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RAPTUS.

Termine con il quale, in gergo scientifico recuperato anche dal linguaggio comune, si intende designare un atto improvviso e imprevedibile che esce dalla “norma” (v.) in senso antisociale. Di solito il raptus ha un carattere incomprensibile se preso come fenomeno a sé, mentre spesso risulta accessibile se restituito al contesto in cui si è manifestato. Con la parola raptus le istituzioni preposte a conservare l’ordine costituito tendono a codificare in termini di malattia situazioni che altrimenti metterebbero in discussione le norme e i valori su cui quell’ordine si fonda.

REINSERIMENTO SOCIALE.

“Soluzione finale” della terapia psichiatrica che si prefigge di adattare l’irrecuperabile all’istituzione manicomiale (istituzionalizzazione interna), e il recuperabile alle istituzioni sociali (istituzionalizzazione esterna).

REPARTI APERTI.

Reparti pseudo-manicomiali non soggetti alla “legge” (v.) sugli alienati. Pur essendo inseriti nello stesso complesso ospedaliero, sono rigidamente divisi dai reparti manicomiali e non comportano la “stigmatizzazione” (v.) tipica dell’internamento in ospedale psichiatrico. Vi hanno accesso i malati paganti o che dispongono di mutue privilegiate. Come nelle “case di cura” (v.), quando finiscono i soldi o la mutua non paga più, i degenti passano dai reparti aperti a quelli manicomiali e diventano, da “volontari”, “coatti”. Così, da un giorno all’altro, e per ragioni estranee alla malattia, uomini liberi vengono dichiarati «pericolosi a sé e agli altri e di pubblico scandalo», restando prigionieri dell’istituzione manicomiale.

I reparti aperti consentono anche il percorso inverso: cioè internati manicomiali possono passare, sempre per gli stessi motivi (una mutua disposta a pagare o il rinvenimento di fondi da parte del ricoverato), dallo status di malati coatti a quello di pazienti liberi.

Se da un lato l’esistenza dei reparti aperti consente a molti malati di recente ingresso di evitare la stigmatizzazione del manicomio (ma sempre su basi discriminanti), dall’altro consente anche ai medici di usufruire delle quote capitarie.

S

SOCIALE, PSICHIATRIA.

Con il termine “psichiatria sociale” si intende ampliare il campo della psichiatria dal terreno strettamente medico-scientifico a quello sociologico. L’immissione del sociale in psichiatria segnerebbe l‘inizio di un nuovo tipo di interpretazione della malattia mentale, in cui viene messo l’accento sui fattori sociali presenti nella determinazione e nella cristallizzazione della malattia. In realtà la psichiatria è sempre stata sociale, nel senso che se teoricamente ci si occupava della malattia in quanto stato morboso, praticamente nelle istituzioni in cui si esercita la psichiatria se ne sono sempre presi in considerazione soltanto gli aspetti sociali, come ad esempio la “pericolosità” (v.), l’imprevedibilità e l’oscenità. La nuova ondata sociale della psichiatria non è dunque che il capovolgimento positivo di un’ideologia, vissuta prima in negativo. Ma a questo punto occorre conoscere la natura delle forze sociali che premono sul malato, reale e potenziale. Esse non si limitano all’influenza dell’ambiente familiare e sociale sul malato e sulla malattia ma includono i valori del gruppo sociale in cui la malattia si manifesta e soprattutto i limiti di “norma” (v.) definiti da quel gruppo. Non si può infatti tenere conto soltanto dell’aspetto psicodinamico del sociale (come sembrano intendere i fondatori di questa nuova disciplina), tralasciando il peso dei rapporti di produzione in cui il malato è incluso, dato che proprio questo insieme di rapporti stabilisce di volta in volta i limiti di norma in base ai quali si etichettano gli stati morbosi.

SOCIOTERAPIA.

Termine generico che comprende anche l’ergoterapia, la ludoterapia, eccetera. Teoricamente, un insieme di tecniche basate su interazioni di gruppo. Si tratterebbe cioè di terapie sociali miranti a risocializzare il malato mentale attraverso la sua partecipazione, più o meno sollecitata, a una serie di attività. Il paziente, abbandonato prima a se stesso come incurabile, viene coinvolto in attività lavorative o ricreative attraverso le quali si presume possa ricostruire la propria socialità. Praticamente, l’ergoterapia si traduce in uno sfruttamento dei malati che, con questo alibi, vengono chiamati a tenere in vita l’istituzione da cui sono segregati. Ciò avviene di solito facendoli lavorare ai vari servizi generali dell’istituto: il che significa per loro partecipare attivamente alla propria distruzione. In cambio ricevono compensi settimanali che non superano, nei migliori dei casi, qualche centinaio di lire.

Per quanto riguarda invece la ludoterapia, nel momento in cui essa viene rigidamente istituzionalizzata, anziché diventare uno stimolo all’interazione sociale si trasforma nella ripetizione stereotipata di un gioco cui i malati partecipano come fantocci nelle mani del terapeuta.

STIGMATIZZAZIONE.

«I greci, che sembra fossero molto versati nell’uso dei mezzi di comunicazione visiva, coniarono la parola “stigma” per indicare quei segni fisici che caratterizzano quel tanto di insolito e di criticabile della condizione morale di chi li possiede. Questi segni venivano incisi col coltello o impressi a fuoco nel corpo, e rendevano chiaro a tutti che chi li portava era uno schiavo, un criminale, un traditore, comunque una persona segnata, un paria che doveva essere evitato specialmente nei luoghi pubblici». Così Erving Goffman definisce la parola.

Il concetto espresso dal termine stigma continua ancora a servire da strumento per la conferma di una diversità su cui si fondano le scienze umane. Continua cioè il processo di caratterizzazione di alcuni individui in base a segni distintivi particolari i quali, contemporaneamente, sanciscono l‘appartenenza a una categoria definita e il giudizio negativo sulla categoria stessa.

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