basagliaLa prima presentazione italiana del libro Basaglia’s international legacy. From asylum to community, organizzata dall’Istituzione Gianfranco Minguzzi di Bologna, si svolgerà online il 16 novembre 2020 dalle 16.30 alle 19 e vi prenderanno parte con John Foot, uno dei curatori, gli autori italiani di alcuni capitoli, Angelo Fioritti, Chantal Marazia, Roberto Mezzina, Benedetto Saraceno ed Ernesto Venturini, oltre a Michele Zanetti, già presidente della provincia di Trieste. Modererà Bruna Zani, presidente dell’Istituzione Minguzzi.

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Di Paolo F. Peloso, psichiatra

[articolo uscito su psychiatryonline.it]

Non è ancora il premio Nobel postumo per il quale qualche associazione culturale triestina sta lavorando a proporlo, d’accordo, ma certo la pubblicazione di un volume dedicato all’eredità internazionale di Franco Basaglia da parte della prestigiosa Oxford University Press mi pare un bellissimo modo di celebrare i quarant’anni dalla sua scomparsa. A curare il volume uno psichiatra e uno storico tra quelli che si sono più occupati in questi anni nel Regno Unito della figura di Basaglia e della riforma psichiatrica in Italia, Tom Burns e John Foot. Il volume è il risultato di un simposio tenutosi a Oxford nel settembre 2018, per il quarantennale della Legge 180, e consta innanzitutto di alcuni capitoli introduttivi: sul senso dell’operazione editoriale; sulla figura di Basaglia; il suo pensiero; la sua eredità in Italia; quella nel mondo. Seguono quindici capitoli che prendono in esame diverse realtà internazionali, e un capitolo nel quale i Curatori traggono le conclusioni.

Nel primo capitolo John Foot, che è stato autore nel 2014 del volume La repubblica dei matti. Franco Basaglia e la psichiatria radicale in Italia 1961-1978, edito da Feltrinelli, riprende i suoi studi e ricostruisce i tratti fondamentali della vita e della personalità di Basaglia.

Nel capitolo successivo lo storico irlandese Oisin Wall ricostruisce la storia dell’antipsichiatria britannica e del rapporto che Basaglia ebbe con i suoi esponenti, a partire da Laing che, come Wall ricorda, incontrò una prima volta in occasione del famoso congresso londinese del 1964 nel corso del quale propose la distruzione dell’ospedale psichiatrico, e una seconda nel 1969, quando con un gruppo di documentaristi guidato da Paolo Tranchina lo intervistò, e visitò Kinsley Hall.

L’Autore, la cui illustrazione dell’antipsichiatria inglese è molto interessante, osserva che la confusione tra Basaglia e gli antipsichiatri è molto diffusa nel mondo anglosassone nonostante i riferimenti a lui e alla sua opera siano molto scarsi nei loro scritti e possa essere stata un ostacolo al suo recepimento in Gran Bretagna, ma per parte sua conclude cogliendo quella che a me pare un’osservazione dirimente, al di là di ogni dubbio: che mentre il progetto di Basaglia aveva per obiettivo la distruzione dell’ospedale psichiatrico (e, aggiungerei, la costruzione di un sistema alternativo di cura per tutti, e sottolineo il carattere di sanità pubblica del progetto, gli internati), quello degli antipsichiatri invece «non era cambiare il sistema psichiatrico, ma rifare la società attraverso una rivoluzione culturale organizzata in anti-istituzioni», sulla base, aggiungerei, di esperienze a carattere sperimentale condotte su piccola scala.

Il lavoro di trasformazione della psichiatria volto a renderla appunto democratica, da parte di Basaglia, non ha dunque a che fare con la sua distruzione (ad essere distrutto invece deve essere l’asilo) e si inscrive in una prospettiva che riguarda la società nel suo insieme. E poi, mentre il tema intorno al quale ragiona l’antipsichiatria è soprattutto quello della relazione tra follia e libertà, nella prospettiva di Basaglia, che è quella più generale – come illustra molto bene Mezzina nel volume – del riformismo italiano postresistenziale che anima anche la Legge 833, la questione della libertà non va mai disgiunta da quella della giustizia sociale, in una prospettiva più ampia che vuole universalmente garantiti non solo la libertà, ma anche l’accesso, attraverso il lavoro e quindi il reddito, ai mezzi materiali per il suo esercizio, questione che mi pare trovi invece nell’antipsichiatria britannica poco spazio.

