conoscere-e-sperimentare-per-evolveredi Mario Colucci [1]

Ho ripensato spesso al coraggio di Franco Basaglia. Ho ripensato a quel 1961, quando lasciò la tranquilla vita universitaria di Padova e arrivò a Gorizia. Ho immaginato lo shock non appena arrivato in manicomio, il trauma di fronte ai quei 600 malati che si aggiravano come spettri nei cameroni ospedalieri. Franca Basaglia mi raccontò che il primo impulso di Franco fu quello di mollare tutto, andare via, rinunciare. Dobbiamo immaginarcelo questo Basaglia che torna indietro pieno di dubbi. Ma poi ci ripensa, si ricorda di essere stato nominato direttore di quel manicomio e che, nel bene o nel male, la partita deve essere ancora tutta giocata. Lui ha le sue carte in mano, ha il suo potere di direttore.

Dunque il coraggio di Basaglia è il coraggio di restare e anche il coraggio di cambiare. Ma cambiare come? Come fare per cambiare? Che cosa ha in mano Basaglia? Quali sono i suoi strumenti? Non si può certo dire che all’epoca egli abbia una sufficiente esperienza politica, né che abbia già maturato una leadership sul campo. Però Basaglia ha dalla sua una grande esperienza clinica, benché formata su situazioni di malattia che erano più tipiche di una clinica universitaria che di una grande istituzione totale. Basaglia ha poi una solida cultura fenomenologica, figlia di quella passione per la filosofia che era stata forse la causa dei sospetti del suo professore universitario e della fine della sua carriera accademica.

La fenomenologia è una sorta di allenamento che quando viene esercitato con costanza dà la possibilità di resistere a quell’effetto negativo prodotto dalla lunga esposizione alla psichiatria manicomiale. Questo effetto è noto: dopo qualche anno di osservazione di malati considerati senza speranza di guarigione nel cuore dello psichiatra manicomiale scende il gelo. Il malato scompare, al suo posto resta una malattia, lucida e impenetrabile come una sfera d’acciaio, con le sue leggi, il suo decorso, il suo inevitabile destino. L’esposizione prolungata alla psichiatria manicomiale rende freddi, nei casi peggiori cinici. Ebbene la fenomenologia è come una corsa continua, che allena e mantiene riscaldati: ti chiede di non arrivare alla conclusione diagnostica e al verdetto prognostico, ti chiede di aspettare. Ti chiede di sospendere quello che stai vedendo con i tuoi occhi di scienziato e di provare a immaginare tutto quello che c’è dietro la malattia: la vita di quella persona che hai davanti, il momento in cui ha iniziato a stare male, a dubitare della propria ragione o in cui i suoi parenti hanno incominciato a trattarla diversamente, le spiegazioni che non servono più a nulla e poi le urla, le riappacificazioni, gli inganni, la fuga, la cattura, il ritrovarsi improvvisamente all’interno di quattro mura sporche fra gente che delira, senza più i propri abiti, i propri oggetti personali.

Ricordate le parole di Primo Levi in Se questo è un uomo quando descrive la vita del lager? «Si immagini ora un uomo, a cui, insieme con le persone amate, vengano tolti la sua casa, le sue abitudini, i suoi abiti, tutto infine, letteralmente tutto quanto possiede: sarà un uomo vuoto, ridotto a sofferenza e bisogno, dimentico di dignità e discernimento, poiché accade finalmente a chi ha perso tutto, di perdere se stesso».[2] Basaglia sarà stato ossessionato da queste parole di Primo Levi quando immaginava il momento in cui una persona entrava nel manicomio di Gorizia. E al tempo stesso la fenomenologia gli dava quella carica necessaria per non perdersi nel pessimismo terapeutico dei suoi colleghi che lo avevano preceduto, tetri custodi di anime morte nei cameroni dell’ospedale. Se si poteva mettere tra parentesi la malattia, con tutti i pregiudizi di incomprensibilità, di inguaribilità, di pericolosità che l’avvolgevano, era perché quei cameroni potevano essere illuminati, aperti, areati, liberati. Si poteva mettere tra parentesi non solo la malattia e la psichiatria organicista, ma quello stesso grigio contenitore di 600 vite dimenticate che giaceva sul confine con la Jugoslavia.

