prova gabbia
(foto di Paola Di Bella)

Per riflettere sui temi dell’Assemblea nr. 2 ci piace riproporre uno scritto di Roberto Mezzina al convegno “CONTRO LA CONTENZIONE garantire sempre l’articolo 13 della Costituzione SI PUÒ E SI DEVE”, Trieste 2012

Trattenere o liberare: superare la contenzione, per una medicina dei soggetti invece di una clinica dei corpi

Roberto Mezzina, DSM Trieste, CC OMS

Vorrei partire dal mio campo disciplinare. Se ricerchiamo la vera radice del legare il malato in psichiatria, ci renderemo conto che essa non sta nella malpractice, nella palese ed a volte ostentata messa in campo di pratiche antiterapeutiche, nell’incuria del ‘primum non nocere’, nel misconoscimento dell’esistenza di un dato rilevante sul piano dell’etica – ciò che attiene ai diritti negati dei soggetti. Tutto ciò è reale e va posto come questione prioritaria nelle pratiche e nelle politiche, ma per cogliere la natura della contenzione occorre restare dentro il paradigma medico-biologico, nel suo concreto declinarsi come istituzione – dunque nelle istituzioni sanitarie e psichiatriche di oggi, in ciò che mostrano dietro le loro porte ed i loro muri.

Se il legare fosse solo marginale nel modello medico in psichiatria, non si spiegherebbero il silenzio che circonda questa pratica, la quiescenza con cui viene accettata, la rassegnazione di molti operatori e di molti pazienti e famigliari. Il tentativo di legittimarlo passa proprio attraverso la pomposa definizione di “atto medico”.

Franco Rotelli, a proposito dell’uso della contenzione per gli anziani, ha opportunamente parlato di “patologie della libertà”. Nessuna evidenza scientifica (ad esempio per quanto riguarda la riduzione delle cadute e degli incidenti) ne dimostra tuttavia l’efficacia in questo campo, come hanno mostrato le metanalisi e revisioni sistematiche degli studi clinici randomizzati (Mislej, 2007), così come più in generale gli studi (come la metanalisi di Salize and Dressing, 2005) sull’effetto della coercion in psichiatria.

In quanto “atto sanitario” la contenzione viene dunque ‘prescritta’ anche dai medici nelle case di riposo a vecchi disabilitati ed inermi, su una committenza che è orientata a ragioni di ordine e cosiddetta “sicurezza”, ma é giustificata in realtà da mediocri convenienze, come stratagemma minimalista, nella miseria di risorse e di culture.

Nell’era post-manicomiale essa, si dice, è praticata quando il personale è scarso, quando il rapporto tra chi assiste e chi è assistito non permette che si sviluppino vere relazioni; ma questo è l’alibi per non trasformare i climi, l’habitat, lo stesso mondo relazionale dell’istituzione o del servizio.

Guardando alle origini storiche della psichiatria, in Gran Bretagna, da Willis a Battie, per ottenere l’autocontrollo nei pazienti si induceva “un salutare sentimento di paura”, mentre è solo con Tuke che compare l’appello alla stima di sé (Doerner). Qui il medico non opera in qualità di esperto, ma from his office, ossia per la sua funzione, attraverso la sua autorità. In Pinel, la radice del lavoro dello psichiatra resta la paura e, nonostante le catene vengano abolite, egli, con l’infermiere Pussin, introduce le camicie di forza. L’uso del potere si esplica ancora attraverso mezzi correzionali e pedagogie violente.

Secondo Foucault, la contenzione fiorisce proprio nell’epoca stessa del no restraint, attorno al 1840, con tutta una serie di strumenti: la seggiola fissa, la seggiola mobile, le manette, i manicotti, la camicia di forza, le bare di giunco, i collari. Essi sono classificati tra gli “apparati corporali” che hanno “come funzione essenziale quella di manifestare e marcare al contempo la forza del potere”; sono strumenti “ortopedici”, per la loro funzione di correggere e addestrare il corpo, in un modo progressivo nel senso che deve arrivare a renderli inutili, perché l’effetto è appunto ormai iscritto nel corpo medesimo. (Da notare che gli stessi strumenti, paradossalmente, sono oggi strumenti di sicurezza, cui “assicurare” il corpo del vecchio piuttosto che quello del malato.)

