di Renato Ventura

La lettura sul blog di Istituzione Minguzzi e del Forum SM delle considerazioni critiche di Luca Negrogno a proposito del libro di Tommaso Losavio mi hanno stimolato alla lettura dello stesso e a ripercorrere con la memoria la mia esperienza (una sorta di recherche proustiana) che è trascorsa parallela a quella di Losavio, pur se in un contesto completamente diverso. Dalla Clinica Psichiatrica frequentata In quegli anni, quelli che descrive Losavio della iniziale deistituzionalizzazione e della creazione di servizi territoriali, sono passato alla Neurologia esercitando in un grande ospedale milanese. Ho però mantenuto un rapporto con gli interessi originari associandomi, dopo un training durato una decina di anni, alla Società Psicoanalitica Italiana. Tale percorso può sembrare tortuoso e poco comprensibile ma riflette sostanzialmente la grande difficoltà di esercitare la Psichiatria se non si aveva la fortuna di incrociare, come è stato per Losavio, l‘esperienza basagliana. 

 

Nel mio caso, dopo la specializzazione e la frequenza della Clinica Psichiatrica, ove avevo fruito di una borsa di studio (ero un “pupillo” del Prof. Cazzullo e le baronie universitarie erano ancora imperanti) venni assunto, provvisoriamente, in sostituzione di un collega, come assistente universitario. Scaduto l’incarico ebbi una brevissima (pochi mesi), esperienza manicomiale presso l’OP di Como (anni 1969-1972). 

Le condizioni che vigevano allora negli OP (inesistente rapporto con i degenti, trattamento con elettroshock, assenza di terapie efficaci, ambienti fatiscenti) mi aveva fatto optare per una scelta Ospedaliera come neurologo.

Losavio parla dell’”incubo di Rieti”. Io posso parlare dell’incubo dell’OP di Como. 

Ho il penoso e indelebile ricordo di un turno di guardia durante la quale ero stato chiamato in visita presso il padiglione che ospitava la neuropsichiatria infantile: La vista di quei bambini cerebrolesi in stato di abbandono è stato motivo sufficiente per una “fuga” precipitosa dall’OP. Confesso di aver pensato spesso a un atto di vigliaccheria. Però all’epoca ero privo di strumenti adeguati per affrontare queste situazioni di grande impatto emotivo e psicologico e ammiro chi ha lottato per la chiusura dei manicomi superando una condizione psicologicamente forse paragonabile (il paragone non suoni irrispettoso, sono di origine ebraica per parte di padre) a chi nei campi di concentramento doveva lavorare per far funzionare i campi senza potersi sottrare a questo compito.

In quel tempo la c.d. “piccola psichiatria” (che spesso non era piccola) era trattata molto spesso dai neurologi. Succede ancora oggi. Volevo anche ampliare le mie conoscenze sul funzionamento e le patologie del SNC (Sistema Nervoso Centrale) ed ero francamente traumatizzato dall’esperienza in OP. Non vedevo però altre prospettive se non quella manicomiale. 

Il caso mi offrì l’opportunità di entrare come assistente incaricato in una Divisione Neurologica.

 

E’ uno dei problemi della psichiatria (e degli psichiatri) quello di essere, in parte pregiudizialmente, temuti da persone affette da disturbo mentale (DM) che preferiscono lo psicologo e il neurologo perché avvertono il rischio di essere trattati da “malati di mente” con tutte le conseguenze del caso. Francamente è un timore più che fondato! Chi vorrebbe avere questa etichetta? La psichiatria e gli psichiatri devono fare ancora un lungo percorso per essere accettata e le strutture psichiatriche devono ancora “desanitarizzazarsi” e, in qualche misura, “depsichiatrizzarsi” e dotarsi di strumenti culturali alternativi o integrativi di tipo filosofico, sociologico e antropologico se vogliono, come dice Benedetto Saraceno nella sua raccolta di saggi (Sulla povertà della psichiatria, Derive/Approdi Ed.), ridurre la “miseria” concettuale rappresentata dalla cultura delle neuroscienze e della psicofarmacologia. 

