Intervento di Madia Marangi

Nel marzo del 2008, a poche settimane dalle elezioni politiche che portarono poi alla nomina dell’attuale governo, a Taranto un medico-chirurgo uccise la moglie e le due figlie.

Quell’episodio rimarrà impresso per sempre nella mia mente perché le tre vittime sono sepolte a pochi metri da mio padre, morto pochi mesi prima, e perché l’omicida soffriva, come me, di depressione.

I giornali, come spesso succede, nei titoli utilizzati per dare la notizia, spesso sottolinearono, in modo eclatante, il fatto che l’omicida soffrisse di depressione.

La lettera qui riportata è “figlia” del senso di frustrazione nato in me dopo aver visto un servizio sulla strage mandato in onda al TG2 delle 13.00

“Caro Direttore, ho appena rivisto sul vostro sito il servizio mandato in onda ieri sulla strage di Taranto e, così come è successo ieri, ho provato una strana sensazione, un misto di indignazione e frustrazione.

Dal 1992 soffro di una forma di depressione bipolare (sindrome maniaco depressiva) e nel 1994, dopo due anni in cui per ignoranza e disinformazione non ho potuto essere curata nel modo giusto, ho cominciato un percorso di ripresa e di “riabilitazione sociale” all’interno del Centro di Salute Mentale (CSM) di Martina Franca (TA).

Dal momento in cui mi è stata fatta una diagnosi precisa su quello che è il mio disturbo, ho cominciato a seguire una cura farmacologica e ad utilizzare tutti gli “strumenti” che mi sono stati messi a disposizione dal CSM della mia città per riprendere in mano le redini della mia vita.

Al momento della mia presa in carico, avevo interrotto gli studi (mi mancava un esame per conseguire il diploma di pianoforte): dopo 3 anni mi sono diplomata, dopo qualche mese dal conseguimento del diploma ho cominciato a lavorare in un’azienda che si occupava della trascrizione di libri per non vedenti, nel 2001, sfruttando il mio diploma di ragioniera, sono stata assunta come segretaria in un’azienda di telemarketing e dal febbraio del 2006, dopo aver deciso di chiedere l’invalidità (60%) e l’iscrizione nelle liste speciali con la legge 68, sono stata assunta in una nota azienda di confezioni di Martina Franca.

Le ho indicato brevemente le tappe più evidenti della mia “ripresa sociale”: tutto il tormento, la fatica, le paure che mi hanno accompagnato in questi anni di duro lavoro su me stessa per potermi sentire finalmente in diritto di vivere una vita dignitosa, quelli sono molto più difficili da riassumere.

Dal 1997 faccio parte di un’associazione di utenti (ASS. Onlus Il Gabbiano), nata all’interno del CSM di Martina Franca, che si occupa della diffusione dei gruppi di auto-muto-aiuto in ambito psichiatrico e spesso, quando sono stata invitata a parlare della mia esperienza, ho affermato di essere una persona fortunata.

Fortunata perché nel 1992, quando mi sono ammalata, i manicomi erano già chiusi (sicuramente per come stavo, mi ci avrebbero rinchiusa); fortunata per essere nata in una città dove gli operatori del CSM hanno combattuto e continuano a combattere per mettere a disposizione degli utenti tutti quegli strumenti che la legge 180 prevede e che, troppo spesso, le scelte politiche dei nostri amministratori non permettono di attuare; fortunata per aver incontrato sulla mia strada “persone” capaci di mettersi in discussione e non “operatori” chiusi nel loro ruolo di meri dispensatori di farmaci.

Per quella che è la mia esperienza diretta i servizi territoriali sono una risorsa indispensabile per la cura e la riabilitazione delle persone che hanno disturbi psichici ma, tornando a quella “strana sensazione” di cui le parlavo all’inizio, la disinformazione e la conseguente scarsa conoscenza di quelli che possono essere i percorsi di ripresa creano, attorno a queste strutture e nei confronti di queste malattie, un clima di paura e di forte pregiudizio.