E’ solo con Conolly, come ricorda ancora Doerner, che per la prima volta il medico diventa “buon padre di famiglia”, disposto al colloquio, mentre si rompe il tradizionale isolamento attraverso l’introduzione di social activities aperte al pubblico (come feste e concerti). I metodi di Conolly, e più in generale “il trattamento morale”, attesero tuttavia mezzo secolo prima di essere importati in Francia.

La violenza ricomparve più proterva nel manicomio del novecento, all’epoca della psichiatria organicista, forte di una sua sedicente scientificità.

Persino le psichiatrie dinamiche si sono prestate, e si prestano ancora, a giustificazione di pedagogie violente che implicano la contenzione meccanica e la mortificazione dei corpi, utili a qualche improbabile apprendimento o meglio addestramento al contenimento di sé, o “del Sé”. C’è sempre qualcuno pronto ad introiettare tale violenza ed a testimoniare a suo favore, validandola attraverso il proprio dramma, la propria esperienza esemplare.

Si procede da allora, nelle istituzioni psichiatriche dove la psichiatria si finge techne, scienza applicata, per riduzioni e sottrazioni. E’ possibile enumerare un inventario di mille azioni (Rotelli) attraverso le quali si stabiliscono dei rapporti di dipendenza e di isolamento dallo scambio sociale, al termine di cui l’oggetto umano viene legato – il corpo docile.

Come mostra Foucault in Nascita della Clinica, è proprio di questo corpo ‘oggettificato’ che c’è bisogno, in quanto la formazione del metodo clinico è connessa con l’emergenza dello sguardo del medico nel campo dei segni e dei sintomi, posti tentativamente in relazione ad un significante che è la malattia.

La clinica psichiatrica, attraverso le definizioni di agitazione psicomotoria, crisi pantoclastica, crisi a cortocircuto, acting-out, trasforma in segno la ribellione. L’importante riconoscimento, in Basaglia, che l’acting-out é per l’appunto il primo atto di insubordinazione del malato contro il potere dell’istituzione, qui echeggia come un monito.

Ma ancora oggi si lega il malato, credendo di legare la sua malattia.

Nessuno certo applicherà alla clinica psichiatrica la psicologia del prigioniero, ma è di un uomo in trappola che parliamo – un uomo che corre verso il suo destino come il topo di Kafka, costruendosi la sua rassicurante fine, prevista dai sistemi di gestione e contenimento della sua sofferenza / malattia.

Va rammentato che in Italia la contenzione è proibita anche nelle carceri e solo la definizione di territorio off-limits della psichiatria la potrebbe giustificare come misura contro la pericolosità o contro i rischi connessi a comportamenti devianti.

Il ricorso all’art. 54 c.p. (Stato di Necessità) è spesso citato, ma dovrebbe comunque esaurirsi davvero nell’arco di un tempo brevissimo, non certo giustificando una contenzione che dura spesso anche 24 ore o di più.

Già la prima legge italiana del 1904 sull’assistenza psichiatrica, nel conseguente  Regolamento del 1909, a proposito dei mezzi coercitivi, all’art. 60, raccomandava: “nei manicomi debbono essere aboliti o ridotti ai casi assolutamente eccezionali i mezzi di coercizione degli infermi e non possono essere usati se non con l’autorizzazione scritta del Direttore .. che deve indicare la natura del mezzo, il tempo ..”.

In un rapporto del 2006 del Comitato Europeo per la prevenzione della tortura, delle pene e dei trattamenti inumani e degradanti nei Reparti Psichiatrici in Italia, e in particolare negli OPG, si afferma: “Il potenziale di abusi e di maltrattamenti che l’uso dei mezzi di contenzione comporta, resta fonte di particolare preoccupazione per il Comitato. Purtroppo sembra che in molti degli istituti visitati vi sia un eccessivo ricorso ai mezzi di contenzione … la creazione e il mantenimento di buone condizioni di vita per i pazienti, così come un buon clima terapeutico, presuppone l’assenza di aggressività e di violenza … Il rapporto denuncia come stigmatizzante l’uso della contenzione come punizione e/o come intervento pedagogico … [il Comitato] considera che non esistono ragioni, né la mancanza di personale né la particolare condizione del paziente, che giustifichino il ricorso alla contenzione”.