Così, nonostante il fatto di muoversi contro la psichiatria ufficiale nello stesso periodo abbia dato loro occasioni d’incontro (dalla presenza di Laing tra gli intellettuali “contro” considerati dai coniugi Basaglia in Crimini di pace, alla famosa fotografia di Cooper tra i pazienti di Trieste sull’aereo) e possa indurre confusione, mi pare che questa differenza sia così macroscopica da non lasciare dubbi sul fatto che Basaglia non sia da confondere con gli antipsichiatri. Proprio nell’introduzione al dialogo con Laing in Crimini di pace e in almeno due occasioni nelle Conferenze brasiliane la sua stessa posizione sul punto è lapidaria e non mi pare che lasci spazio a equivoci; e anzi, personalmente azzarderei che il rischio che le idee che Basaglia esprime sulla malattia mentale e sul lavoro psichiatrico possano essere scambiate per antipsichiatria, non mi pare superiore a quello che potrebbero correre le idee espresse da altri illustri esponenti della corrente fenomenologica della psichiatria, forse ancora più di lui negletti nel dibattito anglosassone. Per parte mia, perciò, sarei (forse da italiano, me ne rendo conto) più tranchant sul punto di quanto lo sia Wall e di quanto lo siano i curatori stessi nell’introduzione e nel capitolo conclusivo del volume.

Trovo più consonanza (certo, probabilmente in quanto italiano) col capitolo scritto da Roberto Mezzina, il quale riesce – ed è davvero ammirevole – a illustrare in una ventina di pagine i nodi centrali del pensiero di Basaglia e dell’esperienza di Trieste, che lui stesso ha guidato dopo Rotelli e Dell’Acqua, in rapporto ad alcuni concetti odierni della psichiatria. Al centro del discorso è il concetto di deistituzionalizzazione, che come è noto non è da intendersi solo come chiusura del manicomio e delle istituzioni totali, ma come un movimento complesso che non riguarda solo il soggetto nel suo rapporto con la malattia (che viene, quindi, messa tra parentesi), ma lo investe nella totalità della sua persona e della sua posizione in relazione con gli altri, nella società. Specularmente, però, «operare la deistituzionalizzazione» scrive Mezzina – «significa combattere contro il meccanismo che opprime non solo, naturalmente, il paziente, ma anche il suo guardiano-terapeuta». Ha luogo così una mutua soggettivazione, secondo Basaglia, nella quale, aprendosi al riconoscimento dell’altro e alla sua partecipazione come soggetto, anche lo psichiatra e l’operatore della salute mentale vedono trasformata la propria posizione, per consentire all’incontro di cura di trasformarsi il più possibile in un incontro tra persone che hanno, ciascuna, il proprio potere e partecipano ad esso nell’autenticità della propria presenza umana, auspicabilmente – e a ciò Basaglia tiene particolarmente – anche nel vivo delle contraddizioni tra le reciproche idee. In aggiunta, la deistituzionalizzazione presenta anche una dimensione socioeconomica, che consiste nella possibilità (che Basaglia non perde mai di vista), per il soggetto, di accedere – attraverso il proprio lavoro che ha perciò una centralità in questo percorso – alle opportunità che possono consentirgli di vivere in modo dignitoso in contesti extraistituzionali, e di emanciparsi dalla condizione di «povertà personale e sociale, perdita di diritti, impossibilità di accedere alle risorse sociali» che la malattia spesso comporta.

Perché ciò avvenga occorre, per Mezzina, creare un servizio nel quale sia possibile una complessa interazione tra l’esistenza sofferente (e la malattia stessa, che può essere portata ora, chiuso il manicomio, fuori dalla parentesi e affrontata contestualmente alle altre dimensioni della persona) e la vita stessa nel suo complesso, attraverso situazioni e contesti esperenziali idonei.

La dimestichezza che Mezzina ha da molti anni con i contesti internazionali di discussione sulle questioni di salute mentale, e l’OMS soprattutto, gli consentono poi di agevolare l’avvicinamento al concetto di deistituzionalizzazione da parte del mondo anglosassone esplorandone la relazione con quello di recovery (nel suo essere insieme clinica, personale e sociale) e con la questione del rispetto dei diritti umani nei contesti di cura e di vita.

Tocca poi ad Angelo Fioritti, direttore del DSM di Bologna, presentare in questo contesto internazionale l’eredità di Basaglia nella psichiatria italiana dei nostri giorni. Nell’illustrare in modo sintetico ma molto puntuale la nostra realtà e sottolinearne il carattere variegato, Fioritti individua alcuni aspetti comuni nella cultura dei nostri servizi nel tentativo di integrare, in modo spesso conflittuale, «pratiche basagliane, concetti derivati dalla psicoanalisi, elementi di psichiatria sociale ed epidemiologia e nozioni medico-biologiche, soprattutto in riferimento all’uso degli psicofarmaci». E rileva che negli ultimi decenni «come in molte altre parti del mondo, il clima sociale e politico è rapidamente cambiato e la leggendaria solidità della società italiana ha lasciato il posto a individui e famiglie frammentati, diffidenti, impoveriti, che domandano sicurezza e alleggerimento della complessità della vita di ogni giorno». Lo spazio per il mantenimento di reti sociali efficaci diviene in questo contesto più ridotto e l’interazione tra i DSM e la magistratura, i comuni, i servizi sociali e la società in genere aumenta in complessità e, perciò, conflittualità.