L’affermazione fatta da un medico nel servizio che avete mandato in onda all’indomani della strage di Taranto, sull’imprevedibilità di un gesto estremo che può essere compiuto da una persona depressa mi ha fatto molto riflettere su quelle che potevano essere le reazioni di chi ascoltava e, le giuro, le conclusioni che ne ho tratto mi hanno molto allarmata.

Cosa ha potuto insinuare nella mente di chi non ha mai avuto in famiglia casi di depressione?

In chi invece è un parente prossimo di una persona malata? o, ancor peggio in un giovane intorno ai vent’anni (età di esordio nella maggior parte dei casi di depressione maggiore) che avverte i primi segni del disagio?

Ho provato ad immaginare le possibili reazioni basandomi su quelle che sono state le esperienze dirette fatte in questi quattordici anni, ormai, di malattia.

Il cosiddetto “uomo comune” avrà magari concluso che è stato un errore chiudere i manicomi, interpretando quella “imprevedibilità” di cui sopra come pericolosità sociale e vedendo nell’isolamento l’unica difesa contro un’ipotetica minaccia alla propria incolumità.

In quei familiari che non hanno la fortuna di essere supportati da un CSM che funzioni con centro diurno annesso e laboratori di riabilitazione, gruppi di auto mutuo aiuto per familiari e utenti, visite domiciliari, gruppi appartamento e case alloggio (strutture previste dalla legge 180 e nella maggior parte dei casi mai attuati), sarà cresciuta la diffidenza e la paura nei confronti del proprio caro, alimentando quel clima di tensione che cresce all’interno di un nucleo familiare quando la mancanza di mediazione tra malato e famiglia porta ad una totale assenza di comunicazione e solo in alcuni casi (statisticamente non sono poi così frequenti) a tragedie come quella di Taranto.

Sicuramente mi è stato più semplice immedesimarmi in un giovane ventenne che avverte i primi sintomi del disagio, è un’esperienza che ho vissuto direttamente e che, le assicuro, difficilmente si dimentica.

Il meccanismo che scatta è molto spesso quello della negazione del proprio stato: no, io non sono malato, mi fa’ orrore pensare che io potrei perdere il controllo e arrivare ad uccidermi o ad uccidere, per cui… non è vero che sto male e quindi non ho bisogno di nessun aiuto.

Comincia così il calvario di molti ragazzi che arrivano ad essere presi in carico dopo anni dall’esordio del proprio disturbo e che, in molti casi, a causa di questo “vuoto” nella cura perdono per sempre la possibilità di riprendersi.

Qualche anno fa’ in un convegno sul rapporto tra stigma e mass media, un suo collega della carta stampata, di fronte all’osservazione che i mezzi d’informazione tendono a dare risalto solo ai casi come quelli di Taranto alimentando così il pregiudizio, ci rispose accusandoci di non fare notizia.

Caro direttore, noi, e con noi intendo tutti quelli che hanno preso coscienza del proprio stato e lottano soprattutto con se stessi per migliorare la propria qualità della vita convivendo con la depressione, sicuramente non facciamo notizia ma, le assicuro cominciamo ad essere coscienti di essere persone come tutte le altre che lavorano, amano e sanno scegliere, consapevoli di quelli che sono i nostri diritti.

Ho deciso di scriverle perché io, agli occhi di molti una “macchia umana”, ho avuto la fortuna di vivere il mio disagio in una di quelle poche “macchie di leopardo” presenti in Italia, in cui la legge 180 è stata applicata e le chiedo, a titolo personale, non come componente dell’Associazione di cui sono presidente, di accogliere la sfida di raccontare, possibilmente in questo periodo di campagna elettorale e in prima serata, le storie di chi non fa’ notizia, ma che, dal 1978, a riacquisito la dignità di persona.

Sarebbe interessante conoscere le posizioni dei vari partiti sull’assistenza psichiatrica perché anche noi, sa, siamo cittadini e potremmo decidere di votare anche in base a quello che i politici programmano in questo settore.

