basagliaDi Paolo F. Peloso

[articolo uscito su psychiatryonline.it]

È senz’altro una buona scelta quella dell’editore Alphabeta Verlag di ripubblicare vent’anni dopo, nell’avvicinarsi del 40esimo anniversario della morte, nella Collana 180 il volume Franco Basaglia di Mario Colucci e Pierangelo di Vittorio, originariamente edito da Bruno Mondadori nel 2001 e tradotto negli anni in francese e spagnolo. Si tratta senz’altro della più importante biografia dello psichiatra veneziano, preziosa nella ricostruzione del suo pensiero e del suo rapporto con la filosofia e con le esperienze psichiatriche coeve, e tale da rendere difficile a chi ritorna sul tema scrivere (e ne sto facendo personalmente esperienza) qualcosa che non sia ripetizione.

Il testo si apre con una preziosa sintesi biografica e coglie nell’impulso all’effrazione e alla visionarietà due tratti fondamentali già nel pensiero del primo Basaglia, quello del periodo padovano nel quale ha luogo la formazione filosofica che è al centro delle pagine, forse più belle.

La fenomenologia gli dà la consapevolezza della natura debole della psichiatria, dell’essere la follia un oggetto imprendibile e uno scritto del 1953, Il mondo dell’”incomprensibile” schizofrenico…, è già una dichiarazione di fede fenomenologica. In Jaspers e nel comprendere psicopatologico – nel fatto che occorre mettere in gioco almeno un pezzo della propria esistenza per avvicinare quella dell’altro – Basaglia trovava infatti una via di fuga dalla trappola della causalità. Ma Jaspers non gli basta, scrivono gli Autori, perché rifiuta quella che gli appare una resa all’incomprensibilità della psicosi, e questo lo porta perciò verso Husserl, e ancora più Binswanger, con la scoperta che: «colui che delira non abita nella sfera irraggiungibile del non senso, piuttosto esprime con il suo linguaggio e la sua condotta incomprensibili l’unica modalità esistenziale che conosce per aprirsi al mondo» (p. 45).

Negli scritti di quegli anni Basaglia mostra quindi già, per gli autori, tutta la sua insofferenza verso una psichiatria che non si interessa della maniera peculiare di “essere nel mondo”, di aprirsi al mondo, del soggetto, quale che sia il suo rapporto con la normalità condivisa.

In uno scritto del 1954, Su alcuni aspetti della moderna psicoterapia: analisi fenomenologica dell’incontro, il riferimento è quindi la fenomenologia dell’incontro di Binswanger (cioè «quel particolare rapporto intuitivo e preriflessivo “nel quale si fonde l’unità del medico e del malato formandone una unica che precede le due singole entità”»[1]), ma anche l’intuizione attraverso la quale Minkowski apre una strada più immediata verso la comprensione eidetica dei caratteri essenziali dei fenomeni di coscienza.

È importante che, perché l’incontro tra medico e malato sia efficace, avvenga prescindendo il più possibile da ogni forma di paternalismo e autoritarismo e si avvicini a essere l’incontro tra due individui liberi. E la scena, notano gli autori, a questo punto non è più duale, ma tira in ballo una dimensione interumana della quale medico e malato sono, ciascuno con la sua peculiare modalità, l’uno e l’altro partecipi ma che non può essere ridotta né all’uno né all’altro.

È particolarmente interessante, ma anche complesso, il modo in cui già in questi primi scritti – ad esempio in In tema di pensiero dereistico del 1955 – Basaglia imposta il tema del rapporto tra follia e realtà. Appoggiandosi, come gli Autori sottolineano, a Binswanger di Sogno e realtà, a certa psicoanalisi, a Minkowski, Basaglia coglie una difficoltà nel collocare il delirio, o l’oggetto “irreale” dell’allucinazione (o del sogno), “fuori” dalla realtà.

