mastrogiovannidi Peppe Dell’Acqua

Trieste, agosto 2019

A ripensare oggi la morte di Francesco Mastrogiovanni (e di Giuseppe Casu) non si può non considerare che da allora troppo poco è cambiato.

L’orrore di quella morte, che tutti abbiamo potuto partecipare in diretta, sembrava dovesse segnare una frattura senza possibilità di ricomposizione.

Tutta la storia così dolorosa degli ultimi giorni del maestro Mastrogiovanni, vista e riletta oggi anche alla luce delle carte processuali, ha messo in evidenza la disumanità e la spietatezza dei modelli teorici e pratici delle psichiatrie che tutto riducono a corpo, a oggetto, a farmaci. I tribunali nei tre gradi di giudizio hanno individuato e condannato i comportamenti criminosi di medici e infermieri, le colpe soggettive per reati ridotti alla fine a ben poco rispetto alla profondità del male che in quella terribile settimana di agosto è accaduto nell’ospedale di Vallo della Lucania. Una sequenza di fatti e comportamenti banali che altrimenti avrebbero potuto svolgersi e altri esiti avrebbero potuto avere.

Già dai primi segni di inquietudine che si erano manifestati nella località balneare di Acciaroli, nessuno aveva pensato, pur conoscendo i momenti di fragilità che Francesco aveva mostrato anche in passato, di incontrarlo, di intrattenersi, di muovere con umiltà e gentilezza all’incontro. Le strategie di intervento e di accoglienza di troppi servizi di salute mentale non prevedono, non sta nella loro cultura, l’andare verso, la disposizione alla negoziazione anche nelle situazioni più complesse. È accaduto allora che in una rapidissima sequenza, dalla sera alla mattina, sia stata emessa un’ordinanza di trattamento sanitario obbligatorio, un dispositivo che deve garantire la cura della persona nel rispetto della sua libertà e dignità che, come purtroppo spesso accade, è stato usato come un mandato di cattura.

Francesco per sfuggire alla cattura si è tuffato nel mare del campeggio che ben conosceva; circondato e catturato viene portato in ospedale. In realtà, uscito dall’acqua, ha parlato con la dottoressa che intanto era arrivata sul posto assieme alle forze dell’ordine, ha accettato di fare un’iniezione, ha bevuto un caffè, ha chiesto di fare una doccia e ha ripetuto più volte alle persone che lo conoscevano: «Non fatemi portare in ospedale, perché là m’ammazzano». E tuttavia in ospedale ci è andato con le sue gambe, nella stanza è entrato senza che nessuno lo spingesse, ha preso i farmaci, ha mangiato qualcosa, si è messo a dormire.

Nulla giustifica la contenzione meccanica, neanche i comportamenti più incontenibili. In quel reparto, come in troppi ospedali del ricco e democratico occidente, la contenzione è ritenuta un atto medico e terapeutico (!): un fruttivendolo di Quartu Sant’Elena, padre di famiglia, era morto qualche anno prima nel reparto psichiatrico dell’ospedale civile Is Mirrionis di Cagliari. E altri avevano subito la stessa sorte in altri luoghi di cura. Tantissimi patiscono questo trattamento che tutti non fanno fatica a definire inutile, antiterapeutico, violento. E tuttavia le psichiatrie della biologia, del farmaco, della pericolosità, della sicurezza, del controllo sociale continuano ad applicarlo.

Quel giorno di agosto in quel reparto per prevenire eventuali comportamenti ingestibili hanno aspettato che Francesco dormisse per legarlo. Da allora non l’hanno più visto fino alla sua morte ottantasette ore dopo!

Molti hanno avuto modo di vedere il film/documentario 87 ore di Costanza Quatriglio e le immagini della terribile morte in diretta di Francesco.

In molte occasioni studenti, familiari, operatori, colpiti dalla visione di quel documentario mi hanno chiesto con crescente angoscia: «Com’è possibile che infermieri e medici passassero davanti a quel letto di contenzione e non vedessero, non si accorgessero di quanto quell’uomo soffrisse e della morte imminente?». Uno mi dice: «Ho visto un infermiere che si avvicina al letto, sembra abbia intenzione di occuparsi di quell’uomo, ha in mano un tampone, si china per pulire il pavimento dal sangue che cola dal polso ferito dalle cinghie». E un altro: «Ma come era possibile non vederlo? Francesco si agitava, chiedeva aiuto, com’era possibile – insiste – non vedere in un ospedale un uomo morente?».

Cosa si può rispondere? Cosa posso rispondere? Che quegli operatori sono sadici? Che è la banalità del male? Che è l’ignoranza?

Mi viene da pensare alle parole di Franco Basaglia che ricordava il drammaturgo tedesco Ernst Toller, morto giovane suicida in manicomio: «…Gli psichiatri hanno occhi ciechi e orecchie sorde…» – diceva.

La domanda dei giovani studenti è incalzante: «Come mai non vedevano?».

Non potevano più vedere Francesco Mastrogiovanni. La risposta non può che essere questa, quanto mai certa e tragica.

Quella psichiatria che abbiamo pensato di poter lasciare alle nostre spalle, quella della esclusione, della negazione di senso, quella che ha prodotto due secoli orrendi e vergognosi, quella psichiatria dagli occhi ciechi e dalle orecchie sorde, quella psichiatria che al primo sguardo riduce ogni respiro a oggetto, a povera cosa da accantonare. Il compagno che aveva sempre creduto in un mondo migliore, il maestro più alto del mondo, gentile ed amato dai suoi alunni nelle scuole elementari del Cilento, il fratello, il cittadino, l’anarchico era ormai scomparso.

Ottantasette ore di agonia e tortura diventano invisibili. Quando, dopo quattro giorni, la morte arriva, non Mastrogiovanni, ma il suo corpo diventa visibile.

Sono passati dieci anni e ancora sappiamo che in almeno 8 servizi psichiatrici ospedalieri su 10 le persone vengono legate, che in alcuni luoghi che si dicono terapeutici o di residenzialità vecchi e giovani vengono legati, che in alcuni reparti di neuropsichiatria infantile fanciulli ed adolescenti vengono legati, e sappiamo che l’ostinata persistenza della contenzione è la conseguenza di organizzazioni, dispositivi e pratiche territoriali povere di risorse e culture abbandonate nelle mani di politiche regionali sempre più cieche, sempre più sorde.

Sull’onda di quella morte gli operatori che contrastano la contenzione nei loro servizi hanno costituito l’associazione No Restraint, che promuove ricerche, scambi, convegni intorno alle pratiche di cambiamento.

È nato il comitato e la campagna …e Tu Slegalo Subito!. Molte sono state le iniziative, i dibattiti, gli incontri con amministratori regionali, con parlamentari e ministri.

Il Comitato nazionale per la bioetica si è più volte espresso con estrema chiarezza per condannare e auspicare che la contenzione venga ridotta fino ad abolirla.

Il Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti (CPT) ha denunciato queste pratiche nei luoghi di alcune psichiatrie italiane.

Dopo dieci anni sento che le parole sono logore e non restituiscono più l’orrore, l’indignazione, la necessaria passione. La terza rivoluzione?

How many roads must a man walk down

Before you call him a man?

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