Uso questi neologismi (“desanitarizzazione” e “depsichiatrizzazione”) perché possono ben indicare il percorso da fare sul piano dei servizi.

Non mi stancherò di raccomandare la lettura del saggio di Saraceno agli psichiatri per ripensare alle (povere) basi epistemologiche della psichiatria e per indurli a praticare una sana capacità autocritica.

Troppo spesso gli psichiatri, per la loro autoreferenzialità e arroganza (che cela una sostanziale ignoranza che li porta a identificare ogni disturbo con i criteri, ottocenteschi e kraepeliniani, del DSM!) mi ricordano i medici di Pinocchio: “se non è morto è vivo…se è morto non è vivo”.

 

Devo anche confessare che l’approccio terapeutico alle psicosi, nonostante allora mi fossi inizialmente un po’ infatuato per le terapie psicofarmacologiche  (per un anno, durante la frequenza della specialità, ero stato  assunto, part time, nella direzione medica di due grandi case farmaceutiche) che sembravano apportare apparenti grandi successi nella gestione dei malati psichiatrici e, soprattutto, la scoperta dei neuromediatori, che sembrava promettere alla psichiatria “magnifiche sorti e progressive”, successivamente si rivelò deludente e ben presto mi resi conto dei grossi limiti della terapia farmacologica nelle psicosi.

La sostanziale impotenza terapeutica e l’angoscia che tali pazienti inducono quando si instauri una relazione come persone e non come pazienti mi avevano indotto a rivolgermi alla psicoanalisi nella speranza di poter avere strumenti più idonei per affrontare queste difficili relazioni.

In realtà devo riconoscere che tale approccio al DM è stato senza dubbio arricchente e mi ha consentito di costruirmi un bagaglio di competenze e di evoluzione personale tale da poter affrontare la relazione con i pazienti con strumenti psicologici meno grossolani di quelli improntati alla relazione medico-paziente basati essenzialmente sulla prescrizione di uno psicofarmaco.

Quello che invece mi è sostanzialmente mancato, ma era difficile, all’epoca e a Milano, trovare chi potesse illuminare tale prospettiva, era una integrazione dell’approccio psicologico al DM con l’interpretazione e la prospettiva sociologica della malattia mentale.

Pertanto il mio successivo percorso professionale è stato fondamentalmente quello di esercitare la psicoterapia come psicoanalista senza più seguire direttamente le vicende del servizio pubblico.

 

Losavio esprime bene, in qualche passaggio, questa condizione di allora quando un giovane psichiatra poteva essere tentato da un approccio psicodinamico (lui accenna alle terapie familiari) o psicofarmacologico evitando di impegnarsi anche politicamente sul terreno sociale e della faticosa organizzazione dei servizi e in questa descrizione mi sono ritrovato.

 

Una piccola digressione: nella formazione di uno psichiatra non può mancare una prospettiva “autoterapeutica” essendo, in qualche modo, tale professione, come del resto tutte quelle di aiuto, sostenuta da motivazioni personali che hanno a che fare con le proprie ferite e i fantasmi che ognuno si porta dentro. ”Medice, cura te ipsum” dice il detto latino (Luca 4,23). In realtà credo che attività di training e supervisione siano indispensabili per che esercita le professioni “psy”. In qualche modo (quale?) andrebbe normato questo curriculum formativo che è tuttavia patrimonio di moti (quanti?) psichiatri. 

 

Circostanze personali, una figlia adottiva affetta da disturbo mentale, giudicato grave (?) dai colleghi, mi hanno, in qualche modo, costretto a misurarmi con la legislazione e organizzazione psichiatrica che è sostanzialmente figlia della L.180 del 1978 e dei successivi progetti obbiettivo poi arenati.

L’essere diventato recentemente anche presidente di una associazione di familiari (La Tartavela ODV di Milano) mi ha inoltre spesso messo di fronte alle realtà assai carenti dei servizi psichiatrici.

