contenzioneDi Peppe Dell’Acqua

A Trieste, dove ho iniziato a lavorare nel 1971, era già raro il ricorso alla contenzione meccanica. Nell’ordinato e magnifico frenocomio dell’imperial regia asburgica città, gli infermieri e i medici parlavano con orgoglio del rifiuto di questa pratica. Fascette e camice di forza, se pur in dotazione in alcuni reparti, erano usate molto poco. Quasi mai, dicevano gli infermieri più anziani.

A San Giovanni si usava una più civile (?) forma di contenzione: i camerini di isolamento e i letti a rete: un letto chiuso da alte reti di corda robusta ai quattro lati e in alto.

Durante la notte arrivavano ai reparti accettazione uomini e donne con l’ordinanza del ricovero coatto, il più delle volte “cinghiati e barellati”. Ovvero legati come salami sulla barella. Il compito del medico e dell’infermiere di turno consisteva nel liberarlo dalle cinghie e rinchiuderlo nel letto a rete. Altri, non solo nei reparti di accettazione, se disturbatori, insonni, clamorosi, incontenibilmente deliranti, agitati venivano rinchiusi, nudi, nel camerino di isolamento, uno stanzino due metri per due con dispositivi tali da impedire qualsiasi forma di autolesionismo con solo un terzo di materasso e una coperta a prova di lacerazione.

Per quanto più “civile”, questa pratica restava inaccettabile.

Era Basaglia a dirlo a noi giovani apprendisti.

La contenzione è inaccettabile, inutile, violenta e generatrice di violenza. Fu da quelle prime notti che cominciò ad apparire il confine, un limite invalicabile alle cure e ai trattamenti. La violazione del corpo, la privazione della libertà, la mortificazione erano tutt’altro che cura.

Da allora tutte le nostre pratiche sono state condizionate da quel confine, da quella premessa, da quella scelta di campo.

Non fu facile. Gli infermieri, per quanto d’accordo con il rifiuto della contenzione, si dicevano incapaci, mancanti di mezzi: “siamo pochi in turno e dobbiamo badare a più di 50/60 persone”.

Basaglia chiese a noi giovani medici e agli studenti volontari di partecipare alla sfida. Insieme agli infermieri, contro la contenzione.

Prima di tutto slegare le persone che arrivavano “cinghiate”. Disporsi all’ascolto e all’accoglienza. Arginare con il proprio corpo, con gli sguardi e con le parole le tensioni, i sussulti, le paure. E così, quando nei reparti qualcuno urlava la sua disperazione, bisognava ascoltare. Il medico di turno, se necessario, restava per tutta la notte con gli infermieri.

Parlavamo, ci disponevamo intorno alla persona. Preparavamo il caffè da bere insieme. Cercavamo, anche per noi stessi, il senso di quella disperazione, di quell’esplosione, di quella rabbia.

Da allora, “e per sempre”, si evitò il letto a rete, il camerino di isolamento, la porta chiusa.

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