carcereVolete sapere chi sono io? Racconti dal carcere, a cura di Antonella Bolelli Ferrera. Mondadori editore, 2011

Un volume che raccoglie venti racconti scritti da carcerati di tutta Italia nell’ambito di un progetto di scrittura come veicolo di reinserimento sociale promosso dalla Siae e dal Ministero di Grazia e Giustizia. Madrina dell’iniziativa è Dacia Maraini, mentre i più importanti autori italiani – da Massimo Carlotto a Vincenzo Consolo, Maurizio Costanzo, Erri De Luca, Federico Moccia, Susanna Tamaro, Marcello Veneziani e Renato Zero – fanno da “tutor” ai detenuti sostenendoli nella stesura dei loro testi, tutti di grande impatto emotivo pur nella varietà dei toni, dalla tenerezza alle più crude storie di vita

Recensione di Barbara Grubissa

“Chi non conosce o non sopporta la solitudine, non ha nessuna possibilità di diventare scrittore” scrive Lidia Ravera nell’introduzione di uno dei venti racconti che compongono questo libro. E la solitudine conoscono bene gli autori dei testi: detenuti e detenute che hanno partecipato a un concorso letterario dedicato a Goliarda Sapienza.

Volete sapere chi sono io?, uscito il 15 marzo 2011 per i torchi Mondadori , a cura di Antonella Bolelli Ferrera, è una raccolta di racconti scritti da carcerati e rivisti, corretti e introdotti da scrittori e personaggi famosi, fra i quali: Susanna Tamaro, Sandra Petrignani, Erri De Luca, Maurizio Costanzo, Federico Moccia e molti altri.

La solitudine, il senso di colpa, le campagne di prevenzione al suicidio che si effettuano all’interno del carcere, sono gli argomenti ricorrenti in questi testi e tutti convergono verso un tema principale: la gestione del tempo. Renato Zero, artista da sempre sensibile ai temi sociali ben riassume il senso del libro: ci sono infiniti modi di utilizzare il tempo, “ma a volte è sufficiente che un’esile penna abbia voglia di assecondarci e d’incanto non siamo più soli. […]Un uomo previdente dovrebbe tenere sempre una penna nel taschino. Non si sa mai a qualcuno venisse in mente di spegnere la nostra speranza.”

Tra i venti racconti della raccolta ne segnalo e commento uno che ha piena attinenza con l’argomento “salute mentale”: La notte perenne di Pietropaolo Chiuchini; con introduzione ed editing di Marcello Veneziani.

Pietropaolo ha avuto l’ergastolo per duplice omicidio e ci racconta con un linguaggio crudo, denso di metafore e di vocaboli gergali la sua storia e quella dei suoi amici. Pietropaolo da giovane era borderline, si autodefinisce “pazzo senza metafora” e con immagini efficaci ci narra le sue giovanili esperienze di droga, la sua vita allo sbando “senza progettualità, né scelte, né i normali paradigmi a cui un ragazzo aveva etico diritto”. Accenna con nostalgia a molti suoi compagni d’avventura finiti nell’ OPG di Aversa e affronta il tema delicato della “possibilità di riscatto”. Ferma e sicura la sua opinione: il carcere è il “luogo fisico della libertà negata”. Che ruolo ha la scrittura in tutto ciò? Raccontarsi aiuta a esorcizzare, ha un potere catartico e liberatorio e riesce a far sì che l’autore esterni e affronti un tema delicatissimo: la paura del suicidio. Anche se “ognuno si è poi mostrato per ciò che era al di là della lirica del narrare” e per la bruttura del carcere e per la privazione della libertà “ si rischia di cadere giù e dopo un po’ pregare che arrivi un suolo”.

Massimo Carlotto, altra firma importante che affianca uno dei detenuti, riassume bene l’importanza di superare la solitudine esistenziale tramite lo scrivere. Le dinamiche dell’istituzione totale, secondo il famoso autore di gialli, “cancellano ogni spazio per l’espressione di sentimenti veri, reali, in grado di permettere agli individui di riflettere sulla propria esistenza in maniera positiva.” Raccontare il proprio passato e permettere ad un’altra persona di rielaborare, rivedere e riscrivere il proprio scritto, come è stato fatto in questo progetto editoriale, aiuta a scandire il tempo e, come ben sintetizza uno dei detenuti, a sopportare “un luogo dove l’amore è proibito”.

2 Comments

  1. pino giuffrida

    L’articolo di Barbara Grubissa è molto chiaro–di effetto–ben descrittivo . I problemi sono enormi -tanti- troppi. Sempre più tremendi. La depressione che ti porta ad essere sempre più soli. La paura che ti attanaglia. I sensi di colpa che non ti abbandona. Siamo tutti , o quasi ,carcerati ,non significa solo per chi hà commesso dei Gravissimi Crimini -per considerarsi dei detenuti. Le ” sbarre ” dovrebbero spaventarti , farti riflettere , farti comprendere ,che la vita è una continua lotta -lotta-lotta Si vive -si sopravvive si cerca Un Senso Della Vita . Ma quando forse avrai compreso un po il senso della vita-bisogna morire. C’è tanto controsenso. Ma così è La Vita. Ci affanniamo . Ma!!!!!!!!!!

  2. antonella sgubbi

    penso che i carcerati con grossi problemi alle spalle,vengano portati a suicidarsi proprio per il modo in cui vengono trattati e per l’ambiente chiuso che offre poca speranza.Menomale che ci sono questi progetti che riescono a fare in modo che chi è rinchiuso possa esprimersi e raccontare le proprie storie.
    Complimenti all’autrice dell’articolo,come sempre riescie a essere chiara e diretta.

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