Una ulteriore motivazione è legata a una lunga (una decina di anni) e per molti aspetti frustrante, anche se assai interessante sotto il profilo umano e professionale, esperienza come psichiatra responsabile di una comunità terapeutica e un breve esperienza (all’incirca tre anni) come responsabile di un Centro Diurno. Anche in questa veste ho potuto verificare le insufficienze e le carenze che caratterizzano il sistema che dovrebbe occuparsi dei pazienti psichiatrici.

Contribuisce al mio interesse per una rivisitazione della legislazione psichiatrica anche una lunga esperienza come consulente e perito del Tribunale in materia psichiatrica.

 

Dall’insieme di queste motivazioni e esperienze nasce pertanto il tentativo di approfondimento delle tematiche connesse alla 180 e la rivisitazione della sua storia e della sua applicazione e pertanto la curiosità che mi ha suscitato il libro di Losavio.

Credo anche che possa essere di un qualche utilità, in questo contesto, una visione “laica” (non da professionista dei servizi di SM) e nella prospettiva di un familiare, seppure un po’ atipico (recentemente mi sono definito un ircocervo), dei problemi della SM.

 

Nel cercare di coniugare i diversi modi di intendere il frutto di 40 anni di legge 180, tra critiche alla sua applicazione, ideologizzazione delle sue radici politiche e legislative, realizzazioni operative successive sulla base delle premesse legislative e all’interno delle singole regioni e un  confronto per una eventuale revisione o integrazione normativa nei punti ove appare obsoleta e non ha corrisposto alle attese, mi sono però imbattuto in evidenti difficoltà di condividere un approccio pragmatico e criticamente costruttivo

In altre sedi mi ero espresso in modo un po’ critico nei confronti della 180 segnalando la estremamente laboriosa, molto lenta e spesso problematica, messa in forma della stessa legge con un’applicazione coerente con le indicazioni che emergono dalla sua stesura e gli evidenti “buchi” legislativi che, a mio parere, riguardano soprattutto una normativa inadeguata per gestire le situazioni di rifiuto o abbandono delle cure. La 180 infatti costringe a una difficile (o impossibile) gestione delle situazioni di c.d. “allarme sociale” sacrificando le garanzie costituzionale di dignità e libertà di curarsi (o rifiutare le cure) e la necessità (anche questa garantita per legge pena l’incorrere nella fattispecie penale dell’abbandono di incapace) di farsi carico delle persone con DM non in grado di prestare un valido consenso o che rifiutano le cure, proprio a causa del DM.

Sono a tutti note le tristi vicende di cronaca, anche recenti, che hanno caratterizzato le difficoltà di sottoporre a trattamento obbligatorio (TSO) persone che rifiutavano le cure.

Ogni volta che ho toccato il tema ho percepito da parte delle persone, la cui storia coincideva con la sofferta formazione e applicazione della legge, una ostilità che a me sembrava frutto di posizioni pregiudiziali e il rischio di urtare la loro sensibilità.

 

La lettura del saggio di Losavio, che ben descrive la sua esperienza, come allievo di Basaglia, di deistituzionalizzazione a Roma e, in particolare, la chiusura del manicomio di Santa Maria della Pietà, mi ha illuminato e fatto riflettere sulle ragioni della difficoltà di mettere in discussione la 180. Innanzitutto la battaglia con le organizzazioni e parti politiche ostili alla riforma e con i detentori di posizioni di potere e economiche (gli accademici e le cliniche psichiatriche nel Lazio) che evidentemente osteggiavano il cambiamento.

Mi è di consolazione l’onestà intellettuale di Losavio che riconosce di aver avuto protezioni politiche sufficienti per poter combattere la sua battaglia, quando le ha avute!

Un “cane sciolto” come il sottoscritto certamente non sarebbe stato in grado di farlo.

 

L’aspetto che più mi ha coinvolto nella lettura del libro e stata la descrizione della grande fatica e coraggio dimostrato dall’autore per realizzare quanto previsto dalla 180.