Basaglia comincia a fantasticare: per andare oltre quel colore grigio bisogna sdoppiare lo sguardo. Da un lato dedicarsi nel modo più sollecito possibile ai bisogni dimenticati di quelle persone, restituire loro un’attenzione che non avevano mai avuto, ripartire da zero con un progetto di cura della loro vita prima ancora che della loro malattia. Dall’altro lato aprire lo sguardo a quello che sta succedendo fuori: Basaglia vuol fare di Gorizia e di quel manicomio di provincia una realtà aperta alla sperimentazione più avanzata, contrastare il peggio che sta osservando con il meglio che la scienza gli offre in quel momento. Ad esempio, la Comunità terapeutica, vista all’opera in Gran Bretagna da Maxwell Jones, può rappresentare un buon modello per scardinare le porte del manicomio e i ritmi pietrificati della sua vita quotidiana. Quel circolo di sedie sulle quali tutti si possono sedere per parlare è una novità assoluta per un ospedale dove tra medico e malato non ci si ferma neanche per salutarsi.

Ecco il primo gesto scoperto a Gorizia: ritrovare la voce delle persone, al di là delle voci che li perseguitano da anni. Parlare, far parlare: in quel luogo dove il direttore parlava solo con i suoi assistenti e gli assistenti solo con il caposala e il caposala solo con gli infermieri. E gli infermieri con nessuno, se non fra loro, mai con i malati, se non per impartire ordini, perché lo vietava il regolamento. Non bisognava ascoltare la parola degli internati, le loro confidenze, le loro storie tutte diverse e alla fine tutte uguali, futuri perduti e occasioni mancate. Non bisognava lasciarsi coinvolgere perché la disperazione di quelle vite lasciava graffi indelebili, da cui ci si difendeva con sguardi derisori e ciniche disattenzioni. O peggio con infantili sollecitudini. In quel preciso momento la voce degli uomini e delle donne che affollavano i padiglioni cessava di esistere.

Era giunto il momento di lasciarle parlare, quelle voci dimenticate. Basaglia comprende che se c’è ancora una risorsa terapeutica nel manicomio bisogna ritrovarla nella voce di chi protesta, di chi non si adatta, in quella parola che sfugge al discorso dell’istituzione, che si insinua tra le pieghe della gerarchia ospedaliera da un lato e della diagnosi psichiatrica dall’altro, e che ripropone intatta la fatica di vivere all’interno di un manicomio. Il gesto di Basaglia è semplice, diretto, è come se dicesse: “Ascolta ciò che ti stanno chiedendo queste persone, in questa istituzione desolata e senza futuro. Ascoltale senza sentirti in dovere di difenderla, questa istituzione, come il tuo ruolo professionale t’imporrebbe di fare. Ricorda i morsi di disgusto che hai provato all’arrivo, ricordati che volevi andare via…” Ecco un punto in comune, il bisogno di fuggire! Non ha importanza essere medici, infermieri o malati per condividere il gusto della libertà. 

Tuttavia, il 1961 è anche l’anno in cui si produce misteriosamente uno strano effetto: diversi “incendi” si propagano nella psichiatria, come se nuove sostanze infiammabili si diffondessero per il mondo, fino a mescolarsi e a creare una miscela ad alto potenziale esplosivo. In Francia, uno studioso di storia e filosofia, quasi sconosciuto, uscito da qualche anno dall’École Normale Supérieure, ha preso l’abitudine di aggirarsi fra biblioteche e archivi di ospedali di mezza Europa, per completare un’insolita tesi di dottorato sulla storia della follia. La prosa fiammeggiante di Michel Foucault accende la psichiatria: parole di fuoco che restituiscono i bagliori sinistri della nascita del manicomio nell’Europa del xvii° secolo, con quella scoperta inquietante che i luoghi infernali dell’internamento sono nati ben prima della psichiatria. Essi sono destinati a ricordarle incessantemente il suo statuto d’eccezione rispetto alla scienza medica. In Storia della follia[3] Foucault non smette di ripeterlo: non è la psichiatria che ha creato i manicomi, ma è all’interno dei manicomi che è nata la psichiatria con i suoi poteri e le sue procedure di asservimento degli internati. Per Basaglia, la lettura di quelle parole incendiarie sarà la conferma della legittimità dell’azione messa in campo a Gorizia e della necessità di andare anche oltre, fino a distruggere l’ospedale psichiatrico, che non potrà mai essere un luogo di cura ma soltanto uno spazio di esclusione sociale.

