fsaluccidi Patrizia Pedrazzini, assistente Sociale, Responsabile Area Servizi alla Persona Comune di Soncino, Docente a contratto corso di Laurea in Servizio Sociale dell’Università di Milano Bicocca.

Mia figlia mi ha chiesto più volte e tu che ne pensi? E regolarmente le ho risposto che la questione è complessa, ne sappiamo poco per esprimere commenti un poco più profondi di quanto già non si legga sui giornali o sui social.

Mi rendo conto però che è un po’ poco e allora ci provo ad argomentare un po’ meglio il mio sgomento, la mia incredulità, il mio dispiacere, la mia rabbia anche.

Tralascio la cronaca: la conosciamo (per quanto ci è dato conoscere) e comunque vi sono indagini in corso e fino a che non saranno concluse, non sapremo cosa possa essere successo davvero, quali le reali responsabilità, quali le omissioni, quali i mancati controlli. Perché in questa brutta storia vi sono responsabilità, omissioni, mancati controlli.

Cercando di capire, seguo i giornali locali e, pur con l’attenzione a distinguere la cronaca e le interpretazioni degli eventi, sono sempre più incredula. Si scrivono cose, pare fondate su verbali degli interrogatori o su intercettazioni, che disegnano un sistema diffuso a dir poco aberrante. Faccio fatica a credere, non perché metta in dubbio la veridicità, che si possa aver costruito un sistema il cui scopo era l’utilizzo dei bambini per perseguire evidentemente altri scopi.

Cercando di capire, evito di leggere i commenti che accompagnano le notizie riportate dai social; a volte la curiosità prende il sopravvento ma me ne pento in fretta perché, se non appartengono a professionisti o comunque a persone che s’interrogano e che cercano di approfondire, sono spesso conditi da volgarità, da sentenze grevi per lo più nei confronti delle assistenti sociali. Siamo un facile bersaglio! Anche ai non addetti ai lavori dovrebbe essere chiaro che l’indagine nei confronti di un sospetto abuso presuppone un incarico del Tribunale ed ancor di più l’allontanamento di un bambino dai suoi genitori è dettato da un decreto del Giudice; lo può fare anche il Sindaco, con lo strumento dell’Ordinanza, ma solo in casi urgenti, con l’obbligo di dimostrare che non si possono aspettare i tempi del Tribunale (ed è vero che, a volte e purtroppo, occorre agire in fretta perché il rischio per il bambino è troppo elevato) ed in ogni caso si tratta di un provvedimento che il Giudice deve poi convalidare.

Ciononostante i giudizi sprezzanti, denigratori, sono diffusi e si prestano al rischio di strumentalizzazioni e di addossare responsabilità solo ad alcuni degli attori di quella brutta vicenda.

Il cosa è successo a Bibbiano è anche una domanda insidiosa: da un lato evita la comprensione dei tanti troppi rischi cui sono esposti continuamente i bambini, inoltre dà fiato alla credenza tutt’ora diffusa secondo la quale le assistenti sociali portano via i bambini. La (pruriginosa) narrazione popolare continua ad alimentare questo pregiudizio. Bibbiano lo rende verosimile, purtroppo, nonostante siano coinvolte varie figure professionali.

E dunque, per arrivare a definire un po’ meglio il mio pensiero, sento che devo prenderla un po’ larga, a partire dai bambini e dai tanti bambini e bambine che vivono in famiglie povere: uso questo termine in senso lato, povere perché mancanti sia di beni materiali e sia di competenze ad educare, famiglie fragili che espongono i loro figli ad ulteriori, esponenziali, fragilità. Vi sono anche famiglie che espongono i bambini e le bambine a forme di violenza inaudita; parliamo di violenza subita (maltrattamenti, abusi) e di violenza assistita: un bambino ed una bambina che assistono alla violenza di un genitore sull’altro, per le nostre leggi, sono essi stessi vittime di violenza. E vanno messi in protezione.

Lavoro da tanti anni ma mai come negli ultimi anni ho visto famiglie povere, prive di beni materiali, costrette a barcamenarsi nell’incertezza e nell’insicurezza, costrette a rinunciare perfino alle cure mediche; mi capita di ascoltare genitori disarmati di fronte ai loro bambini, genitori che non sanno definire una regola e farla rispettare e che non sanno comprendere l’esigenza -vitale- di ogni bambino di sapere che vi è una strada tracciata da percorrere per crescere in sicurezza. Vedo sempre più spesso coppie che si separano in modo conflittuale, con litigi sproporzionati rispetto alle questioni da affrontare e che non si fanno scrupolo a litigare di fronte ai figli o, peggio ancora, ad utilizzare i figli, come merce di scambio o arma di ricatto.