Questa fatica di “inventarsi le soluzioni” anche contro (o in assenza) di norme, vedi l’occupazione dell’appartamento di via Baccina, per farne una residenza protetta,  la difficoltà di superare ostacoli politici e amministrativi e di andare contro un potere costituito (i chierici della psichiatria romana che avevano le cliniche private), la carenza di risorse economiche e umane professionalmente formate, giustificano ampiamente, in chi ha vissuto in prima persona le trasformazioni e le lotte che hanno alla fine consentito di chiudere i manicomi, una suscettibilità di fronte a chi, come il sottoscritto ha l’impressione che ci sia una sorta di “santificazione” di Basaglia e della 180 (come è noto erroneamente a lui attribuita). 

Ecco allora spiegata la grande sensibilità per la propria storia politica e professionale che è riuscita a superare le resistenze al cambiamento e il “reducismo” dei protagonisti di allora della rivoluzione basagliana.

 

Ma è stato inevitabile pormi delle domande.

In ogni rivoluzione o riforma c’è una fase controriformista e controrivoluzionaria. Anche nel caso della riforma o rivoluzione (perché non c’è dubbio che di vera rivoluzione si è trattato) basagliana oggi ci troviamo a una fase di controriforma? I rivoluzionari di allora sono diventati i conservatori dell’esistente di oggi? Si dice che in gioventù si è incendiari e nella vecchiaia pompieri.

L’establishment di potere rappresentato oggi da consolidate strutture interne ad associazioni e organismi del terzo settore e il “reducismo” di esponenti di rilievo che rappresentano la parte più avanzata dell’attuale psichiatria riflette questa tendenza a mantenere l’esistente e la difficoltà di mettere in discussione le, pur pregevoli, conquiste prendendo atto delle insufficienze e dei fallimenti a livello di alcune regioni dell’assistenza psichiatrica?

La variegata applicazione nelle singole regioni della 180 sulla base della devoluzione (riforma del titolo V della costituzione del maggio2016 mai abbastanza esecrata) consente di non tenere conto, nelle singole realtà politiche regionali, della necessità di assicurare una sostanziale uniformità della organizzazione che presiede alla SM sul territorio nazionale. Ma anche questa motivazione può diventare facile alibi per attribuire alle leggi regionali ogni ritardo o insufficienza di quanto concerne la SM ma, più in generale, la sanità. 

 

Altro interrogativo. A monte di tutta la legislazione post 180 sta un problema di fondo: l’inserimento della 189 nella legge di riforma sanitaria ((la L 833 del 1978) che ha istituito il SSN ha rappresentato senza dubbio una grande conquista in quanto ha integrato il servizio psichiatrico all’interno della legislazione sanitaria. Con questo passaggio tuttavia si è prodotto un inevitabile, e oggi assai delicato, problema di una psichiatria che trova la sua collocazione all’interno della sanità.  Ciò ha in parte impedito l’integrazione con altre istanze di tipo sociologico e psicologico che sono alla base, e talora prevalenti, nella costituzione di un disagio psichico che, non necessariamente, deve essere collocato all’interno della diagnostica psichiatrica. Salute mentale non vuol dire psichiatria. 

Allora la domanda è: l’attuale legislazione e organizzazione dei servizi psichiatrici che dipende sostanzialmente dalla formulazione della 180 è adeguata alle attuali necessità e tiene conto del processo di devoluzione regionale della sanità? Quanto la SM deve essere sostanzialmente attribuita al “cartello” degli psichiatri?

Devo rilevare, avendo lavorato venti anni in ospedale, che il potere di un Direttore di DSM eccede di gran lunga (per le complesse articolazioni del servizio, per il numero delle persone afferenti al servizio, e per il grande potere economico costituito dalla gestione delle risorse economiche e la possibilità di utilizzare convenzioni con cooperative e terzo settore per gli aspetti riabilitativi) quello di un “normale” primario ospedaliero. E la cessione del potere non è facile. Chi lo possiede tende a conservarlo e, se può, espanderlo.