La ricerca Progres-acuti in Italia ha mostrato che il 70% circa di Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura erano nel 2002 implicati nell’uso di mezzi di contenzione meccanica.

Diverse Regioni italiane hanno negli ultimi anni emanato disposizioni e raccomandazioni per il divieto, o la massiccia riduzione, della contenzione fisica, tra cui la Toscana, l’Emilia Romagna e il Friuli Venezia Giulia. La conferenza Stato-Regioni si è espressa in tal senso nel 2010 con un documento che è stato fatto proprio dal Ministero della Salute. Altre hanno invece scelto di predisporre una sorta di uso normato della contenzione, approvando regole e procedure. Oggi la Regione Lombardia conta i dati sulle contenzioni in psichiatria. Sappiamo che nel corso del 2011 più di 2000 persone sono state legate, e molte per più di tre ore e ripetutamente, soprattutto di notte. Tutte le strutture hanno rispettato le linee guida stabilite, ma il fenomeno resta praticamente immutato, calando solo del 1-2%, pur essendo ora evidenziato e quantificato.

La pratica del legare ribadisce il dislivello di potere che tiene a distanza il malato e alla fine riconferma l’ordine del reparto – così si sono espressi gli operatori di un reparto dell’OP di Atene nel corso del lavoro di trasformazione. Se non si lega, si rischia di diventare pericolosamente uguali al paziente, di perdere potere, o almeno un certo tipo di potere basato sul controllo; si teme quasi di instaurare ed avallare una grave anarchia. Ecco che rispetto a ciò si impone di nuovo un lavoro anti-istituzionale.

Esistono a questo proposito, ed è poco noto, variabili nazionali: mentre l’uso della contenzione meccanica (il legare) è noto ai paesi latini, come misura perfino routinaria, in Scandinavia, ad esempio in Svezia, questo viene normato “a tutela dell’utente e della sicurezza del personale”. In Gran Bretagna sono tuttora in uso stanze di isolamento, ma non mezzi meccanici, i quali sono sconosciuti in quanto proibiti dalla legge. Dunque si profilano anche questioni culturali o subculturali, non solo normative, che mostrano come si tratta pur sempre e solo di modi di gestire la diversità, o meglio il suo fantasma, che può apparire a volte irriducibile ed incoercibile.

Va ribadito comunque che non si tratta di risposte inevitabili a caratteristiche invarianti o addirittura immodificabili di una malattia ubiquitaria, ritenuta omogenea nella sua fenomenica. I comportamenti si declinano infatti in relazione a contesti di interpretazione, di ricezione sociale e di trattamento, che si incarnano in soggetti istituzionali concreti e determinati, ma che si traducono a livello astratto in prassi, date per scontate, confermate dall’uso.

La necessità di contenere si fonda proprio sul concetto di restraint come confino, di spazio chiuso su cui si esprime e manifesta un dominio; tale dominio si estende agli esseri umani che vi vengono circoscritti ed affidati ad un potere-sapere che, se una volta segregava solo, oggi separa per curare, o meglio per “trattare”.

Occorre davvero questo mondo parallelo, questo iperspazio? Non vi è, va detto, alcuna necessità di confinare le persone in un luogo se non le si concepisce come corpi da custodire perché vengano controllati e forse riparati prima di essere restituiti al corpo sociale. Si tratta, insomma, di una mera operazione di controllo per semplificare apparentemente, e solo apparentemente, il compito cosiddetto terapeutico.

Le contraddizioni dei poteri finiscono per giocarsi in spazi angusti, senza nessuna possibilità di aprirsi al fuori, ad un progetto nella vita vera, ad uno spazio-tempo altro. La rottura dell’isolamento praticata per primo da Conolly è dimenticata. Io (medico, infermiere, comunque sorvegliante) ho la chiave, o le chiavi, e decido di te, senza aprire a possibilità di contrattazione. Se tu puoi uscire, se te ne puoi andare ti devo invece convincere, non basta l’uso della forza o della legge. Devo guadagnare il tuo consenso, devo scendere a patti, devo negoziare una soluzione.

Se elimino questa possibilità, all’altro irriducibile non resta allora che la rivolta, il corpo scomposto, il corpo usato per un’estrema transazione, medium ultimo da mettere in gioco, dunque da reprimere e contenere.

