basagliaIl 29 Agosto 1980 moriva Franco Basaglia

«Non era mai entrato in un manicomio. Giovanni Belloni, direttore della Clinica delle malattie nervose e mentali dell’università di Padova lo aveva mandato a Gorizia, ai confini dell’impero… Tutti in clinica lo chiamano “il filosofo” per il suo essere sempre immerso nelle letture di testi che in un reparto neurologico non si erano mai visti. Era interessato insieme ad altri giovani alla ricerca sulla possibilità di comprendere gli “schizofrenici”. Cercavano una strada per riportare nel campo della malattia mentale, della psichiatria fredda e distante, qualcosa che avesse a che vedere con l’umano, con la persona, col soggetto.

Basaglia entra nel manicomio di Gorizia e non può non vedere un mondo sospeso, grigio, freddo. Un luogo di violenza, la violenza del manicomio che comincia a toccare con mano. Vede le porte blindate, vede i letti a rete, le “gabbie”, vede i camerini d’isolamento. Vede gli internati legati al letto, vede uomini e donne che si aggirano, nelle loro goffe divise grigie, nei cameroni, nel tempo servo e senza fine.  Vede gli internati distesi per terra sul selciato dei cortili circondati da alte reti. Vede le divise, i camici bianchi di medici e infermiere. Ride al ricordo delle cuffiette inamidate delle infermiere. Basaglia vede ancora qualcosa che altri non vedono, non possono vedere: l’assenza. Dirà che in quel luogo ci sono 600 corpi, «600 corpi infagottati in tela grigia e rapati. Ma non c’è più nessuno». E’ un impatto terribile. Vuole andare via. Sarà proprio quella filosofia che lo appassiona che spinge il suo sguardo a cercare un uomo, una donna, una presenza umana, e lo aiuta a restare. 600 internati…e non c’è più nessuno. Uomini e donne sono diventati invisibili. Cosa mai potrà fare?   “Da direttore – dice – non potrò che diventare complice di tanta violenza”. Diventa più forte il desiderio di fuggire. Non lo fa. Non lo fa, per nostra fortuna! Gli viene incontro quella filosofia che lo ha fatto mandare via da Padova. Mettendo tra parentesi la malattia, mettendo a lato le parole “pulite e distanti” della psichiatria, allontanando l’immagine dell’internato e dell’internamento, rimosse la diagnosi e la malattia, come sollevando una grossa pietra scopre segni di vita brulicante. Emergono così come da un terreno melmoso nomi, cognomi, persone. Persone, voci, storie. Basaglia dirà che da quel momento diventa ancora più terribile restare lì, la vergogna è ormai insopportabile.

Adesso, è arrivato a lavorare un giovane assistente, Antonio Slavich. Hanno in mano le chiavi che tengono chiuse le porte e davanti ai loro occhi, dietro quelle porte non ci sono più oggetti, povere cose, ma persone. Diventa di giorno in giorno più urgente fare qualcosa per togliersi di dosso la vergogna che sentono tutte le sere, più acuta, quando tornano a casa. Non possono restare fermi. Decide di aprire le porte dei reparti. È un gesto di rottura, naturalmente. Le persone cominciano a muoversi, a circolare, a incontrarsi timidamente gli uni con gli altri. È un inizio. Dietro quelle porte coprono cittadini privati della loro cittadinanza. Arriveranno a diventare cittadini anni dopo, con la legge 180, per strade tortuose e sempre in salita. Scopre finalmente le persone, persone che sono state ridotte all’indegnità, al niente del manicomio, a corpi, a divise. E allora toccherà con mano l’urgenza di riconoscere l’altro. È l’etica dell’incontro che lo accompagnerà per il resto della sua storia. E poi ancora i soggetti, gli individui, non più gli schizofrenici, i malati di mente, ma nomi e cognomi singolari, singolarissimi: amori, passioni, fallimenti, storie, dolori, ferite sanguinanti. Da questo momento non si potrà che ascoltare, incontrare, parlare.  Tutta questa storia cominci da qui»

Brano tratto dalla conversazione teatrale (tra parentesi). La vera storia di una impensabile liberazione di Massimo Cirri, Peppe Dell’Acqua, Erika Rossi.

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