E’ pertanto di tutta evidenza che la gestione della patologia psichiatrica è stata riservata agli psichiatri con la costituzione di un potere che prescinde largamente dalla possibilità di gestire nel modo migliore situazioni che sono prevalentemente legate a disagi di ordine psicologico o che trovano nella disintegrazione dei rapporti sociali (la “società liquida” di Bauman) la loro origine.

Appare tuttavia assai problematico smontare il meccanismo organizzativo che fa capo alla vasta e ramificata organizzazione dei servizi di SM, fonte di potere, e mettere in discussione la cronicizzazione legata alle comunità terapeutiche, che hanno preso il posto delle istituzioni totali manicomiali o la reale utilità delle funzioni riabilitative attribuite alle CT e ai CD. E’ un discorso molto generale che nasce dalla mia esperienza sia professionale che come familiare e pertanto, forse, non esportabile in altri contesti. Ma credo purtroppo che sia significativo e purtroppo non limitato a una singola realtà o specifico di una regione.

 

Un altro interrogativo riguarda la tendenza dilagante all’uso e all’abuso della terapia farmacologica.

Quanto di tale tendenza dipende da questa impostazione medico-centrica?

Qualche timido segnale di resipiscenza è presente nel dibattito psichiatrico più avanzato, certamente però non tale da modificare la tendenza di fondo alla medicalizzazione del DM. Tale tendenza appare in linea di continuità, specie a livello accademico, con la legislazione che ha consentito la sanitarizzazione del DM prevedendo un percorso (SPDC; CSM, CD, strutture residenziali) del paziente psichiatrico all’interno del sistema sanitario ma in contesti separati. 

Questa separazione delle strutture territoriali dal sanitario, pur facendone parte a pieno titolo, ha consentito di fornire agli psichiatri una piena legittimazione e integrazione del loro operare come medici ma nel contempo non ha permesso di superare lo stigma che circonda il DM e le pratiche psichiatriche. Tale stigma non è senza ragioni: quale psichiatra si sente, in buona fede di consigliare a un suo paziente privato o a un suo famigliare un ricovero in SPDC o di farsi curare presso un CSM?

Per quello che è la mia personale esperienza (come familiare), l’SPDC, in generale, ospita casi di grave scompenso psichico in condizioni di grande precarietà sia sotto il profilo alberghiero che della relazione con gli ospiti, da parte del personale di assistenza. Non siamo molto lontani dai vecchi reparti degli OP. Siamo lontani da standard accettabili. Anche i vari CSM, che ho visto come accompagnatore, spesso mi sembrati assai precari nel funzionamento, con orari ridotti, spesso ubicati in strutture fatiscenti, sovraffollati, con scarsa o nulla elasticità per fornire prestazioni, non dico emergenziali, ma di una certa urgenza. Si dice che in realtà il funzionamento dei servizi di SM è a macchia di leopardo”. E se si cercasse di “smacchiare” il leopardo (copyright Bersani)?

Non voglio però essere ingiustamente distruttivo perché indubbiamente molte cose sono positive e non è facile gestire persone affette da grave DM (le psicosi rappresentano la maggioranza degli utenti del CSM). Ma anche questa, peraltro forse necessaria, “specializzazione”, mi chiedo se non possa o debba essere messa in discussione allargando le competenze e i ruoli di chi si occupa di SM. Ma bisognerebbe allora far entrare gli psicologi e le altre figure professionali in numero elevato e in, almeno parziale, sostituzione e affiancamento agli psichiatri e rendere l’accesso a tali servizi molto più “attraente” e facile.

Questa medicalizzazione e sanitarizzazione del DM è l’esito probabilmente non prevedibile e non ricercato, di una applicazione della 180, inserita nella 833, istitutiva del SSN, che è andata assai verosimilmente assai lontano dall’originaria esigenza di rispondere al bisogno di salute mentale in modo integrato socio-sanitario.