Un altro incendio incomincia a propagarsi oltreoceano: un sociologo canadese, Erving Goffman, ha trascorso un anno nell’ospedale psichiatrico St. Elizabeth a Washington. Il risultato di questa esperienza è la pubblicazione nel 1961 di un libro Asylums, che fu tradotto qualche anno dopo da Franca Basaglia, con una prefazione sua e di Franco. Goffman racconta così la sua esperienza: «Lo scopo immediato del mio lavoro era tentare di apprendere qualcosa sul mondo sociale dell’internato e su come egli viva soggettivamente la propria situazione. Iniziai con il ruolo di assistente al corso di ginnastica, precisando, quando mi veniva richiesto, di essere uno studioso della vita di comunità; passavo il giorno con i pazienti, evitando di intrattenere rapporti socievoli con lo staff e di disporre di chiavi. Non dormivo nei reparti e la direzione dell’ospedale conosceva lo scopo della mia presenza».[4] Immaginiamoci Goffman, vestito come un professore di educazione fisica, che gira per l’ospedale senza dare troppa confidenza a medici e infermieri e senza possedere chiavi: in qualche modo la sua preoccupazione non è solo quella di essere libero di osservare, ma anche di non apparire complice del personale sanitario. Il suo scopo è quello di partecipare alla vita di gruppo degli internati e giudicare dal loro punto di vista chi non vi appartiene, cioè i medici, gli infermieri, i sorveglianti e i familiari. Uno sguardo asimmetrico nel tentativo di compensare lo sbilanciamento dal lato opposto di tutta la letteratura professionale scritta in proposito dagli psichiatri. Scrive Goffman: «Diversamente da quanto succede in alcuni pazienti, io arrivai in ospedale animato da ben scarso rispetto per la psichiatria in quanto scienza, e per le altre entità ad essa collegate».[5]

Goffman è uno studioso capace di tenere insieme il metodo di ricerca con uno sguardo politicamente impegnato. Egli vuole indagare la natura del pregiudizio che avvolge la malattia mentale e al tempo stesso la funzione di esclusione sociale dell’istituzione che è deputata a curarla. Ne viene fuori tutta la distanza che esiste fra l’ideologia che presenta l’ospedale psichiatrico come un istituto di cura e la pratica che conosce la realtà quotidiana del manicomio come luogo di violenza che nega qualsiasi cura. Altra benzina sul fuoco dell’indignazione che monta a Gorizia, per Basaglia un segno ulteriore che la nave del manicomio incomincia a bruciare davvero, come il vascello di Hernán Cortés, ed è ormai destinata ad affondare. Non ci saranno altre navi per tornare indietro.

Un altro mare, il Mediterraneo, un’altra sponda, l’Algeria, un altro fuoco, quello appiccato da Frantz Fanon: la parabola dello psichiatra francese, originario della Martinica, illumina come una freccia incendiaria la notte di Gorizia. Sempre nel 1961, viene infatti pubblicato il suo testo fondamentale, I dannati della terra,[6] nel quale descrive la miseria del manicomio di Blida e le conseguenze disastrose di un processo di disumanizzazione e spersonalizzazione, provocato non solo dall’alienazione della malattia e dall’internamento, ma soprattutto dalla discriminazione sociale, politica e razziale dei degenti (neri o arabi che fossero, comunque colonizzati).

Basaglia vi riconosce l’esperienza radicale di una scelta etica, di una presa di posizione a fianco degli oppressi, a costo anche della perdita del proprio ruolo professionale. A Fanon, infatti, testimone di questa spaventosa condizione dell’internato, non resta che il gesto estremo delle dimissioni, attraverso una celebre lettera inviata al ministro residente. Ma il bagliore del fuoco algerino continuerà a illuminare non soltanto la violenza del regime coloniale francese, ma di tutte quelle situazioni in cui il terapeutico diventa lo strumento che tacita la voce di chi potrebbe contestare e soffoca ogni rivendicazione sui temi della povertà e dello sfruttamento.