Perché essi gli paiono invece parte della realtà, della realtà dell’uomo, che è fatta di ciò che è razionale e ciò che è irrazionale. Una parte certo improduttiva (o forse diversamente produttiva ma improduttiva dal punto di vista della razionalità), a volte distruttiva (ma non è anche la razionalità a essere, a volte, distruttiva?) della realtà, ma comunque una parte interna a essa, la cui estromissione prelude, per Basaglia, all’estromissione dalla comunità umana di colui per il quale l’essere nella follia diventa egemone rispetto all’essere nella razionalità, e sfugge al suo controllo. Ed è questa – già in Binswanger prima che in Basaglia credo – di riportare la follia nella realtà, di dare alla follia la dignità (lo statuto) di essere parte della realtà senza con ciò cedere al suo fascino e al rischio di derive irrazionalistiche, una delle contraddizioni che il pensiero di Baaglia lascia aperte, e non è certo un caso che gli autori citino come esempio, negli stessi anni, di un rifiuto più radicale della psicopatologia rispetto a quello di Basaglia, l’Io diviso di Laing (1959). Una sfida molto più profonda e difficile da raccogliere rispetto a quella di riportare il folle nella città, ammanettandolo però alla condizione della “coscienza di malattia” e al giudizio oggettivante della psicopatologia naturalistica. Una sfida tanto profonda, insomma, da riguardare le radici dell’esistenza umana per come ad essa siamo abituati, che nello stesso momento in cui la esplicito, mi spaventa e mi fa dubitare della possibilità di essere, in senso pieno, concretamente raccolta.

Una contraddizione destinata, anche nella visione degli autori, a rimanere poi aperta nel pensiero del Basaglia maturo, e anzi a riaffiorare in modo più esplicito nel momento in cui, con l’approvazione della Legge 180, il problema “pratico” della distruzione del manicomio è stato risolto. Una questione di ulteriore effrazione e oltrepassamento che non riguarda il destino del folle, il cui ritorno alla comunità è agevolato in quel momento storico dall’affermarsi di una nuova cultura del rispetto e della tolleranza e dalla scoperta dei nuovi psicofarmaci, ma della follia.

Un’apertura ulteriore che, forse, ha più a che fare con l’utopia che con la realtà per come è data e che è necessario “mettere tra parentesi”, direi, nel momento in cui ci poniamo a fare psichiatria nella città, ma la cui esistenza sullo sfondo del nostro operare non deve essere dimenticata. Un’apertura della quale forse è lecito, anzi necessario, essere consapevoli sul piano filosofico, ma che è forse necessario invece rimuovere sul piano storico, sul quale è indispensabile operare in base alla temporanea finzione che la ragione abbia sempre ragione e il delirio sempre torto.

Gli autori colgono poi negli scritti di quegli anni di due intellettuali francesi, Maurice Merleau Ponty e Jean-Paul Sartre, la possibilità per Basaglia di fare proprio il concetto di “corpo vissuto” che sarà poi al centro di due degli scritti più interessanti della metà degli anni ’60, Corpo, sguardo e silenzio del 1965 e Corpo e istituzione del 1967, del quale ci siamo già occupati in questa rubrica.

È nell’inferno del manicomio, sottolineano infatti, che Basaglia riscopre la filosofia: «autenticità e inautenticità, scelta e malafede, impegno e rinuncia: questi i temi che gli sono cari e che rendono per lui entusiasmante la lettura dell’opera sartriana» (p. 73). La filosofia diventa così all’interno del manicomio il discorso sull’uomo, che lo psichiatra applica non solo all’uomo nevrotico o psicotico che ha di fronte, ma in primo luogo a se stesso, al significato della sua presenza nel mondo e del suo lavoro. E gli autori citano da un altro scritto basagliano di quegli anni, Ansia e malafede[2]: «è dunque legittimo che lo psichiatra si domandi come si situi l’uomo nel mondo, quali siano i suoi rapporti con se stesso, per conoscere quali siano i rapporti con l’altro e vedere se, da una condizione ordinaria di inautenticità e di angoscia, sia possibile realizzare per l’uomo la propria responsabilità, il proprio valore. Se sia cioè possibile all’uomo attuare la propria autenticità in una scelta» (p. 74).

