agneseDi Agnese Baini

Prima ci hanno insegnato l’espressione “distanziamento sociale”, poi ci hanno detto che non potevamo più usarla. Bisognava preferire la dicitura “distanziamento fisico”. Una differenza lieve ma semanticamente fondamentale: mantenere un metro di distanza, non abbassare la mascherina per scambiarci sorrisi, non stringersi le mani (ci siamo pure abituati a salutarci con il gomito senza che la vicenda si trasformi ogni volta in una barzelletta!) cercando però di mantenere i contatti e di stringere i legami, inventando nuovi modi per passare il tempo insieme. Era necessario mantenere la parte sociale, pubblica e collettiva proprio per la nostra salute mentale.

Eppure, una ricerca* pubblicata la scorsa settimana dall’istituto Elma Research per il gruppo Angelini Pharma, traccia un quadro un po’ spaventoso di come siano andati gli ultimi mesi: più di un italiano su due ha avuto almeno un sintomo di disturbo mentale, per almeno quindici giorni; per l’esattezza il 63% delle persone. Tra questi sintomi troviamo, per esempio: l’insonnia, la tristezza o la voglia di piangere, timori eccessivi, mancanza di piacere nel fare le cose, attacchi di ansia. La mia testa sta passando in rassegna i sintomi: ce l’ho, ce l’ho, manca. Ne avevo anche scritto. E voi, quanti check avete fatto?

La ricerca poi prosegue: era la prima volta che appariva questo sintomo/questi sintomi oppure avevate già vissuto in passato un’emozione simile? Avete parlato con qualche persona quando vi siete accorti di avere uno di questi sintomi per almeno quindici giorni? Seconda persona plurale, per me sintomi già conosciuti e andavo già da una psicoterapeuta prima del coronavirus. Per metà delle persone intervistate, era la prima volta. Per una persona su tre, c’è stato un peggioramento di sintomi già esistenti. Il 51% delle persone ne ha parlato con un famigliare e solo una minoranza si è rivolta a figure professionali (psicologa o psicologo, 11%; psichiatra, 6%). C’è da segnalare che sono anche nati numerosi servizi di supporto psicologico, sia telefonici sia online – e alcuni già esistevano; qua una lista. Sarebbe interessante sapere quante persone hanno raggiunto questi numeri.

C’è però una questione che ora bisogna approfondire: se si sta male, cosa si fa? Si cerca su Google è una risposta banale, ma secondo questo studio è anche la più vera. Qualche anno fa, quando io sono stata male ho cercato, sempre su Google, il contatto di una psicologa, ci siamo conosciute e ora continuiamo il nostro percorso. Oltre a Google, gli studi di professioniste e professionisti privati, i numeri di supporto psicologico, c’è la sanità pubblica. Il primo passo potrebbe essere rivolgersi alla propria medica o al proprio medico di base, spiegando i sintomi e chiedendo che cosa fare. Se siete persone poco fortunate, vi prescriverà dei farmaci (il mio caso); se siete persone un po’ fortunate, chiederà dei controlli o delle visite (anche questo il mio caso); se siete persone davvero fortunate, vi indirizzerà presso il Dipartimento di salute mentale (questo sicuramente non è il mio caso) – vi lascio qua una mappa dei DSM esistenti in Italia.

Si può contattare anche direttamente il Dipartimento di salute mentale o i Centri di salute mentale. La prima cosa che vi chiederanno è se siete persone già in carico ai servizi o se è la prima volta; cercheranno poi di capire se si tratta di una situazione di emergenza o di gravità (in questi casi si può chiamare anche direttamente il numero unico per le emergenze 112 o andare in pronto soccorso) e vi spiegheranno che cosa fare. Un altro canale sono i consultori che offrono un percorso di sostegno psicologico, su appuntamento e gratuito, su materie, diciamo, attinenti ai consultori. Questa soluzione non vale per i percorsi psicoterapeutici su lunga durata. Esistono poi, per esempio, anche le psicologhe e gli psicologi delle scuole e delle università, che sono sempre servizi gratuiti.

Un approfondimento pubblicato sulla rivista online Vice due anni fa, parlava della sfiducia che le persone hanno verso la psicoterapia all’interno delle strutture pubbliche e di come ci fosse un “monopolio” di professioniste e professionisti con studi privati in questo settore. Ma la sanità pubblica dovrebbe diventare il riferimento principale per chi ha bisogno di supporto psicologico: servono allora campagne di comunicazione, serve che sia accessibile, serve organizzazione. Servono investimenti.

La Costituzione afferma che la salute va tutelata in quanto diritto fondamentale di ogni individuo, e allora anche la salute mentale va tutelata. In quanto mio diritto di cittadina serve che l’accesso alle cure, alle chiacchiere, ai farmaci sia facile e sia gratuito, possiamo discutere di un eventuale ticket ma non di pagare ogni singola seduta. Questo non accade anche perché c’è un enorme stigma e tantissimi pregiudizi rispetto ai disturbi e alle malattie mentali. Sempre secondo la ricerca di Elma Research il 64% delle persone intervistate afferma che i disturbi mentali siano fonte di discriminazioni ed emarginazioni e il 57% che sono causa di vergogna e di imbarazzo. Voi, che ne pensate? Più di metà delle persone ha avuto un sintomo e più di metà delle persone si vergogna a parlarne. Secondo l’OMS, nei prossimi anni la depressione sarà addirittura il principale disturbo della popolazione a livello mondiale. Eppure…

In questi anni, sono diventata molto più consapevole di cosa significhi salute mentale, della necessità di parlarne e dell’importanza della sua tutela. Mi sono però accorta che sono la prima a non essere informata sui servizi pubblici rivolti alla cittadinanza su questo argomento. E approfitto di queste righe per ringraziare tutte le persone che ho disturbato in questi giorni con le mie domande. È difficile ammettere di stare male ed è difficilissimo riconoscere di aver bisogno di aiuto. Sono sempre argomenti scomodi, di cui è meglio non parlare o di cui non si sa come parlare. Eppure, dovremmo proprio parlarne perché la salute mentale ci riguarda tutti, nessuno escluso.

* La letteratura sul rapporto tra tutela della salute mentale e influenza delle case farmaceutiche è molto vasta. Non è così raro che una multinazionale farmaceutica che produce antidepressivi finanzi questo tipo di ricerche. Non sono abbastanza informata per parlarne e finirei per citare semplicemente articoli altrui, probabilmente senza molta cognizione.

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