Se ne ricorderanno i goriziani undici anni dopo, quando tutta l’équipe medica si dimette, con una decisione e con una lettera che assomigliano al gesto di Fanon. Scrive Domenico Casagrande in un comunicato alla stampa nel 1972: «Oggi non si può accettare di continuare a mantenere la maggior parte dei degenti segregati in un’istituzione che, per il fatto stesso di non consentire aperture e sbocchi, li farebbe velocemente retrocedere al grado di istituzionalizzazione e di distruzione personale in cui li avevamo trovati. […] In questa situazione la nostra presenza nell’Ospedale Psichiatrico goriziano, oltre ad essere inutile, ci sembra dannosa per quei degenti – ed è la maggioranza – per i quali noi continuiamo a rappresentare, in qualità di psichiatri, la giustificazione al loro internamento. Se si tratta di persone per le quali non è stato possibile trovare una soluzione esterna, perché sole, perché povere, perché rifiutate, non per questo noi possiamo continuare a mantenerle rinchiuse nell’etichetta di ammalato mentale, con le conseguenze ed i significati che tale etichetta comporta».[7]

Ormai l’incendio che divampa a Gorizia è fuori controllo: è chiaro che non si può più andare avanti nella gestione di un manicomio, di cui l’équipe basagliana ha dimostrato l’inutilità e la violenza, né si può immaginare che una diversa organizzazione dell’ospedale, per quanto umana e illuminata, possa servire a modificare la condizione di esclusione degli internati. Infatti, viene loro negata una vita all’esterno perché l’amministrazione provinciale non autorizza l’apertura di centri esterni, bloccando di fatto la nascita di un’assistenza territoriale alternativa al manicomio. Per questo, alla fine, non sarà Gorizia a realizzare per prima il progetto di chiusura del manicomio, e neanche Parma, ma Trieste con la straordinaria esperienza iniziata nel 1971 dallo stesso Basaglia e dal suo gruppo nell’ospedale psichiatrico di San Giovanni.

 

Che cos’è allora l’effetto ’61? In quell’anno ancora nulla si è realizzato, eppure qualcosa di fondamentale già prende forma: intorno a Basaglia, Foucault, Goffman, Fanon e tanti altri, inizia ad aggregarsi un pensiero critico in seno alla psichiatria. Era già avvenuto in altre stagioni, quella della fenomenologia, quella della psicoanalisi. Ma stavolta è diverso: innanzitutto i protagonisti – che all’inizio non sono in contatto fra loro, non si conoscono, alcuni non si conosceranno mai – colgono acutamente l’esigenza di rompere in modo più radicale con la tradizione della psichiatria.

Ne è un esempio la “messa tra parentesi della malattia”, che non è un rifiuto della diagnosi, ma, come dice Basaglia, «una faticosa astuzia che presuppone un profondo sapere della malattia e una consapevolezza altrettanto profonda delle sue costruzioni cliniche e istituzionali»;[8] è il rifiuto dell’etichettamento che impedisce di «prendere coscienza di ciò che è questo individuo per me, qual è la realtà sociale in cui vive, qual è il suo rapporto con questa realtà».[9]  Basaglia non esclude mai la dimensione clinica del disturbo psichico, semmai si interroga sulla sua organizzazione in dottrine e in istituzioni, quella che lui definisce “razionalizzazione della sofferenza”.[10] In questo Basaglia vede all’opera un’ideologia medica, potente e pervasiva, che ha il preciso compito di nascondere questa sofferenza dietro la maschera della malattia per poterla gestire attraverso la macchina del manicomio.

A partire da Gorizia, Basaglia incomincia a riconoscere i meccanismi dell’istituzione, quei processi di razionalizzazione e organizzazione dei bisogni che ingabbiano il soggetto sofferente e che lo privano «della possibilità di possedere se stesso (la propria realtà, il proprio corpo, la propria malattia)».[11] Non si tratta affatto di negare la malattia, ma di evitare che la sua etichetta riduca l’uomo alla sola immagine che la scienza e l’istituzione producono su di lui. Scrive Basaglia: «Non voglio con questo dire che la malattia non esiste, ma che noi produciamo una sintomatologia – il modo di esprimersi della malattia – a seconda del modo col quale pensiamo di gestirla, perché la malattia si costruisce e si esprime sempre a immagine delle misure che si adottano per affrontarla. Il medico diventa gestore dei sintomi e crea un’ideologia su cui poi il manicomio si edifica e si sostiene. Solo così egli può dominare e reprimere le contraddizioni che la malattia esprime».[12] In altri termini, lo psichiatra non ha affatto il ruolo passivo di colui che osserva i sintomi, ma la sua azione è fortemente coinvolta nell’elaborazione di un’ideologia della malattia – malattia come deficit, malattia come pericolo – che fabbrica il manicomio e le sue procedure di esclusione e dunque organizza fatalmente il destino del malato.  

