Qualcuno vuole che Trieste collassi perché Trieste non è riuscita a mostrare con forza, fuori, in
Italia, cosa realmente è. La gente ha un’immagine che Trieste non è: un’immagine di una
psichiatria sociale che ha vissuto in Malafede. Semplicemente Trieste fuori da Trieste nessuno l’ha
mai conosciuta a fondo. Trieste è stata scambiata con basaglianismi ideologici per cui viene
attaccata un’immagine di Trieste che è il suo fantasma, ma non la sua realtà.
Franco Basaglia stesso si interrogava sul fatto che era stato un errore il dire semplicemente “venite
a vedere”. La gente dall’Italia non è venuta a vedere in massa e ha preferito bollarla come
ideologia da combattere.
Perché delle pratiche di Trieste nessuno ha mai voluto realmente sapere mentre dell’ideologia
basagliana non tradotta in pratiche invece si, l’Italia è piena, e molti hanno saputo.
A Trieste si fa della pratica (di Salute Mentale) e non dell’ideologia.
Ma fuori dal Friuli Venezia Giulia si pensa che sia solo ideologia.
Confondere Trieste agli occhi del fuori con l’ideologia basagliana non declinata in pratiche è stato
un grosso fraintendimento. Fuori poche istituzioni vogliono andare oltre la psichiatria.
Fuori molti vogliono che Trieste collassi e non solo chi Trieste non l’ha conosciuta ma anche chi
nella realtà di Trieste trova la prova vivente della propria Malafede.
Nella Malafede, per dirla con Jean-Paul Sartre, il “soggetto maschera una verità spiacevole o
presenta come verità un errore piacevole” e così la verità non la maschera solo a chi la racconta
ma anche a se stesso. Tutti sono convinti della stessa realtà che però, proprio a causa del
processo di Malafede, non corrisponde al vero.
E questa è la fine di Trieste, soffocata dalla Malafede.
Ma perché Trieste ha dimostrato nei fatti, in quel che è vero nella pratica direbbe Franco Basaglia,
che è necessario andare oltre la psichiatria?
La domanda ha avuto una risposta concreta semplicemente nella vita di migliaia di persone che
negli anni hanno trovato nel Dipartimento di Salute Mentale di Trieste, e in quelli del Friuli Venezia
Giulia, un volano in grado di articolare la propria esistenza con il concreto della vita quotidiana,
nelle maglie della cittadinanza e della città, senza che tali soggetti venissero appiattiti a una
malattia in parte artificiale e ridotti a fruitori di sole risposte ambulatoriali (cosa che è la psichiatria)
non in grado di uscire dalle mura delle istituzioni, senza mettere in atto in fondo un vero processo
di cura.
Le scelte radicali portate avanti negli anni dalla Salute Mentale triestina hanno permesso di diluire
con forza il disagio nel reale e di costruire opportunità concrete per le persone alle quali in ogni
società capitalistica, per propria vulnerabilità, tali opportunità rischiano di essere costantemente
sottratte.
Trieste è riuscita ad allinearsi, o meglio forse è avvenuto proprio il processo contrario, al
cambiamento di ottica che nella Salute Mentale è avvenuta, con il cambio di secolo, da parte
dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, dove a una visione medicocentrica fondata sulla
malattia si è preferito un paradigma complesso (e cosi in grado di rendere giustizia all’umana
esistenza) basato sui determinanti sociali di salute e quindi sul concetto, appunto, di Salute (e non
di malattia).
Ma la salute come ben sappiamo è gestita a livello aziendale e politico, le procedure di selezione
del personale, e di chi dirige, e la riarticolazione delle strutture e delle sue pratiche, si basa su
procedure di governo ai quali, ahimè, è sottesa la vera ideologia, politica (nei mesi scorsi due
scritti, un articolo riportato dalla rivista Internazionale in data 16 aprile 2021 a firma dello storio
inglese John Foot, dal titolo tradotto e addolcito “Studiare tra i baroni”, e successivamente
un’inchiesta uscita il 22 aprile 2021 sulla homepage del quotidiano La Repubblica, e poi riportata
integralmente la domenica successiva sull’edizione cartacea, dal titolo “Inchiesta sull’università
malata e sulla strage silenziosa del merito”, hanno esplicitato i meccanismi peraltro legali di
selezione di candidati a concorsi pubblici, in questo caso universitari. Come non notare una certa
riproduzione a livello di tutte le istituzioni di una pratica oramai assodata di sostituzioni di Saperi
con pratiche legalizzate di Potere? Sistema che, ahimè, sostiene molto del settore italiano pubblico
senza alcun vizio di forma, per cui è inattaccabile: è la stessa forma che si costruisce di volta in
volta per sostenere appunto in sede dell’assegnazione delle cariche la scelta del candidato
prescelto, a sostegno del potere indiscusso della commissione, spesso a discapito di un merito
reale e di una conoscenza raffinata dei sistemi, ma corrispondendo a un meccanismo di
affiliazione, familiare o fiduciaria se non semplicemente ideologica).
Pertanto Trieste si trova schiacciata tra un’ideologia basagliana, che non gli appartiene se non
come eredità vera concreta e forte ma senza -ismi, eredità di cui deve esser fiero il popolo triestino
e che non dovrebbe essere persa, e un’ideologia politica, che con il cambio di bandiera (appunto
politica), che concretamente si verifica normalmente in ogni luogo, potrebbe fare, sulla spinta
dell’esercizio di un potere, dello smontaggio della macchina di integrazione della persona con
disagio mentale (i Dipartimenti di Salute Mentale del Friuli Venezia Giulia), un proprio terreno di
battaglia.
Una volta Allen Frances, psichiatra americano che ha coordinato le Task Force per il DSMIV (il
manuale diagnostico statistico americano diffuso in tutto il mondo e spesso scambiato come un
manuale di psichiatria, e successivamente uno dei principali critici, da dentro direi, del DSM5), ha
affermato, parafraso, che se si fosse ammalato nella psiche avrebbe voluto essere curato a
Trieste.
Se i discorsi di psichiatria e basaglianismi finiranno per schiacciare la realtà delle pratiche di Salute
Mentale di Trieste (che non possono essere ridotte a pura psichiatria, ma fanno della psichiatria
avanzata, e non possono essere ridotte a semplice ideologia perché fanno concreta Salute
Mentale) auguro ad Allen Frances e ai cittadini triestini di non ammalarsi nella mente perché in
futuro a Trieste rischiano di non trovare più delle pratiche avanzate, e in continua evoluzione, di cui
in tanti siamo stati testimoni, ma una semplice psichiatria di cui è pieno, purtroppo, il mondo: una
psichiatria che si occupa della malattia, ma che difficilmente produce salute, e che si racconta di
curare ma che fa difficoltà a integrare il debole nella città e che rischia, con il suo discorso e con le
sue pratiche, di tornare a escludere.
Antonio Luchetti
medico psichiatra Servizio di Psichiatria Merano
Maggio 2021

