di Silvia Jop e Davide Gangale

Erano i primi anni Settanta quando Franco Rotelli e Mariagrazia Giannichedda incontravano Trieste, il manicomio e Franco Basaglia. Con l’arrivo in Friuli, dopo essersi imbattuti nell’architettura e nelle prassi criminali dell’istituzione totale che agiva un’azione coattiva e violenta sui soggetti che vi erano reclusi, avevano cominciato a contribuire ad un processo di liberazione che avrebbe cambiato radicalmente il volto di questo paese. Mentre le pareti del manicomio venivano abbattute, si cominciava a restituire alle città e alla società nel suo complesso l’altro sé. Si svelava quindi il volto della contraddizione che era stato relegato al di là del muro, racchiuso tra inferriate e mattoni. Alle prese con la distruzione di quel grande carcere eretto per contenere le persone che erano state marchiate a vita come “irrecuperabili”, si sovvertivano anche i principi primi di una cultura che aveva fatto dell’assolutizzazione del concetto di salute e di quello di normalità il suo mito fondativo.

Superati i primi anni del duemila, Franco Rotelli e Mariagrazia Giannichedda continuano ad incontrarsi scontrandosi con i residui di quell’istituzione totale e praticando, nello spazio delle loro quotidianità, visioni del mondo alternative. Neutralizzando con grande eleganza i rischi di un facile amarcord, si raccontano a partire dalla lettura dei luoghi e degli attori sociali che oggi abitano gli spazi del fare, quelli del sapere. Ragionando a voce alta sul legame – sempre politico – che intercorre tra teoria e prassi, suggeriscono orizzonti possibili mettendo in guardia chi li ascolta dai falsi profeti e da chi pretende di semplificare con l’erezione di un muro la complessità di un’esistenza. Ed è solo conoscendo le radici storico-culturali che hanno caratterizzato questo “altro fare” che oggi possiamo imparare ad agire la differenza. Proprio per questo, Mariagrazia Giannichedda condensa e riassume il senso di una relazione concreta, personale e intellettuale, che ha unito Franco Basaglia e Jean-Paul Sartre, negli anni della lotta contro il manicomio in Italia: «Franco [Basaglia] considerava che la filosofia di Sartre andasse messa in pratica». Separati dal tempo di una generazione (Sartre nasce nel 1905, Basaglia nel 1924), è infatti su alcuni temi centrali nel percorso di riflessione e nell’attività di entrambi che avviene l’incontro, e il confronto, «da maestro ad allievo». Il tema della libertà, la ricerca dell’autenticità nelle relazioni, comprese quelle di cura, la messa tra parentesi della malattia come procedimento fenomenologico e terapeutico allo stesso tempo, come epoché che restituisce al malato la sua umanità, e allo psichiatra la possibilità di instaurare un rapporto che non si esaurisca in un mero etichettamento, nella reiterazione di uno stigma irrimediabile, nell’esercizio di una tutela imposta che diventa contenzione. E poi, ancora, la negazione: intesa non solo e non tanto come moto radicale della coscienza individuale, come quello scollamento da sé che condanna a vivere di continui superamenti, senza mai poter raggiungere la pace, muta e inconsapevole, degli oggetti. Ma come fonte di indignazione morale, di fronte alla realtà di un’istituzione, quella manicomiale, destinata teoricamente alla cura del disagio mentale e che invece si rivela essere un luogo della violenza legittima. Legittima perché legittimata da un sapere (scientifico, medico) che diventa potere. Matrice di assoggettamento per soggetti negati, reificati, ma che può e che deve essere interrogata dalle sue fondamenta, messa di fronte alle proprie responsabilità, oltre che rapportata ai suoi risultati strettamente clinici. Da qui quindi, la nascita di una pratica di visioni che si è opposta a un’istituzione che si configurava innanzitutto come una forma di violenza. Un’istituzione che occorreva rifiutare, praticando una quotidiana negazione delle condizioni materiali e delle giustificazioni scientifiche, culturali e politiche che l’avevano resa possibile. Per la creazione di un’utopia della realtà capace sempre di fare i conti con la consapevolezza del fatto che «ogni spazio di utopia è un attimo nel quale l’incontro con l’altro si realizza ma poi siamo, subito dopo, attraversati da tutte le determinazioni» che ci riportano ad un nuovo presente a cui dobbiamo necessariamente, contestualmente e politicamente, rispondere.

Ed è proprio del presente che Franco Rotelli suggerisce una visione alternativa, oltreoceano. Guardando oggi al Brasile possiamo raccogliere in presa diretta il processo di una rivoluzione socio-culturale che attraverso una densa relazione tra soggetti professionali profondamente differenti sta «reinventando una vita che era impoverita». È quindi nella cooperazione delle realtà, nello scambio dei saperi, nel prendersi del tempo per recuperare «ore di intelligenza» che è possibile non solo pensare un mondo differente, ma cominciare a farlo.

Le giornate del 22, 23 e 24 febbraio a Siena sono state un piccolo banco di prova in cui volti, soggetti, tecnici del sapere pratico e professionisti di diverse discipline si sono confrontati sul punto d’intersezione tra due tempi e due luoghi: il manicomio ieri e i centri di salute mentale oggi, la salute mentale a Siena e la salute mentale in Italia. Il Collettivo di Antropologia ha cercato di riunire in sPAZZI, accanto alla storia, ai volti e ai luoghi del manicomio e della sua fine, una matassa di diversi linguaggi narrativi che restituisse, assieme alle parole, la complessità di una riflessione culturale e politica che senza l’arte non può mai compiersi del tutto. Dalla fotografia al cinema, dalla musica al teatro. Speriamo che Siena abbia trovato in questo intreccio un contributo per almeno «un’ora di intelligenza».

Da “Il Lavoro Culturale”. Di seguito il link del sito dove trovare l’audio delle interviste a Franco Rotelli e Mariagrazia Giannichedda, raccolte al termine dell’incontro “sPAZZI. Dalla distruzione del manicomio alla costruzione dei diritti” tenuto a Siena il 22, 23 e 24 febbraio 2011:

http://www.lavoroculturale.org/spip.php?article28

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