slavich_Di Antonio Slavich[*]

Le grandi imprese, anche quelle piene di significati destinate a risuonare a lungo nel tempo, inclusa quella goriziana, hanno spesso un inizio modesto, quasi minimalista. L’epos si è via via dipanato intorno a persone in carne e ossa, non a icone, sempre buone, sapienti e coraggiose: persone che hanno pensato e tentato la loro strada, magari per successive prove ed errori, cercando di capire la situazione concreta e determinata nella quale si sono calati o cacciati, e facendo poi quanto possibile e doveroso per trasformare la realtà, per sé e per gli altri, in qualcosa di più e di diverso rispetto alle accomodanti aspettative generali. Con questo stato d’animo deve essersi presentato Franco Basaglia alla direzione dell’ospedale psichiatrico provinciale di Gorizia il mattino del 16 novembre 1961. Qualche traccia di uno dei pochi insegnamenti del suo maestro Belloni – prima di tutto evitare le grane – rimaneva nel suo riserbo poco loquace, “ticcoso”, timido e cortese, ma nel contempo un po’ freddo, nell’accogliere l’omaggio dei maggiorenti dell’ospedale.

Gli venne incontro l’ispettore-capo Michele Pecorari, più curvo che mai: in fondo si trattava del nuovo direttore! E le gerarchie e i relativi poteri erano tenuti in gran conto nel manicomio, tanto più che il potere del direttore doveva servire a legittimare a cascata i poteri di ciascuno dei sottoposti nella gerarchia. Seguendo fiducioso il rito, Pecorari sottopose al direttore il registro delle contenzioni disposte dai medici (o semplicemente praticate dagli infermieri) il giorno precedente, per la firma di autorizzazione. Basaglia lo guardò con aria perplessa e interrogativa, e dopo un indugio che dovette sembrare assai lungo agli astanti disse semplicemente: «E mi no firmo!». L’effetto fu quello di uno sparo nel buio: addio al prudente insegnamento di Belloni.

[…]

Nel corso di quel primo giro a passo di corsa per i reparti maschili e femminili, Basaglia vide abbastanza da ribadire e confermare, nella maniera più esplicita, il divieto di legare chiunque, ai letti, ai termosifoni o agli alberi. Si chiuse nel suo ufficio. E che altro poteva fare, così, solo? Cos’altro poteva disporre, ordinare, comandare, strepitare? Come usare in modo ben finalizzato, e per una giusta causa, l’enorme potere formale che la legge di allora conferiva ai direttori di manicomio? Un po’ come nel caso delle contenzioni: poteva sì ritirare le deleghe in bianco, ma non poteva fare tutto da solo. Ne parlò a colazione con l’assessore Marchesini; raccontò le sue pene ai primari venuti dall’ospedale civile, che gli avevano organizzato una cena di benvenuto. Più tardi, nelle sue stanze d’albergo, un Basaglia insonne decise che non poteva fare la fine del predecessore Canor, e che in qualche modo doveva reagire, magari a muso duro.


[*]Brano tratto dal capitolo La solitudine di Basaglia (Antonio Slavich, All’ombra dei ciliegi giapponesi, Merano, Alpha Beta Verlag, Collana 180 – Archivio critico della salute mentale, 2018)

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