E vedo sempre più spesso donne (straniere, ma non solo) vittime di compagni violenti che non risparmiano i loro figli in questi agiti; donne che faticano a denunciare, ad allontanarsi per il timore (concreto) dei ricatti, dei giudizi, della solitudine alla quale si condannano quando decidono di sollevarsi dall’omertà.

E mi è capitato -raramente per mia fortuna (a volte anche per scelta) ma li ricordo uno per uno- di allontanare bambini dai genitori, di collocare in luoghi protetti mamme con i loro bambini per proteggerli da un marito/compagno violento e pericoloso. Non sono mai state scelte semplici, ogni volta discusse a lungo (ma non troppo, per evitare il peggiorare delle cose), approfondite, presentate al Tribunale dei Minori affinché assumesse una decisione assumedomi/ci la responsabilità di segnalare, evidenziare, approfondire.

Mi sono anche spesso interrogata sul confine (sottile) tra la necessità di assicurare ad un bambino e ad una bambina deprivati un’opportunità di crescere con le cure e le attenzioni che ogni bambino dovrebbe avere garantiti ed il diritto di ogni bambino e di ogni bambina a crescere nella propria famiglia, quale che sia ai nostri occhi, ma che è la sua.

È un confine sottile che segna anche la differenza tra esercitare il potere e agire la responsabilità. L’uno e l’altro non dovrebbero essere contrapposti a condizione che sia chiaro il fine dell’agire; non si contrappongono se, per garantire ad una bambino di vivere nella propria famiglia, non si lascia nulla di intentato per rendere evidenti ai genitori i loro limiti e farne oggetto di lavoro (accompagnandoli, sostenendoli) accettando le frustrazioni dei passi indietro ovvero delle scelte che non condividi ma che rispetti perché sono le loro di scelte e riguardano la loro di vita. Perché genitori sommersi da fragilità, non vanno denigrati ma aiutati a riscoprire e valorizzare le risorse, magari poche e ben nascoste, ma quelle sono e quelle vanno valorizzate.

Potere e responsabilità vanno di pari passo se tali questioni vengono dibattute, se si chiede / pretende che ognuno faccia la propria parte anche sul fronte dei servizi, che non si faccia finta di non vedere, che ci si interroghi seriamente sui diritti dei bambini e si abbandoni la comoda giustificazione del “tanto non cambia nulla” così che di fronte alla sofferenza ci si autorizza a far finta di nulla.

Ritornando a Bibbiano, si fa presto a strumentalizzare una vicenda di tale portata, con il rischio che si eviti di trattare delle fatiche, delle deprivazioni, delle violenze di cui molti bambini e bambine sono vittime.

Devo però aggiungere un’ultima nota rispetto al ruolo dei servizi. La vicenda Bibbiano mi fa davvero dispiacere, ed anche rabbia, perché espone una comunità professionale a critiche di cui non sentivamo certo la mancanza. Anche qui però non possiamo liquidare il tutto così: le persone indagate sono davvero tante e allora cosa si è inceppato? Cosa è venuto meno? Perché è evidente che c’è una filiera, nessuno lavora da solo, isolato da altri servizi, stare dentro un ente significa linea gerarchica, dipendenza funzionale, vi sono responsabilità ai vari livelli di un governo dell’organizzazione.

Uso volutamente il termine servizi senza ulteriori aggettivi volendo ricomprendere il sistema dei servizi sociali, socio-sanitari, la scuola. Avanzo l’ipotesi che in quel contesto sia mancata anche una consapevolezza diffusa circa i diritti dei bambini, sui segnali di rischio, sul trattamento dei segnali, sulla collaborazione con le altre agenzie, in primis la scuola, e via discorrendo; forse questo avrebbe potuto costituire un antidoto ad allontanamenti che paiono davvero ingiustificati e, se così sarà dimostrato, causa di infinite sofferenze per i bambini coinvolti.

Da anni non c’è più stato un dibattito pubblico sui diritti dopo che c’è stata una stagione in cui pareva possibile occuparsi e pre-occuparsi dei diritti dei bambini e delle bambine sul finire del secolo scorso, con leggi davvero all’avanguardia purtroppo troppo presto dimenticate.

Ugualmente non c’è un dibattito pubblico sulla funzione dei servizi sociali; se ne parla per difetto, quando succedono cose (ma dov’erano i servizi, le assistenti sociali…, a cosa servono); chi oggi oserebbe dichiarare che solo un welfare efficiente, efficace, presente, diffuso, generalizzato, può garantire lo sviluppo di una società? E dunque i servizi possono essere delegittimati, disconosciuti o riconosciuti in negativo.

Un sistema di protezione sociale fa bene a tutti così come farebbe bene a tutti diffondere fiducia verso le istituzioni e verso i servizi; denigrare, seppur a partire da un episodio per certi versi aberrante, forse raggiunge altri scopi. Che non sono certo la tutela dei bambini e delle bambine e delle loro famiglie.

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