contenzioneDi Donato Morena

Il lutto porta sempre con sé il bisogno di un’elaborazione, necessaria nella sua funzione di restituzione di senso, di un senso, per chi rimane. La morte delle persone che ci vengono affidate, nel proprio corpo e nella propria anima, apre inoltre ferite che lasciano dubbi profondi sulla direzione dei nostri passi.

Negli ultimi giorni tanti e significativi sono stati gli interventi che hanno dato voce al dolore che si prova di fronte alla morte di una ragazza ventenne. Di nuovo una morte che riempie d’angoscia.

Ne è nata una discussione (purtroppo a tratti condotta con venature di acredine poco rassicuranti per chi assiste con occhi di speranza al nostro operato), ultima di una serie, essendone occorse altre, in questi anni, all’indomani di altre tragedie (ogni morte di un paziente lo è – così come non possiamo dimenticare le morti di operatori di salute – squarci nel velo dell’esistenza improblematica).

Ad ogni evento si è cercato di dare un segno postumo, cercando cause, rimedi, riorganizzazioni, affinché ciò che è avvenuto non si ripetesse.

Alle persone decedute in conseguenza di assurde contenzioni meccaniche si è tentato di restituire la dignità strappata attraverso protocolli che ponessero limiti a tali pratiche. Dopo i colpi mortali di arma da fuoco contro pazienti agitati o in fuga, è stata valutata l’introduzione di pistole elettriche, i Taser, in uso da tempo negli Stati Uniti. Alle morti di due operatrici di salute mentale per mano di pazienti, si è discusso delle strategie per ottenere maggiore protezione nei luoghi di lavoro. Maggiore sorveglianza e un richiamo alla custodia di cui gli operatori sono ritenuti garanti sono stati invocati dopo le morti volontarie in luoghi di cura e riabilitazione. Successivamente a violenze compiute da pazienti in fase di scompenso psicopatologico, è stata ribadita la posizione di garanzia degli operatori, chiamati a controllare la continuità delle cure, soprattutto di tipo farmacologico.

Con questo breve riassunto delle vicende recenti, di eventi che si sono inscritti nelle vite di operatori e pazienti inestricabilmente legate, vorrei entrare nel merito non di ognuna delle soluzioni trovate quanto pensare all’insieme delle stesse e al futuro che si sta delineando per la nostra psichiatria.

Nelle discussioni sulle pratiche da attuare, nate dopo questi eventi, viene infatti spesso richiamata la strada che conduce ad azioni dalla comprovata efficacia scientifica, con la messa all’indice di soluzioni considerate ideologiche. È stata riaffermata con forza tale posizione dai vertici della psichiatria italiana: la psichiatria appartiene all’alveo delle scienza. Tale posizione, d’altra parte, è assolutamente legittima, ma allo stesso modo limitativa, se considerata in modo esclusivo ed ermetico.

Una visione d’insieme della storia della psichiatria, soprattutto di quella italiana, non può ignorare come i maggiori sviluppi positivi siano nati proprio allorché le teorie e le prassi si siano aperte ad altri mondi e ad altre discipline, psicologiche, antropologiche, sociali, filosofiche, artistiche.

È stato un merito decisivo, quello di aver saputo coltivare autocritica verso le proprie teorie e le proprie prassi, lasciando che queste ultime venissero arricchite da altre esperienze e altre visioni.

Dalla capacità di far buon uso della propria crisi, da intendere nella nobile apertura al dialogo e alla trasformazione, la psichiatria ha saputo trarre per prima quell’energia trasformativa che solo con molto ritardo è stata assimilata da altre branche della medicina.

Dalla fusione calda di diversi ambiti, la psichiatria, in particolare quella italiana (ancora), ha saputo generare un orizzonte più ampio: quell’idea di salute mentale che guarda a tutti, non solo a chi rientra nelle definizioni diagnostiche dei manuali psichiatrici.

Tanti sono stati i successi ottenuti nel nostro Paese nei decenni scorsi. Da anni tuttavia sembra che questi traguardi non siano più degni della valorizzazione che meriterebbero.

I movimenti di trasformazione hanno portato alla chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari negli anni recenti. Ma, nonostante lo straordinario impegno dei propri protagonisti, questi movimenti sembrano sempre meno accompagnati da nuove forze propulsive.

Forse, più forte appare l’attrazione di miraggi scientisti. Col rischio di un distacco dalla propria storia, e di una frattura, mi viene da dire, dal mondo reale.

Lo noto dagli sguardi stravolti di chi si trova di fronte a situazioni complesse che necessitano di risposte altrettanto complesse, a cui troppo spesso non si è abituati.

In questo contesto, parlare sic et simpliciter di “efficacia” nella ricerca di cambiamenti appiattisce e svuota di senso il metodo culturale e umano con cui i problemi della psichiatria andrebbero affrontati.

Mi viene in mente, ad esempio, l’abisso incolmabile (eppure da colmare) tra esperienze di stati di acuzie gestiti senza o con la contenzione meccanica; tra le ore trascorse a cercare un contatto che renda possibile una terapia, questa sì, efficace nel riportare la vita sui binari da cui è deragliata e i pochi attimi con cui con forza si ottiene una contenzione farmacologica. La sola scienza statistica non è capace di far emergere le profonde divergenze di tali prassi. Quali dati numerici nei nostri database elettronici potrebbero darne testimonianza? Ancora, quali differenze tra il valore numerico assegnato all’inizio di una terapia sotto minaccia di TSO rispetto a quello che si raggiunge dopo ore di dialogo? E tra la riduzione dei revolving door, delle ri-ospedalizzazioni dei pazienti, di un servizio attento solo alla continuità farmacologica, rispetto a quella raggiunta da un servizio che si prende cura di altri bisogni dei suoi utenti?