Per offrire un’opportunità all’uomo – nevrotico o psicotico – di essere autentico, di ritrovare una fondazione nel proprio Dasein rinunciando all’ineluttabilità del sintomo nevrotico o all’assoluto e alla pretesa onniscienza del delirio, lo psichiatra e lo psicologo non possono limitarsi alla “finzione” terapeutica, ma devono compiere questo percorso verso l’autenticità in primo luogo in se stessi: a Basaglia così, ancora per gli autori, «non interessa una “psichiatria filosofica”, né una “filosofia per psichiatria”; piuttosto è affascinato da un pensiero impegnato nelle cose del mondo, che possa aiutare l’uomo a sostenere la sua fatica di esistere» (p. 76). Si arriva così a cogliere il compito del “nuovo” psichiatra nel «rappresentare per il malato la presenza della realtà con tutte le sue contraddizioni e […] far sentire i limiti oltre i quali il malato dovrà affrontarle senza fuggirle o lasciarsene sopraffare»[3] (p. 84).

Si arriva così all’epoché – termine che Husserl, come ricordano gli autori, «riprende dagli stoici e dagli scettici, presso i quali designava la sospensione del giudizio» – si rende necessaria a questo punto per consentire che l’incontro di cura sia abbastanza autentico per essere efficace. Essa significa infatti, cito ancora dal testo: «interruzione, sospensione, messa tra parentesi, neutralizzazione dei pregiudizi che, sbarrando la strada al ritorno del soggetto “alle cose stesse” (an die Sachen selbst), rendono impossibile un’autentica esperienza dell’uomo nel mondo» (pp. 93-94).

In Basaglia, gli autori colgono nel termine epoché due diversi significati – e questo mi pare davvero di grande interesse – a seconda che si consideri il periodo di Padova, o quello di Gorizia.

Nel primo caso, essa consiste in una volontà di scardinare la chiusura specialistica della psichiatria per abbracciare una visione globale dei problemi umani dove si apra lo spazio per «la ricerca di un fondamento filosofico per la psichiatria, la quale, come le altre scienze regionali, ha smarrito il suo “senso”». E gli autori citano qui Pirella, il quale «in una conversazione con Basaglia della fine degli anni settanta, [ricorda che] la volontà degli psichiatri di Gorizia fu inizialmente quella di “portare alle ultime conseguenze la comprensione della follia”, assumendo “il ruolo privilegiato del decifratore del senso”» (p. 94). E secondo il quale, in quegli anni Basaglia, lui stesso, Sergio Piro e altri lavoravano all’organizzazione, all’interno della Società Italiana di Psichiatria, di un gruppo di studio su temi di psicopatologia, che veniva ostacolato dai rispettivi titolari di cattedra.

Si trattava dunque, sintetizzerei in prospettiva storica, di riportare la psichiatria alla sua radice originale, col reinnastarvi quella filosofia che nella seconda parte del XIX secolo era stata cacciata. Proseguono così gli autori osservando che: «grazie alla fenomenologia, Basaglia scopre, insomma, che […] bisogna spogliarsi di tutte le certezze scientifiche per cercare di cogliere, insieme al malato, il momento originale in cui si costituisce la sua esperienza». E ancora, in seguito: «le ripetute “effrazioni” che caratterizzano il discorso di Basaglia non sono altro che una riaffermazione, ogni volta più intensa e complessa, dell’epoché» (p. 94).

A Gorizia invece, nel manicomio, epoché non sarà più soltanto questa opzione di fondo volta a cogliere l’uomo autentico al fondo dell’uomo malato per come la scienza lo coglie e lo presuppone o del suo medico, ma diverrà piuttosto l’opzione tattica indispensabile per concentrarsi, con la (temporanea) messa tra parentesi del problema della malattia, sull’affrontare, in un primo momento, le incrostazioni istituzionali che lo complicano e lo nascondono.

Avviene così, seguendo ancora il ragionamento degli autori, che con quello che mi pare un salto dal piano dalla riflessione proprio della filosofia a quello della pratica, che è proprio della storia: «l’oltrepassamento della fenomenologia di Basaglia assomiglia a quello del “filosofo” Michel Foucault, il quale ha strettamente collegato la sua critica delle “verità” moderne (la malattia mentale, la delinquenza, la sessualità) con le lotte locali della gente, con l’insurrezione dei saperi specifici contro la tirannia del discorso scientifico che» – anche con gli apparati di potere che esso ha prodotto, direi – «li ha sepolti e ridotti al silenzio» (p. 104).