 

Non mi dilungo sull’applicazione goriziana e triestina della 180, sempre citate, né delle esperienze positive di organizzazione dei servizi di SM in altre regioni o realtà locali “virtuose”. E’ ben noto che la realizzazione e la gestione dei servizi cammina sulle gambe delle persone che se ne fanno carico e che amministrazioni e politici sensibili fanno la differenza.

Ma come familiare “esperto” mi chiedo se forse non sia opportuno rivedere tutto l’impianto della legislazione psichiatrica smontando il paradigma medico-biologico che è alla base e sostiene l’architettura dei servizi e integrare con una visione psicologica e sociologica l’approccio al DM trovando in queste figure (psicologo, sociologo, antropologo, riabilitatore, infermiere, ecc.) la possibile integrazione dei saperi e delle pratiche. Oggi sono spesso “assemblate” nei DSM senza reale integrazione e fondamentalmente gerarchicamente subordinate allo psichiatra che dirige il dipartimento. Mi rendo conto di fare affermazioni che possono apparire distruttive e urticanti ma spero che possano essere utili alla riflessione e a una messa in crisi radicale dei ruoli e delle pratiche dei servizi. Gli psichiatri più avvertiti penso ne siano consapevoli. Io penso che si dovrebbe rivalutare criticamente anche l’antipsichiatria rimettendo in discussione il paradigma medico che sostiene la malattia mentale.

Si tratta di spostare il focus dell’intervento dal paziente al suo ambiente sociale e familiare, dal DM inteso come “malattia” alla interpretazione del disagio come espressione di difficoltà esistenziali o relazionali. Dalla pretesa di una cura con psicofarmaci del disagio a una sensibilizzazione e integrazione a livello del territorio e delle relazioni significative apportando quelle competenze (psicologiche, sociologiche, antropologiche) che permettono una lettura del bisogno e della possibile risposta che sia individuale ma che tenga conto dei c.d.  “determinanti sociali”.

Di fronte a queste necessità quali risposte?

Penso agli “psicologi di strada” o a quelli che io chiamerei “psicologi della mutua”. Non c’è più la mutua ma la sua versione attuale potrebbe essere quella di una diffusione capillare delle prestazioni psicologiche, tal quale il medico della mutua faceva e tutt’ora presta nella veste di medico di famiglia o MMG. Le istituende case della salute sarebbero il luogo dove fornire tali prestazioni.

Mi risulterebbe, ma non ho potuto ancora approfondire, che in Inghilterra esiste qualcosa di simile: un servizio psicologico diffuso e universale.

L’altro problema prioritario per smontare l’attuale organizzazione è quella di chiudere o trasformare le comunità residenziali in residenzialità leggera.

Non si possono nascondere i problemi obbiettivi da affrontare: interessi economici in gioco, necessità di riconvertire personale e strutture e di formare il personale. C’è poi la resistenza dei familiari a riprendersi a casa persone che sono disturbate e disturbanti. Allora bisognerà predisporre soluzioni abitative extrafamiliari e, forse, essere realisticamente in grado di avere soluzioni di ricovero prolungato (ma monitorato e con la garanzia di controlli esterni all’equipe curante) nei pochi casi in cui piò essere necessario.

In ogni caso la riabilitazione psichiatrica andrebbe gestita, per quanto possibile, fuori dal perimetro sanitario dalle associazioni dei familiari, utenti e cooperative.

Quello che va smontato è un sistema di potere centrato sulla psichiatria a impronta biologica e una cronicità psichiatrica in parte indotta dalla presenza di CT che assorbono una gran parte delle risorse dedicate alla SM.

E’ una nuova rivoluzione dopo quella di Basaglia? Forse sì. In un altro scritto l’ho chiamata seconda rivoluzione basagliana. Forse però si tratta di portare a compimento quella di Basaglia andando oltre l’abbattimento dei muri manicomiali cercando di abbattere i più invisibili “muri interni”, come ho definito la tendenza a essere, anche inconsapevolmente, vittime e produttori dello stigma che circonda il DM e ancorati ideologicamente a posizioni vetero psichiatriche. L’ho chiamata sindrome del reducismo.

14.01.2022