«Basaglia e il paradigma della deistituzionalizzazione hanno significato, e continuano a significare» – prosegue Fioritti – «in Italia molto più che la chiusura degli ospedali psichiatrici»; costituiscono un’eredità che, accumulata negli anni ’60 e ’70, deve ora affrontare nuove sfide che la mettono più in difficoltà. E così conclude che la consapevolezza di questa eredità deve essere incoraggiamento a proseguire senza farsi intrappolare nella nostalgia.

E certo, l’Italia ha chiuso gli ospedali psichiatrici, si è data una rete di servizi alternativi sul territorio e a quarant’anni di distanza non ha fatto passi indietro, anzi ha portato avanti questa impostazione con la chiusura degli OPG. Sarà però forse la maggiore propensione al mugugno che mi caratterizza come ligure, ed è accentuata in questi mesi difficili, a indurmi a riflettere anche sul fatto, e credo che Angelo mi perdonerà e condividerà anzi questa chiosa, che il problema di un’insufficiente ricezione dell’eredità di Basaglia – nata anche dai compromessi necessari per ottenere la legge – esiste fin dall’inizio anche nella parte preponderante della psichiatria italiana, e può essere all’origine delle difficoltà ad affermarsi che il paradigma della deistituzionalizzazione ha incontrato anche tra noi, con conseguenze più evidenti che vanno dal ritardo nella reale chiusura degli OPG alla neoistituzionalizzazione, sulla quale Priebe e Fioritti hanno richiamato tra i primi l’attenzione ormai quindici anni fa, o meno evidenti come un’insufficiente attenzione ad esso nella pratica quotidiana dei servizi, dove è un fatto che negli anni il nome di Basaglia risuona sempre meno. Ragione per la quale mi pare che – tanto più in questo contesto più difficile – un ritorno a Basaglia (al quale l’uscita di questo testo può senz’altro contribuire) per sanare quello che forse è stato un vizio di origine e recuperare ciò che ci siamo lasciati indietro e potrebbe essere utile, meriterebbe oggi di essere preso in considerazione.

Benedetto Saraceno, già responsabile dell’OMS per la salute mentale, e Sashi P. Sashidaran, docente dell’Università di Glasgow, si interrogano sul perché della scarsa recezione internazionale di Basaglia, con eccezione di aree limitate che vanno dalla Spagna, all’America Latina, ai Balcani e vedono in particolare esclusi i Paesi anglossasoni. Tra le ragioni di questo fenomeno gli Autori individuano l’accorpamento di Basaglia, per di più in posizione spesso subalterna, al movimento antipsichiatrico, del quale si è detto; il fatto che l’approccio di Basaglia appaia a molti guidato dall’ideologia, quando invece è stato costruito e per così dire “scoperto” nel lavoro pratico quotidiano della deistituzionalizzazione condotta a Gorizia e documentata quasi con pignoleria negli scritti; l’idea che il lavoro di Basaglia fosse mosso esclusivamente da intenti filantropici, civili, politici, ma fosse privo di una dimensione che possa essere considerata “scientifica”, il che ha anche a che fare anche con il disprezzo che non ha mai celato verso il mondo dell’accademia e della “scienza” ufficiale ad essa legata.

Altre possibili ragioni emergono nella lettura del testo e stanno nella scarsa attenzione alla fenomenologia nel mondo anglosassone, nella difficoltà di comprendere, in Basaglia, lo stretto rapporto tra esercizio della psichiatria (al quale non si è mai sottratto) e critica della psichiatria; tra pratica istituzionale e critica dell’istituzione; o tra teoria e prassi. Nell’essere cioè, Basaglia, un intellettuale che avverte la necessità di essere difficile e complesso, contraddittorio, per aderire a una realtà che è, a sua volta, difficile e complessa.

Al termine, gli Autori fanno il punto sul lavoro internazionale del DSM di Trieste, che ha implicato negli anni rapporti con Brasile, Argentina, Balcani, Gran Bretagna e riguarda oggi America Latina, Galles, India e Cina.

I capitoli successivi prendono in considerazione il diverso impatto che il pensiero di Basaglia e la vicenda psichiatrica italiana hanno avuto sull’America Latina e in modo particolare il Brasile e l’Argentina, la Spagna, la Grecia, la Gran Bretagna, l’Irlanda, la Germania, la Polonia, l’Olanda, la Francia, la Yugoslavia, gli Stati Uniti, la Svezia.