Le conseguenze della contenzione sulle persone sono ampiamente descritte, in termini innanzitutto di danni psicologici legati alla terribile esperienza della violenza subita (Dell’Acqua, 2012): perdita di autostima, umiliazione, paura, rancore, rabbia, seguite a volte da depressione, senso di impotenza, perdita di speranza. E’ descritto perfino un Disturbo Post-traumatico da Stress in letteratura. Inoltre con ciò spesso si induce ulteriore aggressività, ostinazione e rifiuto.

Più indirettamente, si cerca di sfruttare un effetto “deterrente” negli altri pazienti, di rozza pedagogia, volto a condizionarne i comportamenti. Tuttavia le culture della pericolosità, della distanza, dell’oggettivazione, negli operatori e nel pubblico, vengono in tal modo riaffermate.

La contenzione meccanica peraltro non vale ad evitare quella farmacologica, che ad essa viene invece il più delle volte associata. A causa di ciò negli ultimi anni, in Italia, si sono verificati nei Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura molti eventi mortali talora sottoposti spesso sottaciuti, e comunque molti pazienti vengono trasferiti in reparti di terapia intensiva e rianimazione per i danni provocati dall’immobilità, dall’abuso di farmaci, dalla malnutrizione e dalla disidratazione. E’ peraltro significativo che già molti anni fa, in ben altro contesto, un rapporto per il Senato dello Stato della California (Mildred, 2002) denunciava una casistica di eventi mortali e formulava raccomandazioni. Vi si afferma tra l’altro che “Tali misure non alleviano la sofferenza umana o i sintomi psichiatrici e producono frequentemente danni ai pazienti e allo staff, traumi emotivi e morte dei pazienti. Il tentativo di imporre trattamenti con la forza è sempre controproducente – poiché crea umiliazione, risentimento e resistenza ulteriore a trattamenti che potrebbero invece essere più utili”.

Non è oggetto di questo intervento affrontare le concrete strategie che disegnano pratiche alternative alla contenzione. Sono state descritte perfino ‘tecniche’ di de-escalation (l’omega picture sperimentata in Quebec ed importata in Francia, nell’esperienza di Lille) che indubbiamente hanno mostrato una qualche efficacia per quella che qualcuno definisce ‘de-contenzione’. Neppure ci soffermeremo su ciò che è possibile fare in termini di habitat sociale del luogo della crisi, inteso come ambiente fisico e mondo relazionale, come architettura di interni e come clima umano e terapeutico. Molti studi, peraltro, hanno qualificato le strategie di comunicazione dei gruppi, tipiche eredità della comunità terapeutica, come efficaci nel ridurre i disturbi del comportamento nelle situazioni istituzionali più svariate (Ng, 1992). Sono state descritte modalità, tattiche (ad esempio di “holding”) che si basano su una intenzionalità determinata di relazione sempre e comunque, anche prevedendo l’abbraccio, il trattenimento della persona in crisi. Ma più effetto ha il riconoscimento delle ragioni dell’altro, l’interessarsene davvero, un’onesta, franca, calda discussione, a volte un duro confronto. A questo proposito, fuori da ogni dubbio, le tecnologie umane risultano più difficili da riprodurre, perché richiedono la costruzione di spazi di reciprocità e di autenticità, e percorsi non scontati, di volta in volta unici, di sperimentazione di sé nel rapporto con l’altro.

L’antidoto alla psichiatria manicomiale agli albori fu il trattamento morale, con cui si definisce un’ideologia pedagogica fondata sull’introiezione del principio d’autorità, ma si intende parimenti far leva sul soggetto e sulle sue potenzialità di ripresa.

Occorre quindi uscire dall’ortopedia del corpo dominato e irreggimentato.

Ancora: la questione del legare si iscrive nella parabola più generale del no restraint, vale a dire in tutte le modalità volte a liberare la relazione di cura e a riconoscere dignità prima, e diritti poi, al soggetto, in opposizione al corpo-oggetto.

Assumiamo in pieno questa contraddizione dell’atto medico e del legare: se di ciò si tratta per alcuni, occorre lavorare dentro il tipo di medicina che vorremmo. E non solo per una diversa clinica, che si allontani dalla riparazione del corpo organico: la contraddizione sta pure tra l’ossessione del controllo, come medicina difensiva da una lato, e dall’altro l’‘assunzione positiva del rischio’ nell’atto terapeutico.