img_7212ddi Antonio Luchetti – medico psichiatra Servizio di Psichiatria Merano
Qualcuno vuole che Trieste collassi perché Trieste non è riuscita a mostrare con forza, fuori, in Italia, cosa realmente è. La gente ha un’immagine che Trieste non è: un’immagine di una psichiatria sociale che ha vissuto in Malafede. Semplicemente Trieste fuori da Trieste nessuno l’ha mai conosciuta a fondo. Trieste è stata scambiata con basaglianismi ideologici per cui viene attaccata un’immagine di Trieste che è il suo fantasma, ma non la sua realtà.

Franco Basaglia stesso si interrogava sul fatto che era stato un errore il dire semplicemente “venite a vedere”. La gente dall’Italia non è venuta a vedere in massa e ha preferito bollarla come ideologia da combattere.

Perché delle pratiche di Trieste nessuno ha mai voluto realmente sapere mentre dell’ideologia basagliana non tradotta in pratiche invece si, l’Italia è piena, e molti hanno saputo.

A Trieste si fa della pratica (di Salute Mentale) e non dell’ideologia. Ma fuori dal Friuli Venezia Giulia si pensa che sia solo ideologia.

Confondere Trieste agli occhi del fuori con l’ideologia basagliana non declinata in pratiche è stato un grosso fraintendimento. Fuori poche istituzioni vogliono andare oltre la psichiatria.

Fuori molti vogliono che Trieste collassi e non solo chi Trieste non l’ha conosciuta ma anche chi nella realtà di Trieste trova la prova vivente della propria Malafede.

Nella Malafede, per dirla con Jean-Paul Sartre, il “soggetto maschera una verità spiacevole o presenta come verità un errore piacevole” e così la verità non la maschera solo a chi la racconta ma anche a se stesso. Tutti sono convinti della stessa realtà che però, proprio a causa del processo di Malafede, non corrisponde al vero. E questa è la fine di Trieste, soffocata dalla Malafede.

Ma perché Trieste ha dimostrato nei fatti, in quel che è vero nella pratica direbbe Franco Basaglia,  che è necessario andare oltre la psichiatria?

