa e restano vuoti quei miserabili edifici, dice Michel Foucault, in cui il male era mantenuto ma non curato, ecco che quelle strutture d’esclusione tornano a funzionare per, la pazzia. E un lebbrosario in cui si trovano ancora lebbrosi è quello che a Palermo, fino al 1824, è chiamato ospizio dei matti. «Lo abbandono, nel quale trovai per verità questo luogo, se dai miei occhi non fosse stato veduto, da chiunque udito lo avessi, io non lo avrei giammai creduto. Esso la sembianza di un serraglio di fiere presentava piuttosto, che di abitazione di umane creature. In volgere lo sguardo nell’interno dell’angusto edificio, poche cellette scorgevansi oscure sordide malsane: parte ai matti destinate, e parte alle matte. Colà stavansi rinchiusi, ed indistintamente ammucchiati, i maniaci i dementi i furiosi i melanconici. Alcuni di loro sopra poca paglia e sudicia distesi, i più sulla nuda terra. Molti eran del tutto ignudi, varj coperti di cenci, altri in ischifosi stracci avvolti; e tutti a modo di bestie catenati, e di fastidiosi insetti ricolmi, e fame, e sete, e freddo, e caldo, e scherni, e strazj, e battiture pativano. Estenuati gl’infelici, e quasi distrutti gli occhi tenean fissi in ogni uomo che improvviso compariva loro innanzi; e compresi di spavento per sospetto di nuovi affanni, in impeti subitamente rompeano di rabbia e di furore. Quindi assicurati dagli atti compassionevoli di chi pietosamente li guardava, dolenti oltre modo pietà chiedevano, le margini dei ferri mostrando, e le lividezze delle percosse di che tutto il corpo avean pieno. Quai martiri, oh Dio, e quanti! Eppure altre angosce incredibili e vere quei meschini sopportavano. Oltre degli accennati mali, varie infermità pestifere vedevansi alle loro membra appiccate; poiché si facean con essi insieme convivere gli etici, i lebbrosi, e tutti coloro che da sozzi morbi cutanei eran viziati».

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Il primo provvedimento del Pisani fu quello di far cadere le catene e di ristorare quei disgraziati con «cibi ricreativi» e «soavi liquori»: e «parea in quel punto, che la follia avesse nelle loro menti ceduto il luogo alla ragione». Poi diede mano, in base a un regolamento da lui compilato (Istruzioni per la novella Real Casa dei Matti, Palermo, 1827), ad un radicale rinnovamento dell’istituzione: e a tal punto che non fu più una istituzione. Già il regolamento era abbastanza avanzato rispetto a quel tempo ed al nostro (se lo si applicasse integralmente, oggi, i manicomi italiani non sarebbero così tremendi come sono). Ma è in effetti un documento burocratico in cui il marchese delle Favare che lo approva non può essere coinvolto in quella che Basaglia dice «mancanza di serietà e di rispettabilità, da sempre riconosciuta al malato mentale e a tutti gli esclusi» cui il Pisani era andato accomunandosi.

Insomma: se le sue carte dicono dell’istituzione, la sua vita e la sua opera totalmente la negano. Spesso firmava le sue lettere qualificandosi come il primo pazzo della Sicilia; e di un pazzo che aveva ucciso uno dei custodi, ad ammonimento di questi, fece fare il ritratto con questa iscrizione: «Vera effigie del Beato Giovanni Liotta da Aci Reale pazzo furioso il quale spinto dall’ira celeste uccise con un pezzo di canna infradicita il suo custode che voleva bastonarlo». Saggio al punto da riconoscersi folle, e abbastanza folle da ritenersi tra i folli il più saggio, in questa contraddizione diede vita ad una comunità armoniosamente articolata ed attiva, irripetibilmente realizzò un’utopia, un’opera d’arte, un teatro. «Riesce opportuno di combinare con loro, dirò così, delle continue scene di teatro»: ma sulla base della sincerità della fedeltà del non mancar giammai di parola né di mai occultare la verità.

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