Basaglia, e successivamente Foucault,[13]  comprendono che bisogna provare a emancipare l’esperienza della follia dalla sola spiegazione di ordine medico che viene attribuita ai comportamenti, alle sofferenze, ma anche ai sentimenti e ai pensieri delle persone che la attraversano. In altri termini, bisogna affrancarsi dal sapere tradizionale della psichiatria, bisogna smontare i suoi metodi di produzione di una verità scientifica positiva. Questo tipo di verità, presentata come assoluta, può avere un impatto tremendo sulla vita e sul destino delle persone. Non c’è dubbio che le ricerche della scienza siano formidabili e che possano aiutarci a capire il mondo e a viverlo meglio, ma qui stiamo parlando di altro, dell’implacabilità delle sue tecniche, di una quotidiana applicazione che funziona per protocolli e procedure sulla pelle dei soggetti, che non si cura delle loro differenze e che, in buona parte, si fonda su semplificazioni e su una sorta di esaltazione dei fatti di natura, presentati come originari e incontrovertibili.

Che cosa fa un esercizio critico se non sottrarsi a questa “evidenza che ha sempre ragione”? Che cos’è un esercizio critico se non la possibilità di mettere in questione la realtà degli oggetti studiati per interrogarsi sulle pratiche sociali all’interno delle quali questi oggetti circolano. In altri termini, non si tratta solo di capire sempre meglio come sono fatti questi oggetti – ad esempio l’oggetto malattia mentale – ma come vengono presentati, usati e diffusi sulla scena del mondo. Basti pensare al tema attuale e controverso della diagnosi.

Attenzione: il sapere critico che esplode nel 61 è figlio della sospensione, dell’epoché, della messa tra parentesi, ma non è un rifiuto del sapere, né tantomeno un assolutismo del fare. Bisogna distinguere il primato della pratica dall’assolutismo del fare: considerare prioritaria la dimensione pratica non significa renderla assoluta; in altri termini non ci si può rifiutare di costruire un modello teorico, pena la ricaduta in pratiche di spontaneismo assistenziale, fondate soltanto sull’intuizione e sul buon senso. Piuttosto si tratta di non rendere questo modello perenne e di misurarlo di continuo con la realtà.

Un sapere critico ha la caratteristica di essere un esercizio che disfa la teoria e la ricostruisce nel momento in cui si confronta con una pratica alternativa. È un esercizio di “de-completamento” del sapere, di sottrazione al sapere di un pezzo, perché il sapere non sia tutto pieno, perché sia sempre in perdita. Il sapere critico è un saperci fare con la perdita del sapere, è la capacità di trovare fuori del sapere qualcosa che possa permettergli di vivere ancora, senza sciogliersi nello scetticismo e, all’opposto, senza irrigidirsi in una verità assoluta che sia il discorso della scienza d’organo o che sia il pensiero unico dell’istituzione totale.

Ora, se è vero che a Gorizia e poi a Trieste la prima sospensione riguarda il sapere psichiatrico tradizionale, tuttavia non ci si può fermare qui. Bisogna svelare questa gestione della sofferenza mentale che schiaccia il malato in un ruolo passivo ed esalta al contrario il ruolo “padronale” del medico sul malato: posizione di forza fino allora giustificata con l’esigenza di ricercare una verità sulla malattia scientificamente accreditata. Come dice Agostino Pirella si tratta di rovesciare «il ruolo privilegiato del decifratore del senso» e di rinunciare a «portare alle ultime conseguenze la comprensione della follia».[14] In altri termini, quando si accoppia uno sforzo teorico con un impegno pratico, il secondo può diventare così urgente da mettere in sospensione il primo.

La scoperta dolorosa che fa Basaglia e il suo gruppo è che un approfondimento culturale non basta a trasformare il panorama della psichiatria devastato dalla presenza dei manicomi, perché qualsiasi esercizio conoscitivo è stravolto dalla quotidianità della violenza istituzionale. In questa prospettiva, la ricerca di un senso ultimo della follia può diventare un lusso che suona gravemente offensivo per la dignità degli internati e che mette a rischio la loro stessa sopravvivenza. Occorre, invece, interrogarsi sul ruolo dello psichiatra, sul ruolo di colui che sa, che aguzza lo sguardo, che acquisisce una verità “sulla pelle del malato”, senza fare tutto quello che è in suo potere per tirarlo fuori da una condizione di degrado e di esclusione sociale.  Per questo, serve uno strappo che laceri il sapere, un gesto che sospenda la ricerca delle verità assolute di fronte all’urgenza della storia degli uomini. 