La domanda ha avuto una risposta concreta semplicemente nella vita di migliaia di persone che negli anni hanno trovato nel Dipartimento di Salute Mentale di Trieste, e in quelli del Friuli Venezia Giulia, un volano in grado di articolare la propria esistenza con il concreto della vita quotidiana, nelle maglie della cittadinanza e della città, senza che tali soggetti venissero appiattiti a una malattia in parte artificiale e ridotti a fruitori di sole risposte ambulatoriali (cosa che è la psichiatria) non in grado di uscire dalle mura delle istituzioni, senza mettere in atto in fondo un vero processo di cura.

Le scelte radicali portate avanti negli anni dalla Salute Mentale triestina hanno permesso di diluire con forza il disagio nel reale e di costruire opportunità concrete per le persone alle quali in ogni società capitalistica, per propria vulnerabilità, tali opportunità rischiano di essere costantemente sottratte.

Trieste è riuscita ad allinearsi, o meglio forse è avvenuto proprio il processo contrario, al cambiamento di ottica che nella Salute Mentale è avvenuta, con il cambio di secolo, da parte dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, dove a una visione medicocentrica fondata sulla malattia si è preferito un paradigma complesso (e cosi in grado di rendere giustizia all’umana esistenza) basato sui determinanti sociali di salute e quindi sul concetto, appunto, di Salute (e non di malattia).

Ma la salute come ben sappiamo è gestita a livello aziendale e politico, le procedure di selezione del personale, e di chi dirige, e la riarticolazione delle strutture e delle sue pratiche, si basa su procedure di governo ai quali, ahimè, è sottesa la vera ideologia, politica (nei mesi scorsi due scritti, un articolo riportato dalla rivista Internazionale in data 16 aprile 2021 a firma dello storio inglese John Foot, dal titolo tradotto e addolcito “Studiare tra i baroni”, e successivamente un’inchiesta uscita il 22 aprile 2021 sulla homepage del quotidiano La Repubblica, e poi riportata integralmente la domenica successiva sull’edizione cartacea, dal titolo “Inchiesta sull’università malata e sulla strage silenziosa del merito”, hanno esplicitato i meccanismi peraltro legali di selezione di candidati a concorsi pubblici, in questo caso universitari. Come non notare una certa riproduzione a livello di tutte le istituzioni di una pratica oramai assodata di sostituzioni di Saperi con pratiche legalizzate di Potere? Sistema che, ahimè, sostiene molto del settore italiano pubblico senza alcun vizio di forma, per cui è inattaccabile: è la stessa forma che si costruisce di volta in volta per sostenere appunto in sede dell’assegnazione delle cariche la scelta del candidato prescelto, a sostegno del potere indiscusso della commissione, spesso a discapito di un merito reale e di una conoscenza raffinata dei sistemi, ma corrispondendo a un meccanismo di affiliazione, familiare o fiduciaria se non semplicemente ideologica).

Pertanto Trieste si trova schiacciata tra un’ideologia basagliana, che non gli appartiene se non come eredità vera concreta e forte ma senza -ismi, eredità di cui deve esser fiero il popolo triestino e che non dovrebbe essere persa, e un’ideologia politica, che con il cambio di bandiera (appunto politica), che concretamente si verifica normalmente in ogni luogo, potrebbe fare, sulla spinta dell’esercizio di un potere, dello smontaggio della macchina di integrazione della persona con disagio mentale (i Dipartimenti di Salute Mentale del Friuli Venezia Giulia), un proprio terreno di battaglia.

Una volta Allen Frances, psichiatra americano che ha coordinato le Task Force per il DSMIV (il manuale diagnostico statistico americano diffuso in tutto il mondo e spesso scambiato come un manuale di psichiatria, e successivamente uno dei principali critici, da dentro direi, del DSM5), ha affermato, parafraso, che se si fosse ammalato nella psiche avrebbe voluto essere curato a Trieste.

Se i discorsi di psichiatria e basaglianismi finiranno per schiacciare la realtà delle pratiche di Salute Mentale di Trieste (che non possono essere ridotte a pura psichiatria, ma fanno della psichiatria avanzata, e non possono essere ridotte a semplice ideologia perché fanno concreta Salute Mentale) auguro ad Allen Frances e ai cittadini triestini di non ammalarsi nella mente perché in futuro a Trieste rischiano di non trovare più delle pratiche avanzate, e in continua evoluzione, di cui in tanti siamo stati testimoni, ma una semplice psichiatria di cui è pieno, purtroppo, il mondo: una psichiatria che si occupa della malattia, ma che difficilmente produce salute, e che si racconta di curare ma che fa difficoltà a integrare il debole nella città e che rischia, con il suo discorso e con le sue pratiche, di tornare a escludere.