È questa senz’altro la parte più originale del volume, e costituisce una messa a punto della quale esisteva senz’altro la necessità, anche per sottrarre in Italia il dibattito su Basaglia a una prospettiva che è stata troppo spesso angusta e provinciale.

In alcuni casi, come si accennava, il recepimento del suo pensiero e del caso italiano è stato positivo e fruttuoso, in altri è stato contestato e respinto o, più frequentemente, ignorato; e ci sono poi casi, sottolineano i Curatori, come quello della Germania e dell’Olanda, nei quali si è assistito negli anni al succedersi di atteggiamenti diversi.

Nelle conclusioni, Burns e Foot colgono alcuni limiti dell’eredità di Basaglia nell’assenza, nei suoi scritti e in quelli dei suoi epigoni, di riferimenti a temi oggi centrali nel dibattito internazionale sulla salute mentale, come quello del rapporto tra salute mentale e medicina di base; o della specializzazione degli interventi; o delle peculiarità della salute mentale di genere.

Poi riprendono la questione degli ostacoli che la diffusione del pensiero di Basaglia ha incontrato, a partire dalla considerazione che «l’approccio basagliano sembra richiedere alti livelli di capitale sociale in termini di solidarietà sociale, offerta di welfare, tolleranza, oltre a attività e impegno civico e politico». E dall’osservazione, che mi pare anch’essa molto pertinente, che tutte le realtà che hanno aperto all’eredità basagliana sono realtà politico-culturali instabili: dall’Italia della fine del fascismo; alla Spagna della fine del franchismo, dove Basaglia fece cinque viaggi tra 1973 e 1980; all’America latina, e il Brasile in particolare, delle defascistizzazioni; persino al Mozambico della decolonizzazione. Perché dove le istituzioni invece sono più stabili (Francia e Gran Bretagna ad esempio) accade forse che minore sia (tanto nel mondo psichiatrico che nella società) la propensione a mettersi in gioco, minore quella a mettere radicalmente in crisi le proprie convinzioni.

E quella di Basaglia è senz’altro una psichiatria della e nella crisi.

Ancora, i Curatori individuano un altro ostacolo al recepimento dell’eredità di Basaglia in particolare negli USA e in alcuni Paesi europei e latinoamericani nel suo costante riferimento alla questione economica («chi non ha, non è», risponde in una nota intervista a Zavoli), e nel suo rapporto con il marxismo, Gramsci e Mao particolarmente, e con la sinistra in genere a partire da Sartre, Fanon, Foucault. E questa mi pare una distorsione dalla quale mi sono sempre stupito, in base alla quale sarebbe ideologico l’approccio di chi tiene presenti le ingiustizie del mondo e le teorie che, detto molto genericamente, si sono sviluppate per contrastarle; mentre non lo sarebbe quello di chi prescinde dal considerare questo dato di fatto e dà per scontata, come uno sfondo ininfluente, i rapporti di potere politici, sociali, economici esistenti. E, certo, sono d’accordo che sì, anche questa peculiarità di Basaglia può contribuire a fare di lui, come di tanti altri dei suoi anni, un intellettuale scomodo, del cui contributo la “scienza”, quella che si coltiva nelle accademie e nell’establishment, fa volentieri a meno.

Insomma, mi pare che a questo proposito esista un rischio di cercare le ragioni più varie, rischiando di scotomizzare proprio quella che mi pare la più macroscopica, che consiste nel fatto che il lavoro psichiatrico, come concepito da Basaglia, è molto più faticoso e difficile, chiede molto di più del lavoro psichiatrico come comunemente inteso, tiene decisamente più conto delle esigenze del paziente che di quelle dell’operatore di qualunque livello sotto il profilo della distribuzione del potere, degli orari, dei ritorni economici ecc.; è insomma scomodo e poco accattivante e perciò o non viene recepito o quando lo è perché la lotta impone che proprio non se ne possa fare a meno, accade come in Italia che lo sia in modo sempre precario, insufficiente, molto parziale.

Ancora, i Curatori ci regalano, questa volta con una puntigliosità e un amore per le cose chiare che è certo un pregio della cultura anglosassone rispetto a quella latina, una riflessione importante su due termini che spesso sono utilizzati in modo disinvolto: che cosa definisce una comunità terapeutica (dimensione, stile, ecc.) e che cosa un ospedale psichiatrico (dimensioni, relazioni interne, durata dei trattamenti, ecc.).

Terminano poi giustamente con l’orgoglio di avere offerto, con questo volume – che spero troverà presto una traduzione italiana – una serie di storie che non erano ancora state raccontate (e non erano state raccontate insieme), e con la speranza «che questo libro ispirerà ulteriori dibattiti e riflessioni» – quel confronto incessante che Basaglia amava, nel quale dava il meglio di sé e dal quale solo pensava che potesse scaturire il progresso scientifico e umano, insomma – e in questo spirito invitano a leggerlo.

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