Il ritorno alla prima epoché, quella padovana, negli ultimi anni fa sì che, per Basaglia, la chiusura del manicomio con la legge 180 non possa essere punto di arrivo della lotta anti-istituzionale, ma si invece un nuovo punto di partenza per la possibilità non solo di una “nuova” psichiatria, ma anche di una nuova società nella quale anche la follia abbia un posto. Basaglia è consapevole che ora: «si dice che i manicomi non devono esistere però si devono creare delle situazioni alternative che garantiscano tranquillità e sicurezza”; si vuole “l’assicurazione che non venga meno il controllo”» (p. 107). E questo è certo comprensibile sul piano della storia, dove possiamo sorprendere ripetutamente Basaglia stesso e il suo gruppo intenti nel controllo della follia o disperati quando falliscono in questo tentativo. Ma costituisce rispetto all’ipotesi filosofica che la follia possa avere a pieno titolo cittadinanza nella realtà, evidentemente un problema.

La legge 180 dunque, lungi dal risolverle, ha spostato su un piano più avanzato le contraddizioni che stanno alla base della nascita stessa della psichiatria, del suo, credo inevitabile, essere un Arlecchino al servizio di due padroni: il soggetto con le sue necessità di liberazione dalla sofferenza e di realizzazione umana, e la società con la sua necessità di controllo della follia.

Siamo dopo il 1978 e così, proseguono gli autori: «gli psichiatri alternativi non possono più identificarsi con la psichiatria tradizionale, ma non possono nemmeno identificarsi con la lotta contro il manicomio, perché c’è una legge che ne ha ormai decretato la fine» (p. 107). L’esigenza tattica (ma anche l’alibi), della seconda epoché insomma è venuta meno e la vittoria sul manicomio consegna di nuovo lo psichiatra ad «avere a che fare con una sofferenza che deve affrontare», e dinanzi alla quale si trova ora disarmato, «senza strumenti, senza difese, senza fede e senza identità»[4] (p. 108).

È una situazione difficile, ma si tratta per gli Autori di una sospensione che Basaglia «da buon fenomenologo, non ha mai cessato di volere e di praticare» (p. 108): è l’opportunità di un modo diverso di fare “psichiatria”, a partire dal fatto che «è in questo vuoto ideologico e istituzionale che saremo costretti ad avvicinare il disturbo psichico al di fuori dei parametri e degli strumenti che ci hanno finora impedito di avvicinarlo»[5].

Sulle macerie del manicomio, Basaglia ritrova insomma quella che è stata la prima epoché, quella originale, e scrivono gli autori: «dinanzi all’inesorabile tendenza verso il rimpatrio in un nuovo sapere, in un nuovo assetto istituzionale e in una nuova identità, Basaglia rilancia il piacere dell’esilio, l’invito a raccogliere il piacere di un’effrazione che non può essere supportata o recuperata da nessun tipo di fede. Non soltanto non richiude la parentesi, lasciando aperta la domanda sulla follia, ma non dimentica nemmeno che l’esercizio dell’epoché, la messa tra parentesi della malattia mentale, se vuole davvero essere una promessa di senso e di verità, non deve sostenersi su niente, e non deve alimentarsi di niente, se non delle domande che vi si dischiudono (…). In questo estremo rifiuto della teoria riemerge, dunque, prepotentemente l’estremismo teorico di Basaglia» (p. 109).

Strada impervia, questa, per noi psichiatri a venire, lungo la quale è davvero un peccato che la morte abbia impedito a Basaglia di accompagnarci almeno per un tratto, con la sua intelligenza, la sua radicale onestà e il suo coraggio. Perché è davvero difficile, per chi pratica la psichiatria – ma anche per chi abita la società – fronteggiare a mani nude la follia! Senza lasciarsene sedurre, o senza cercare subito modelli, modi e luoghi nei quali imbrigliarla.

