Frequentavo la scuola elementare quando la maestra mostrava in classe al prete il mio diario “segreto”, dove scrivevo di mio papà. E frequentavo la prima magistrale quando passavo metà della notte, dalle 4 in avanti, seduta ai piedi del letto dei miei: mio padre a quell’ora regolarmente si svegliava e iniziava ad urlare. Non so se fossero incubi o allucinazioni: so che riviveva la ritirata e gli assalti sul fronte greco-albanese all’arma bianca perché non avevano più nulla, tanto meno munizioni, la traversata del Devoli in piena a dicembre, il capitano nascosto nella grotta mentre i suoi soldati erano sotto a farsi ammazzare e lui che saliva a prenderlo perché scendesse con loro…

Ma soprattutto riviveva l’ingiustizia di sette anni, quelli che sarebbero dovuti essere i migliori della vita, persi tra pre-militare militare e guerra, l’ingiustizia di dover ammazzare qualcuno che non gli aveva fatto nulla solo perché portava un’altra divisa, l’insensatezza e la prepotenza del regime fascista che aveva preteso “d’andare a comandare in casa degli altri”.

Imparai la storia e la geografia dalle sue urla, oggi direi dalla sua disperazione. Mia madre stava seduta irrigidita, incapace di muovere un dito, con gli occhi sbarrati e allucinati, mite agnello sacrificale: sapevo che se ci fossi stata io la rabbia di mio padre non avrebbe superato il confine delle urla.

Piansi in quel periodo tutte le mie lacrime, ma gli volevo bene e sentivo “sapevo” che anche lui era una vittima e non un carnefice.

Tutto questo ovviamente avveniva nel vuoto più assoluto: tutti, dai parenti ai vicini, lo temevano e giravano al largo dalla famiglia appestata.

Mia madre si era rivolta a più riprese al medico “della mutua”, come si diceva allora, perché era impossibile continuare così: bisognava pensare a un ricovero…

Ma il medico aveva risposto di non contare su di lui, perché mio padre era uno di quei tipi che, appena usciti dal manicomio, prima ammazzano la moglie e poi il medico. In compenso lui contava su di noi, come su tutti i suoi pazienti: quando si andava da lui, anche per una semplice ricetta, faceva cadere nella scatoletta che teneva nel primo cassettino aperto in alto della scrivania la moneta che ciascuno portava. Con quei soldi, qualcuno dirà poi, si era costruito la casa…

Ma poiché mio padre stava sempre più male, mia madre si rivolse all’unico altro medico, appena laureato, che conosceva per via del suo lavoro di guardarobiera presso una famiglia facoltosa.

Bisognava avere questo certificato che dichiarava che “era pericoloso per sé e per gli altri” e ricorrere a un ricovero coatto. Penso ce lo avesse fatto lui. So che passai con lei un intero pomeriggio e sera ad aspettare non so cosa nella sala d’attesa, mi pare, del comando dei carabinieri: una più stranita dell’altra.

Da scuola tornavo sempre a piedi e il giorno successivo mi vedo venire incontro con il motorino un mio vicino, per accompagnarmi a casa. Ma io rifiuto sapendo che mio padre non voleva.

Dopo cinquecento metri capisco il perché: quando si era presentata l’ambulanza per il ricovero coatto, era saltato dal terrazzo, dal secondo piano dove abitavamo.

Si era allontanato di cinquanta metri e stava seduto sul muricciolo che delimitava un campo.

Andai da lui: stava lì solo come un cane. Si era fratturato un calcagno nella caduta; non gli era successo altro perché “gli avevano insegnato a militare come saltare”.

Non ricordo altro. So solo che per quasi un anno tutte le domeniche e feste comandate io, mia sorella minore e mia mamma facevamo quasi due ore di autobus, gelido d’inverno, dentro e fuori dai paesi, per percorrere i trenta chilometri che distava il manicomio di San Martino a Como.

Anzi l’ospedale psichiatrico, come ci fu detto da un onorevole: si deve dire ospedale psichiatrico e non manicomio. Questo era il massimo del cambiamento all’alba degli anni ’60 in questo territorio.

