Marco Cavallo è la storia della libertà riconquistata dagli internati che ancora oggi ci parla di futuro, apre alla possibilità, invita a una scelta di campo.

marco-cavallo_cover_ristampa_2018

Gennaio ’73. Nel manicomio aperto di San Giovanni era nata da poco la prima cooperativa. Basaglia mette a disposizione degli artisti uno dei primi reparti vuoti. Giuliano Scabia, scrittore, regista e attore, e Vittorio Basaglia, pittore e scultore, con i giovani dell’accademia di Venezia danno inizio a un singolare laboratorio. «Vediamo cosa sapete fare in un manicomio che si apre» aveva detto loro Basaglia qualche settimana prima a Venezia, provocando alla sua maniera. Sulle prime pensano di costruire una grande casa di cartone, una scena, una provocazione per entrare nelle cose. Nell’affollatissimo reparto osservazione donne si imbattono in Angelina Vitez. È una donna calabrese emigrata a New York, sposata a un triestino, tornata in patria e ora ricoverata a Trieste. Sta disegnando un cavallo, con quattro linee divide il corpo del cavallo in sei scomparti e in ognuno disegna una cosa: un vaso di fiori, un’oca, una pentola, una casa, un albero e un Pinocchio. Dice che si chiama Marco come il cavallo che porta su e giù per San Giovanni il carretto della biancheria sporca e che ormai, vecchio, sta per essere mandato al macello. Gli internati vogliono salvarlo da quella fine tremenda.

È così che è nato Marco Cavallo.

Il laboratorio per due mesi accoglie centinaia di ricoverati. Tutti sono invitati a scrivere, disegnare, raccontare, partecipare. Si scrivono libri colorati su grandi fogli bianchi. Si raccolgono storie. Si rappresentano operine recitate e cantate. Si parla del cavallo Marco che sta prendendo forma in legno e cartapesta e di come procedono le iniziative per salvarlo.

L’avvio tumultuoso del laboratorio stravolse definitivamente quello che restava dell’ordine e della disciplina asburgica già minata nelle fondamenta dalle porte aperte. Non fu risparmiato perfino l’imperturbabile signor economo. Sempre più frequentemente, l’economato si trovava a dover acquistare spazzolini da denti, specchi per i bagni, porta sapone e sedie fuori dall’inventario, biglietti e tessere per l’autobus, per il cinema, per il teatro, e farina, olio, aromi per i primi esperimenti di preparazione di pietanze all’interno dei reparti o delle prime comunità autonome o per sostenere la vita quotidiana dei primi dimessi. E ora quantità industriali di carte, cartoni, colori, pennelli, legnami, chiodi, viti, martelli, colle, album, stoffe. Giorno dopo giorno le economie, le risorse, le procedure di spesa venivano orientate verso i bisogni delle persone. Fino a quel momento i bisogni sepolti nella malattia, inavvertiti e annientati, prendevano timidamente il sopravvento sulla totalizzazione, sull’omologazione, sull’appiattimento.

Quell’esplosione di parole, di comunicazioni, di storie, di aperture, di allusioni così affascinanti alla libertà, prima di tutto, e poi alla casa, ai diritti, all’uguaglianza, all’amore, all’amicizia disorientavano tutti. Sconvolgevano le geometrie istituzionali, fredde ma sicure, che erano state bene o male la certezza della secolare riproduzione del manicomio e della psichiatria.

Write A Comment