(……)

Ho sempre pensato che la testimonianza sia lo strumento più efficace per cambiare la cultura sul disagio mentale, la testimonianza diretta di chi vive giorno per giorno le difficoltà legate all’accettazione del proprio disagio, dell’utilizzazione dei farmaci (in minima parte antidepressivi sui quali in questo periodo c’è tanta discussione) a vita e del confronto continuo con chi ci guarda troppo spesso con diffidenza.

Il giorno in cui è stato mandato in onda il servizio in questione nel TG delle 13,00, subito dopo sono tornata come tutti i giorni a lavoro e ho incrociato lo sguardo di una mia collega a cui da tempo ho confidato di essere depressa.

Mi è sembrato di avvertire nei suoi occhi una preoccupazione che non avevo mai visto, mi sono chiesta se anche lei aveva visto il Vostro servizio e se magari anche lei cominciasse ad avere timore della mia imprevedibilità…. Non ho avuto il coraggio di chiederglielo.”

Vorrei chiudere questo mio intervento con due riflessioni:

1. la prima è scaturita dalla visione nei mesi scorsi di Ausmerzen, lo spettacolo di Marco Paolini, sullo sterminio dei malati di mente nella Germania nazista.

2. La seconda dal fatto che la mia generazione, quella dei quarantenni, è cresciuta avendo davanti le immagini in bianco e nero del famoso discorso di Martin Luther King che cominciava con la frase: “I have e dream”.

Ascoltando il racconto di Marco Paolini, quando sottolinea il ruolo che ha avuto la propaganda (manifesti, giornali etc, etc) fatta poco prima, e durante il regime nazista, su quanto gli invalidi pesavano sul bilancio dello stato tedesco in piena crisi economica, mi sono tornate in mente le parole dello stesso Tremonti, quando fu approvata la finanziaria dello scorso anno e i titoli dei giornali e dei telegiornali che spesso fanno riferimento a casi di cronaca in cui si parla di truffatori (questo dovrebbe essere il termine giuridicamente corretto), definendoli falsi-invalidi.

Mi chiedo se siamo capaci di imparare dal passato e di capire quanto sia importante utilizzare un linguaggio appropriato per evitare che un certo tipo di informazione si trasformi in disinformazione.

Per fare un esempio: è capitato che qualcuno, sapendo che sono stata assunta come invalida, abbia dato per scontato che io prenda la pensione di invalidità e che lo stato mi copra tutte le spese mediche. Niente di più falso, sono in pochi a sapere che con un’invalidità al 60% non si ha diritto a nessuna pensione e che in molti casi i farmaci utilizzati per la cura della depressione bipolare non sono mutuabili, perché si tratta di farmaci non ancora sperimentati per questa patologia che alcune regioni non coprono. Niente ricerca, niente cure.

Vorrei concludere con la riflessione sul discorso di Martin Luther King, dicendo che la mia generazione è nata con quel “I have e drem” e ha visto concretizzarsi quel sogno con il “Yes, we can” di Obama.

Anch’io ho un sogno ed è quello che se un giorno mai dovessi commettere qualche delitto io possa essere giudicata, come chiunque altro, sulla base del crimine commesso e che la mia malattia non venga più considerata un’attenuante.

Attenuante che oggi ci fa’ vedere agli occhi della gente, sullo stesso piano di quei camorristi, o mafiosi, che, grazie a avvocati scaltri, utilizzano l’infermità mentale per ridurre, o evitare, la pena (anche in questo i mezzi di informazione non aiuntano) e che nella realtà , invece, porta la maggioranza di noi nell’inferno degli OPG, inferno che è oggi sotto gli occhi di tutti grazie all’inchiesta della commissione parlamentare presieduta dal senatore Ignazio Marino.

Non so’ se il mio sogno in futuro si avvererà, sarebbe tanto se agli occhi degli altri il mio fosse, per tutti, un sogno e non la visione di un folle.

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