mmgDi Peppe Dell’Acqua

Bisogna tornare con rigore su un tema che era stato uno dei punti di svolta della riforma sanitaria del ’78. Non posso non ricordare le parole umanissime di quella legge: territorio, comunità, vicinanza, equità, libertà, dignità. Parole che sono state tradite nel corso di 40 anni, un pezzo alla volta, senza che ce ne accorgessimo. Quella volta era ministra della salute Tina Anselmi, la giovane partigiana Gabriella. E invece il fallimento del sistema sanitario, ospedale al centro e tanto privato, in alcune regioni più che in altre, è ormai indiscutibile; si capisce che la solitudine del medico di medicina generale, la pochezza delle reti socio sanitarie territoriali, la miseria che riscontriamo oggi in tante politiche di welfare e per finire all’orrore della strage dei vecchi, vengono da lontano.

Quella volta noi giovani scoprivamo che la persona è sempre la sua storia, che non si può vivere gli uni senza gli altri e che anche nei momenti di maggiore sofferenza, fragilità, ritiro – e anche quando la vecchiaia incombe e cominciamo a scambiare una penna per una forchetta – ognuno di noi ha sempre il desiderio di esserci. Esserci significa noi che stiamo insieme, tutti, nessuno escluso…

In questi mesi abbiamo imparato a conoscere persone di indubitabile valore: uno tra tutti il professor Galli, che non conosco eppure stimo molto, che con sempre maggiore insistenza ha denunciato l’assenza di una medicina territoriale. Medicina territoriale che trova negli infiniti (e spesso inutili) dibattiti pubblici una sconcertante semplificazione. Prima tra tutte è dire che medicina territoriale significa disporre dei medici di famiglia. La presenza di questa figura professionale è indiscutibile ma quello che manca, e molto, è tutto quanto deve svilupparsi in aree territoriali ben definite: cominciando da un distretto socio-sanitario/casa della salute in costante rapporto con l’ospedale, capace di governare gli ingressi e assicurare dimissioni in sicurezza, e la continuità assistenziale. Un distretto che abbia al suo interno risorse, figure professionali differenti, strumenti per conoscere e attraversare i territori. Che deve promuovere e coordinare azioni anche molto diverse tra loro e spesso originali: dalla visita specialistica alla presenza domiciliare, all’attenzione quotidiana delle persone più fragili, dei portatori di malattie di lunga durata e sicuramente delle persone che invecchiano, tanto più quando vivono in solitudine e in condizione di indigenza. Un distretto che riesce a individuare microaree del territorio e su queste far convergere tutte le opportunità disponibili.

Attenzione alla vita quotidiana dovrebbe significare sapere dove e come dormono le persone, che relazioni hanno, come e quanto mangiano, cosa si attiva per far crescere gli scambi all’interno dei contesti di vita, e tante altre cose che hanno a che vedere con la persona e non solo con la malattia. Di questo si parla poco e soprattutto si dà per scontato che le persone che invecchiano, quando sole e appena poco capaci, definite dalle scale di valutazione non autosufficienti, siano condannate a salire, recalcitranti, le scale delle case di riposo. Le persone cominciano così a costare per riprodurre la non-autosufficienza e non, come meglio sarebbe, per scommettere su un’ulteriore autonomia possibile. Molte sono le pratiche per aiutare le persone a restare a casa, anche con severi impedimenti e malattie di lunga durata, utilizzando diversamente le risorse. In più organizzazioni sanitarie è stato sperimentato con risultati molto incoraggianti il ricorso al budget di salute, ovvero al progetto terapeutico individuale.  Sarà il distretto a promuovere l’integrazione e il concorso di più servizi e più istituzioni, primo tra tutti il servizio sociale comunale in aree di territorio delimitate, che abbiamo cominciato a chiamare microaree.

Sono più di 300 mila le persone che invecchiano e vanno di anno in anno a ingigantire questa dolente popolazione. Mediamente il costo in una casa di riposo si aggira tra i 3 e i 4mila euro al mese, più di 10 miliardi all’anno . La grande “rivoluzione amministrativa” che è cominciata tra mille impedimenti a Trieste e nel Friuli Venezia Giulia già da 15 anni (e in via di sperimentazione in altre regioni italiane) utilizza il costo della retta per sostenere progetti individuali e/o di microgruppi di abitare. Progetti e risorse che organizzano non solo l’assistenza domiciliare ma anche la presenza di una persona, una badante della cooperativa, per più ore al giorno o anche per le intere 24 ore. La regia del distretto non può che essere “forte”, nel disporre le risorse del territorio, pubbliche, del privato e del privato sociale.

Mentre si esplorano i territori e si riconoscono i bisogni delle persone si precisano visioni e obiettivi: valorizzare il capitale umano che ognuno sempre possiede; arricchire il capitale sociale, le relazioni, gli scambi; avvicinare e rendere attraversabili i servizi sociali, educativi e sanitari che sono nati proprio per essere attraversati dai cittadini. Distretti sociosanitari e microaree per interventi capillari nelle periferie sono ormai una risposta possibile. Di recente è giunta a conclusione una ricerca compiuta dagli epidemiologi delle Università di Udine e Torino sul distretto e le microaree triestine. I risultati sono quanto mai positivi e incoraggianti, specie sul piano dell’arricchimento del capitale sociale.

Cedendo alla nostalgia, sono tornato da poco a incontrare gli operatori nei servizi territoriali della mia città. Volevo chiedere del progetto Microaree e delle sue evoluzioni. «Microaree – mi hanno detto i giovani operatori con orgoglio – è un progetto appassionante per fare comunità, per fare salute, per affrontare le diseguaglianze, per rendere a tutti il diritto alle cure e per sentirci noi in un bel sogno di futuro». Mi hanno raccontato del loro andare a casa delle persone, di tanti vecchi soli, magari al quinto piano senza ascensore, a sentire il loro male, la nostalgia, la tristezza o la gioia per una piccola festa da condividere; e inventare sempre qualcosa pur di restare a casa, nel rione, con la vicina che ora partecipa alle riunioni e va ad aiutare, e con i giovani del portierato sociale che ogni giorno chiedono come va, e con l’infermiera di comunità che aiuta a prendere le medicine senza sbagliare, che viene a misurare la pressione, a fare il prelievo per la glicemia; e il medico di famiglia, il medico del distretto e gli specialisti che quando serve vanno a casa insieme agli infermieri.

«Facciamo di tutto – mi hanno detto – perché specie i più vecchi, i più malandati, i più scontrosi possano restare a casa, magari con la badante della cooperativa, con l’aiuto dell’assistente sociale del comune, magari col pranzo quotidiano a domicilio, con il riscaldamento che funziona, e il cappotto per l’inverno e la camicia per l’estate; con la compagnia di un ragazzo o una ragazza del servizio civile, con le signore della parrocchia».

E ancora, raccontano del coinvolgimento di gruppi di volontariato, per attività le più disparate: dalla scuola di ballo ai corsi per le competenze digitali, ai gruppi di lettura, a eventi che tendono a creare conoscenza tra le persone, laddove oggi molte volte il vicino di casa da sconosciuto finisce per diventare un nemico.

Trieste, novembre 2020

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