Ricordo due sole cose belle del manicomio, appunto: il parco curatissimo e la raccolta di pipe di radica che il direttore teneva alle sue spalle nello studio. L’altro ricordo è il vociare degli uomini nel padiglione in cui avvenivano le visite nei periodi freddi, un vero girone infernale.

Tutte le domeniche una puntata andava fatta dal direttore, per chiedere notizie e mia madre mi pregava che andassi io, perché “magari a te dice qualcos’altro”.

Ricordo il corridoio scuro in cui aspettavo d’essere ricevuta, stretta al muro, visto che non c’era altro o altri che mi sorreggesse.

Il direttore era fresco di nomina: giovane, capelli biondi ricci, elegante sotto il camice bianco (d’altronde non ci voleva molto ad apparirmi elegante una persona, visto che mia madre ci cuciva allargava allungava e rivoltava tutto), immobile come un budda dietro alla sua scrivania.

Parlava senza alcuna espressione, né di simpatia né di fastidio.” Suo padre è affetto da… (ho rimosso il termine medico e per quanto mi sia sforzata in seguito non l’ho più recuperato), cioè da mania di persecuzione e da questa non si guarisce più”.

Non so quante volte andai e ogni volta era la copia della precedente.

Tanti anni dopo mi sono chiesta a che erano serviti duemila e più anni di cultura medica occidentale e anni d’università, se un primario non era capace di un minimo di umanità nei confronti di una ragazzina spaventata che andava da sola a chiedere notizie del padre. Quando mi viene da pensarci anche ora, a distanza di mezzo secolo, mi prende tanta rabbia. O forse pensava che pure noi fossimo delle povere deficienti, e quindi non valeva la pena sprecarsi. E in effetti lo eravamo.

Ora però mi chiedo non solo di che cultura medica fosse portatore, ma anche che cosa capisse lui della vita, se l’unica cosa che sapesse trovare da dire di un uomo, che era tornato dalla guerra su un treno ospedale, minato nel corpo e nell’animo, fosse che era “malato di persecuzione”. Francamente oggi mi vien da dire che noi eravamo senz’altro delle poverette, ma lui?

Non ricordo invece il vecchio direttore, quello che aveva accolto mio padre all’arrivo, e aveva detto a mia madre: “Signora, sapesse quanti ce ne sono qui di uomini tornati dalla guerra che uno dice: beati i morti”.

E, siccome non era guaribile, gli furono fatti tanti elettrochoc, il massimo che potesse sopportare, e fu mandato in coma insulinico non so quante volte…

Alla fine, dopo quasi un anno, tornò a casa. 

E continuammo ad essere soli. 

Ma, con buona pace del nostro medico, non ammazzò nessuno, perché era un uomo pacifico, travolto da avvenimenti più grandi di lui: il fascismo, la guerra, l’ingiustizia. E con lui la sua famiglia. Noi.

Ma la guerra e questa “buona prassi medica” (che qualcuno oggi tanto rimpiange e vorrebbe far tornare), fatta di “violenza terapeutica”, assoluta incapacità di capire, mancanza di umanità e solitudine totale per i disgraziati familiari, lasciò anche tanti altri strascichi nella mia famiglia.

Ma qui mettiamo un bel punto.

Che mi salvò fu il 68’, la forza dell’utopia, il “ribellarsi è giusto”, l’incontro con donne di paesi del Sud del mondo che in contesti difficilissimi riescono a condurre avanti assieme progetti di vita e di cambiamento. Ho scelto di appartenere a loro.

Ma devo tanto anche a Basaglia e agli altri che in quegli anni e ancora oggi ricercarono e ricercano percorsi di umanità nell’affrontare la follia e il dolore, di chi soffre, di chi è malato e di chi gli è accanto.

Per questo credo non si possa tacere né stare seduti, giovani o vecchi, sani o malati: bisogna continuare su questa strada: coltivare assieme le cinquemila rose del San Giovanni e percorrere le strade aride e cementate della Lombardia.

 

Maria Andreotti

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