brianrea[Illustration by Brian Rea]

Di Francesca Baggio, da appunti di quando era specializzanda

Il primo era un ragazzo africano. Lì si usava chiuderli a chiave dentro ad una stanza. «È per proteggerlo dalle aggressioni degli altri pazienti!» mi fu detto. Ci credevano davvero.

Il tutto in una regione che ogni estate veniva devastata dagli incendi. Ed era estate. Che bastava un alito di scirocco per divorare la città, in un reparto dove si fumava. Non volevo slegarlo, almeno non subito. Ero solo al primo anno.

«Poi magari spacca tutto…», convenni con me stessa che sarebbe stato meglio parlarci un po’ prima…«poi vedo». E così, quando il codazzo di camici bianchi defluì fuori dalla sua stanza (era uno strano reparto, che aveva a volte più medici che pazienti, anche se differenziarli non era sempre facile) rimasi ferma in un angolo, sperando di non essere notata.

Mi notarono.

«Vieni fuori» mi disse la collega.

«No, resto un po’ qua».

«ESCI!!!» urlò, e tutti gli altri dietro, urlando in mezzo al reparto.

Non ricordo molto. Le grida: «TU DEVI RISPETTARE LE REGOLE!!! SEI SOLO UNA SPECIALIZZANDA!». Io, allora, che chiedevo con sfida di vedere i protocolli, conscia di essere in una regione dove la parola si onora a tal punto da quasi non avere bisogno dei contratti d’affitto, figuriamoci di protocolli! Poi io che mi sentivo appellare il primario, che forse mi vedeva allora per la prima volta, con il suo nome di battesimo, e ancora io che uscivo, dal reparto, dall’ospedale, e che accovacciata in lacrime, sul marciapiede accecato dal biancore del tufo circostante, chiamavo rabbiosa il mio buon analista.

Ci misi una buona ora e mezza a rientrare (il mio analista aveva risolto la telefonata in poco più di dieci minuti, lui segue il tempo logico).

Al rientro nessuno mi considerò.

Poi una piccola infermierina si avvicinò intimidita: «Per me aveva ragione lei dottoressa» sussurrò.

Mi fu sufficiente per andare avanti.

*

Altra regione, altro reparto. Notte di guardia. Terzo anno.

Stavolta era un ometto del Pakistan, così mingherlo da poter essere fermato con due dita perfino da me.

Ripeteva in inglese che aveva fame, ma ogni volta che gli si avvicinava qualcosa alla bocca, scuoteva la testa con forza.

Voleva mangiare, sì ma, come si suol dire, da bravo cristiano.

Lo slegai. Tutto il comparto si dileguò dissentendo, lasciandomi sola.

Lui si diresse alla sala da pranzo, io dietro. Si sedette ignorando chiunque, e avidamente mangiò.

Poi, soddisfatto, ritornò a letto.

Scusandomi, lo legai nuovamente.

La mattina seguente fui convocata dalla caposala.

«B…, i pazienti si slegano al mattino, quando c’è il personale medico!».

La guardai stupita: «Ma io sono un personale medico…».

«Sì ma si slega al mattino, che c’è più gente. Poteva succedere qualcosa».

«Ma non è successo!».

«Ma avrebbe potuto!!!».

«Forse ho valutato correttamente, ed è per questo che non è successo nulla».

Chiusi la partita.

*

Altra notte di guardia. Quarto anno. Stesso reparto.

Il terzo era cinese.

[Si sa, l’alterità fa paura. L’alterità dell’alterità fa paura paura]

Ovviamente non parlava italiano, non lo parlano mai.

Con il vecchio cordless alla mano composi il numero di Roma per il servizio di traduzione telefonica. Ed eran tempi ante Covid.

«Buonasera, avrei bisogno di un traduttore cinese… Salve, c’è un suo connazionale qui ricoverato, può aiutarci a comunicare?».

Lui ricominciò a parlare, gli avvicinai istintivamente il cordless alla bocca.

«Dice cose confuse» disse lei.

«Immagino, siam in psichiatria…può gentilmente chiedergli se ha dei parent…»

[tutututututu]

Lì in fondo non si prendeva quasi nulla.

Ricomposi il numero: «Salve, avrei bisogno di un traduttore cinese». Altra operatrice, ovviamente, ricominciamo…

«Può spiegargli dove si trova?».

[tutututututu]

Feci qualche altro tentativo, cercando anche di memorizzare i numeri identificativi per dar continuità alla comunicazione. Niente.

Mi arresi.

Ma lui si agitava, mi guardava, e parlava.

Mi girai verso i miei infermieri: «Non mastico molto il mandarino, ma mi sembra stia chiedendo di essere slegato».

Questa volta erano con me.

Lui si drizzò, si strappò di dosso il pannolone di ordinanza… e poi si udì la sonora pisciata della libertà. Rientrò e, senza nemmeno degnarci di uno sguardo, crollò sul materasso russando.

Questa volta non lo rilegai.

Alle 7.58 ero già davanti alla porta della palazzina, pronta a costituirmi.

Il direttore era un tipo molto puntuale.

«Dottore, ho slegato il cinese, legato si agitava di più».

«Hai fatto bene» e passò oltre.

Uscii a respirare una boccata di sole.

Ero finalmente una donna libera.

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