E così in molti, anche tra coloro che si erano impegnati nella lotta al manicomio, avrebbero negli anni cercato, in un modo o nell’altro, protezione nel grembo seducente di vecchie e nuove istituzioni rassicuranti, le tecniche psicoanalitiche o quelle sistemiche prima e poi, sempre più prepotente, la vecchia psichiatria naturalistica e organicistica magari mascherata di novità sotto le spoglie di nuovi tecnicismi. È stato il momento nel quale – come gli autori citano dal Jervis del Manuale critico di psichiatria (1975, p. 13) – pareva ineludibile l’alternativa tra uno «spontaneismo anti-tecnico, anti-psichiatrico e antiintellettuale» e il «tecnicismo terapeutico, efficientista, psicologizzante e anti-politico» nel quale oggi ci troviamo a operare (p. 240).

Al di là di queste considerazioni che mi hanno maggiormente colpito, segnalo che non mancano nel testo preziosi approfondimenti del pensiero dei contemporanei che sono più utili per la comprensione del pensiero di Basaglia, come Michel Foucault, la cui Storia della follia nell’età classica viene pubblicata in Francia nel 1961; Erwin Goffman, del qual sempre nel 1961 viene pubblicato Asylums; e Frantz Fanon, del quale ancora nel 1961 viene pubblicato il volume I dannati della terra. Quel 1961 che ha segnato anche l’ingresso di Basaglia a Gorizia.

E dei modelli innovativi di assistenza psichiatrica che Basaglia ha presenti in quel momento e approfondisce con i viaggi e con lo studio: la comunità terapeutica e le politiche sanitarie universalistiche della Gran Bretagna; la psicoterapia istituzionale e la psichiatria di settore sviluppatesi nella Francia del dopoguerra; l’implementazione delle politiche di igiene mentale negli Stati Uniti dell’era Kennedy.

Sono pagine altrettanto ricche e importanti, che contribuiscono, assieme all’identificazione delle questioni di fondo che attraversano il pensiero di Basaglia nel mezzo secolo che trascorre dal periodo padovano a quello romano e alla ricostruzione della vicenda di Gorizia, Parma, Trieste nel contesto di altre del periodo, e dei primi congressi di Psichiatria Democratica, a delineare la ricchezza e l’attualità di questo intellettuale fondamentale per la riflessione della psichiatria su se stessa, ma anche della società moderna sul suo rapporto con la follia.

Una nuova edizione, dunque, ben meritata quella di questo volume – del quale non abbiamo potuto qui riprendere che le questioni che ci sono parse centrali, sacrificando senz’altro molto per cui non possiamo che rimandare alla lettura – che affronta questioni ancora assolutamente aperte.

E che si ripresenta oggi aggiornato e arricchito da una breve ma intensa prefazione di Eugenio Borgna, della quale riprendiamo qui solo un passaggio con il quale questo protagonista indubbio della psichiatria italiana a orientamento fenomenologico, risponde a un’osservazione del libro postumo pubblicato da Slavich sul suo lavoro a Gorizia e affronta con chiarezza e onestà il rapporto tra l’insieme di questa corrente teorica e Basaglia, che ad essa è certamente appartenuto ma che, insieme, l’ha trascesa. E ne coglie, con una certa sofferenza ci pare, il punto essenziale nel fatto che alla riflessione – indubbiamente ricca sul piano teorico e umano – dei suoi maestri (e il pensiero va, per tutti, a figure come G.E. Morselli e Cargnello) siano mancate quelle doti di «coraggio e capacità organizzativa, fermezza e passione del possibile», che hanno permesso invece a Basaglia di coniugare la dimensione umana della riflessione sull’uomo e sulla follia con il lavoro pratico e politico volto alla liberazione del folle (e della stessa psichiatria) dall’ospedale psichiatrico.

[1] Cit. a p. 50 da F. Basaglia, Su alcuni aspetti della moderna psicoterapia… ora in Scritti, Torino, Einaudi, 1981, vol. I, p. 73. Il tema ritornerà in scritti successivi, e sarà centrale in Corpo e istituzione.

[2] F. Basaglia, Ansia e malafede, in: Scritti…, cit., vol. I, pp. 227-240 (p. 229).

[3] Cit. dagli autori da F. Basaglia, Crisi istituzionale o crisi psichiatrica? (1967), in: Scritti…, cit., vol. I, pp. 442-454 (p. 453).

[4] Citazioni da F. Basaglia, Prefazione, in: E. Venturini, Il giardino dei gelsi, Torino, Einaudi, 1978, p. XI.

[5] Ibid., p. XI.