Infine, la domanda è questa: ma si può davvero subordinare la passione conoscitiva a un impegno etico? Basaglia non ha una soluzione, ma di una cosa è certo: non si potrà dare altro sapere alla psichiatria se non attraverso un gesto forte di alleanza con la persona sofferente e con il suo sapere minore, fino ad allora squalificato perché ritenuto ingenuo, provvisorio, periferico, non sufficientemente elaborato e che tuttavia nella sua particolarità può resistere al discorso generale della psichiatria. Il sapere degli internati, che vede la luce a Gorizia e che si replicherà in tutte le esperienze successive di deistituzionalizzazione, è ciò che stacca un pezzo al sapere degli psichiatri, ciò che lo de-completa, ciò che lo rende instabile e gli toglie padronanza, ciò che lo mette in perdita e al tempo stesso lo costringe a confrontarsi con la pratica del fare diversamente.

L’effetto ’61, il fuoco che divampò a Gorizia, ma sotterraneamente anche a Parigi, a Washington, ad Algeri, e in tutti quei luoghi in cui le persone presero la parola all’interno di un’istituzione psichiatrica, forse non sarà l’inizio di una nuova scienza, ma certo sarà il momento in cui cominciò ad accendersi un’altra storia. E tante altre storie di vita.

 


[1] Intervento presentato in occasione del convegno “Cominciò nel ’61. Quando Franco Basaglia arrivò a Gorizia”, tenutosi a Gorizia il 17 e 18 novembre 2011.

[2] P. Levi, Se questo è un uomo, Einaudi, Torino 1958, p. 23.

[3] M. Foucault, Storia della follia nell’età classica (1961), Rizzoli, Milano.

[4] E. Goffman, Asylums, Einaudi, Torino 1961, p. 25.

[5] Ivi, p. 26.

[6] F. Fanon, I dannati della terra (1961), Einaudi, Torino.

[7] F. Basaglia, F. Basaglia Ongaro, “Crimini di pace”, cit., p. 29.

[8] F. Basaglia. G. Gallio, La vocazione terapeutica. Per un’analisi critica della “via italiana” alla riforma psichiatrica (1950-1978), in A. Debernardi, R. Mezzina, B. Norcio (a cura di), Salute mentale. Pragmatica e complessità, 2 voll., Centro Studi e Ricerche Regionale per la Salute Mentale, Regione Friuli Venezia Giulia, Trieste 1992, vol. II, p. 561.

[9] F. Basaglia (a cura di), L’istituzione negata. Rapporto da un ospedale psichiatrico, Einaudi, Torino 1968, p. 32.

[10] Cfr. E. Venturini (a c. di), Il giardino dei gelsi. Dieci anni di antipsichiatria italiana, Einaudi, Torino 1979, p. 240.

[11] F. Basaglia, F. Basaglia Ongaro, La malattia e il suo doppio, in La maggioranza deviante, Einaudi, Torino 1971, p. 135. Questo scritto si trova con lo stesso titolo anche in Scritti, cit., vol. II, pp. 155-184.

[12] F. Basaglia, F. Ongaro Basaglia ». Ideologia e pratica in tema di salute mentale (1975), in Scritti, cit., vol. II, pp. 357-358.

[13] Cfr. M. Foucault, Il potere psichiatrico. Corso al Collège de France, 1973-74 (2003), Feltrinelli, Milano 2004, p. 296.

[14] F. Basaglia, F. Ongaro Basaglia, A. Pirella, S. Taverna, La nave che affonda, Raffaello Cortina Editore, Milano 2008, p. 18.

1 Comment

  1. E’ una limpida spiegazione del pensiero di Basaglia e anche dei dubbi, delle contraddizioni, cui l’utopia del possibile lo
    sottoponeva. Con chiarezza di impostazione generale, basaglia ririuscì a condurre la sua battaglia contro i soprusi dell’uomo sull’uomo sofferente, dandoci unalegge tra le più avanzate del mondo. E il prof Colucci ce ne fa un resoconto
    molto dialettico e completo del percorso di Basaglia. Era un’epoca in cui l’impostazione critica di tutto quello che si le ggeva e proponeva era un merito. effetto 61, dice Colucci.
    E io sarei onorata se il prof Colucci volesse farmi un’introduzione per il mio libro Narrazioni.in cui si analizza anche l’utopia e la prassi di Basaglia. Posso chiederglielo ?
    gloriapoetry@yahoo.it Ne sarei felice e onorata…..

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