Occorre allora riconoscere che sta accadendo un cambio paradigmatico, verso una psichiatria e una medicina centrate sulla persona e non sulla malattia o sul corpo organico da riparare o da contenere; ma anche che esso è ancora incompleto, e quindi produce conflitti e conflagrazioni.

Ora occorrerà costruire speranza, come antidoto alla disperazione dell’uomo isolato e contenuto, attraverso il dialogo e la sfida della libertà, che è alla base della sfida della guarigione.

L’eliminazione della contenzione meccanica va posta quindi come un a priori, come dato che non si può più dare, come limite che non si deve valicare, nel rispetto della Costituzione e dell’articolo 13, che recita “la libertà personale è inviolabile, non è ammessa alcuna forma di detenzione, d’ispezione o perquisizione personale e qualsiasi altra restrizione della libertà personale se non per atto motivato dell’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge”. Una volta che il diritto alla libertà del proprio corpo, alla sua mobilità, che è diritto primario, come ricorda Maisto, è posta come cornice centrale dell’agire in un campo contraddittorio come quello dei trattamenti sanitari, nessuna psichiatria, nessuna medicina, nessuna assistenza, potrà giustificare ed avallare la deroga alla legge ed al diritto.

Bibliografia

Conferenza delle Regioni e delle Province Autonome, 10/081/Cr07/C7: Contenzione Fisica in Psichiatria: una strategia possibile di prevenzione, 29/7/2010.

Doerner Klaus: Il borghese e il folle, Laterza, 1980

Del Giudice Giovanna: Legare si può? Che cos’è la contenzione fisica. In: Appunti sulle Politiche Sociali. Ed Gruppo Solidaretà, 2010.

De Girolamo G, Barbato A, Bracco R, et al: Characteristics and activities of acute psychiatric in-patient facilities: national survey in Italy. British Journal of Psychiatry 191: 170–177, 2007.

Dell’Acqua Giuseppe: Di che cosa parliamo quando parliamo di contenzione. www.forumsalutementale.it, 24/5/2012.

European Commitee for the prevention of torture and inhuman or degrading treatment or punishment” (CPT): General Report on the CPT’sactivities, 16 ottobre 2006.

Foucault Michael: Nascita della Clinica, Einaudi, Torino, 1969

Foucault Michael: Il potere psichiatrico, Feltrinelli, Milano, 2004

Kafka Franz: Romanzi e Racconti, Garzanti, Milano, 2005

Maisto Francesco: “Invecchiare nella garanzia del diritto”, intervento al convegno “Le giornate della salute”, Trieste maggio 2006. In “Assistenza e diritti. Critica alla contenzione e alla cattive pratiche”. Carocci, Roma. 2007

Mezzina Roberto: Trattenere o liberare. Fenomenica della contenzione e pratiche di emancipazione. Ne: I Servizi Psichiatrici di Diagnosi e cura – l’utopia della cura in ospedale, AA.VV. p.30-36. Ed. Co.Pro.S, Caltagirone (CT), 2007.

Mezzina Roberto et al.: Crisi e sistemi sanitari. Asterios, Trieste, 2005

Mezzina Roberto: L’esperienza di Trieste del CSM h24. In: De-formatione in Mentis Valetudine, Anno 1, n.1, Siena, 2004.

Mildred, L.: Seclusion and restraint, a failure, not a treatment. Senate of California.

Mislej Maila: Nursing abilitante. Carocci, Roma, 2006

Mosher Loren R., Burti Lorenzo: Psichiatria territoriale. Principi e pratica. Milano, 1991

Ng M.L.: The community meeting: a review IJSC (1992), Vol. 38 No.3, 179-188.

WHO: Declaration and Action Plan, Helsinki, 2005

Regio Decreto n. 36, 1904. Disposizioni e Regolamenti sui manicomi e sugli alienati.

Rotelli Franco: L’inventario delle sottrazioni. In Per la normalità, Trieste, 1999

Salize H.J., Dressing H.: Coercion, Involuntary Treatment and Quality of Mental Health Care: Is There Any Link? Curr Opin Psychiatry. 2005;18(5):576-584.

Write A Comment