Certo, ci sono mille altre variabili con cui la psicometria permette di quantificare gli aspetti umani, la qualità di vita, il benessere, lo stato di salute fisica, l’empowerment, e altre categorie della recovery, della ripresa. Ma per quanto si possa disarticolare la vita e le relazioni, nessun dato può restituire l’infinito dispiegarsi dei rapporti, delle parole, dei gesti, degli sguardi, dei silenzi. Elementi spesso fragili e rarefatti, a volte solo intuitivi, ma straordinariamente salvifici.

Su questo terreno, su queste intuizioni, certamente non su preventive analisi statistiche (arrivate comunque a supporto in un secondo tempo, a testimoniare il valore dell’ottimismo della pratica) è nato il rivoluzionario progetto di chiusura degli Ospedali Psichiatrici, prima; ieri degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari.

Dalla necessità etica di restituire il diritto di cittadinanza ai pazienti, anche autori di reato, è sorta la spinta per questi cambiamenti; non su aspetti medici, che d’altronde non sono i soli a caratterizzare la figura e l’operato dei medici e degli operatori.

Se così non fosse, le esperienze di trasformazione dei primi Ospedali Psichiatrici a dispetto dello status perdurante degli altri non avrebbe avuto alcuna significanza. Se non quella di dover rialzare mura, recinti e barriere.

Sono elementi, questi che caratterizzano la storia della psichiatria, della nostra psichiatria, nel suo rinnovarsi e saper rigettare le proprie componenti deteriori, che dovrebbero essere apprezzati, ricordati, continuamente insegnati nella formazione dei nuovi operatori, tenuti sempre a mente nelle prospettive future e, infine, valorizzati come tratti di merito rispetto ad altre discipline mediche. Sono, infatti, elementi degni di diffusione nel loro potenziale trasformativo.

Penso ai Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura, reparti ospedalieri che nelle speranze di Franco Basaglia avrebbero dovuto contaminare gli altri, diffondere il valore della tutela della salute al di là di quello della guarigione del corpo.

In questi ultimi anni assistiamo, invece, a un contagio di direzione inversa. Anche nei reparti di psichiatria i tempi e i linguaggi dell’ospedale si sono imposti sulle attese silenziose e sulle parole del cuore; i ritmi dell’azienda hanno velocizzato quelli fisiologici delle persone; il personale è sempre più precario nei numeri e nella capacità di accoglienza e sostegno; la collaborazione tra le varie discipline è sempre più caratterizzata da asperità e da rigidi interessi di protezione legalistica.

Tutto ciò, con quali risultati nella sanità? “È come essere in guerra”, ha dichiarato una chirurga aggredita nei giorni scorsi in un pronto soccorso della Campania. Ed è una sensazione che sempre più si sta facendo strada anche nella mente di chi lavora in psichiatria. Una psichiatria d’altra parte in posizione sempre più marginale e subalterna: di nuovo considerata porto franco in cui confinare la devianza. Ci si sente operatori di supporto, chiamati in causa per risolvere gli intoppi creati da agitati, intossicati, devianti, violenti, pericolosi a sé e agli altri: insomma dall’uomo da escludere. Sempre più esposti e con minor possibilità di dare risposta.

Questo per gli operatori, mentre tra i pazienti chi può permetterselo si tiene alla larga dai servizi pubblici.

Eppure, la psichiatria ha avuto l’occasione di diventare un faro per le altre discipline mediche, avendo dimostrato quanto sia importante rendere i luoghi di cura più vicini alle persone, addirittura entrando nelle case, seguendo i pazienti anche in modo proattivo, per dare risposta al disagio prima che si trasformi in urgenza.

Il filo che ha condotto a tali cambiamenti è nato, come detto, prima ancora che da sperimentazioni, da intuizioni umanistiche e pratiche. A cui non possiamo e non dobbiamo rinunciare. Non è possibile infatti rispondere alle grandi questioni che ci troviamo di fronte col solo metodo dell’efficacia scientifica. Non sarebbe solo una soluzione consolatoria quanto parziale e inadatta?

Il teologo Karl Barth affermava che “quando il cielo si svuota di Dio, la terra si riempie di idoli” e potremmo forse estendere questa riflessione all’idolatria verso il metodo scientifico che nei paesi dove è stata attuata non pare aver dato risultati positivi. A giudicare dagli Stati Uniti e dalla situazione della salute mentale e della sicurezza dei suoi cittadini.

Il cielo della nostra psichiatria è stato invece arricchito di ideali alti, e la storia dei cambiamenti ottenuti nel nostro Paese dovrebbe essere motivo di orgoglio.

Gli ideali di cura e di libertà andrebbero riportati al centro delle pratiche, delle risposte, delle proposte. Di nuovo, della formazione. Magari leggendo, tra una diagnosi del DSM e un articolo scientifico, qualche pagina di “Che cos’è la psichiatria?”, raccolta di testi a cura di Franco Basaglia.

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