di Peppe Dell’Acqua

La ragione necessaria e dunque la motivazione di ogni invio in OPG è, in ultima analisi, il riconoscimento della pericolosità sociale all’atto dell’invio stesso; alla pericolosità sociale presunta, accertata, temuta segue la misura di sicurezza; alla misura di sicurezza consegue l’internamento in opg o in casa di cura e custodia (che è sempre opg); la persistenza della pericolosità è la ragione dell’internamento “senza fine”.

 

Chi conosce un poco le storie e i percorsi delle persone che si trovano internate sa che l’arrivo e la permanenza in opg a seguito di un gesto reato, di qualsiasi natura e spessore, è il più delle volte l’esito dell’assenza dei servizi, del fallimento dei trattamenti e delle misure di sicurezza come la libertà vigilata, l’arresto domiciliare, la semi libertà. Di solito la trasgressione delle misure alternative al carcere e all’opg accade quando si tratta di persone estremamente marginali, senza alcuna rete sociale. In assenza di presa in carico dei servizi sociali, per le dipendenze, per salute mentale.

L’ingresso in opg e/o in casa di cura e custodia è regolato da una folla di articoli del Codice penale e del Codice di procedura penale che offrono, in circostanze diverse al Magistrato (e alle organizzazioni sociali), molteplici vie d’accesso. Conseguenza di questa molteplicità è “l’accumulo” nell’opg di un’ eterogenea popolazione che finisce per essere identificata e omologata nel sempre più incerto contenitore  della pericolosità sociale.

Alla luce della sentenza della Corte Costituzionale n. 139/1982 la persistenza del ricorso alla misura di sicurezza appare in tutta la sua inconsistenza giuridica e disciplinare. La sentenza stabilisce che la pericolosità sociale non può essere definita una volta per tutte, come se fosse un attributo naturale di quella persona e di quella malattia. Deve essere vista come una condizione transitoria; relativizzata, messa in relazione ai contesti, alla presenza di opportunità di cure e di emancipazione in ordine alla disponibilità di risorse e di servizi. E comunque deve essere sempre rivalutata all’atto dell’esecuzione.

La Corte vuole alludere all’arcaismo dell’automatismo dei meccanismi infermità/pericolosità/misura di sicurezza. Vale a dire che le persone benché prosciolte, se non riconosciute (o non più) socialmente pericolose, possono venire dimesse prima del tempo o non essere internate affatto in opg. Ma anche persistendo il giudizio di pericolosità proseguire l’internamento “senza fine”.

In sostanza la pericolosità sociale viene (molto impropriamente) desunta e associata alla “malattia mentale” pregressa, presente o presunta sulla base di immagini della malattia legate a cronicità, ricorsività, processualità; legata all’incontenibile ricorrenza di comportamenti disturbanti, insubordinati, trasgressivi, eccentrici, bizzarri, incontrollabili…O, ancora, per la povertà di reti sociali e relazionali di sostegno, per la carenza o la fragilità dell’offerta dei servizi sociali o sanitari, per la “irriducibilità” di quei comportamenti in schemi rigidi di riconoscimento e di competenze: tossico, matto, delinquente, perverso, povero, disturbatore.

Molte volte la misura di sicurezza (dunque la sottrazione totale della libertà) accade all’interno di un circuito che potrebbe definirsi persistenza del “manicomio diffuso”. Le persone in difficoltà, con disturbo mentale, tossicodipendenza, miserie relazionali, piccola delinquenza, marginalità comunque espressa, conflittualità familiari passino, di tempo in tempo, da un’istituzione all’altra, dal servizio sociale a una cooperativa, a un servizio di salute mentale, al carcere, all’accoglienza caritativa di qualcuno, alla panchina della stazione, all’ospedale e alle cure mediche, alla misura di sicurezza. E ritorno!

Tanto più è complesso il bisogno che la persona esprime, tanto più i passaggi diventano vorticosi. Tanto che  la persona viene “centrifugata” verso la periferia: periferie urbane ma anche periferie dell’inclusione e della preoccupazione sociale. Le persone, in questo passaggio, ricevono di volta in volta risposte diverse. Ognuno dei servizi fa quanto gli compete. Mai la persona viene accolta, presa in carico per la globalità del bisogno che esprime. In molte situazioni l’opg e/o la casa di cura e custodia costituisce il momento drammatico e spesso definitivo di quel percorso.

L’arrivo in opg, paradossalmente, non sconferma la consistenza del “manicomio diffuso”. Lo rafforza come se il manicomio criminale trovasse la sua ragione nel manicomio diffuso e viceversa. L’uno funzionale all’altro.

Se si leggono le motivazioni, le perizie, le risoluzioni che giustificano l’invio e la permanenza delle persone in opg colpisce l’ingenuità(?) di psichiatri e psicologi, poliziotti e carabinieri, assistenti sociali e magistrati che dall’internamento si attendono cure, accudimento, trattamenti. In ogni caso la soluzione del problema.

Come quella bambina che pulisce il ripiano dalle briciole, buttandole per terra, pensando felice di aver fatto pulizia.

 

L’ingresso in opg non si realizza mai al di fuori dei contesti fin qui descritti. L’avvio dell’internamento è sempre motivato dalla pericolosità sociale e dalla presenza o dalla presunzione dell’infermità di mente o di una qualche condizione che a essa viene sempre accostata: da una diagnosi e da una storia istituzionale pregressa (carcere, collegio, comunità terapeutica), da comportamenti devianti o perversi rappresentati come irriducibili o inafferrabili dai servizi sociali e dall’apparato dell’Ordine Pubblico e, ancora, da condizioni di estrema miseria esistenziale ed economica, morale e relazionale. In ogni caso comportamenti devianti o singolari, disturbanti o perversi, accostati alla malattia mentale, agiscono da scambiatori tra questa e il crimine, tra psichiatria e giustizia.

La malattia mentale che oggi si presenta quanto mai insicura nella sua consistenza. Così diventa oggettivamente incerta la definizione di infermità e quanto meno estremamente fragile il suo uso a sostegno alle gravose decisioni del giudice e fragilissimo il conseguente concetto di pericolosità sociale.

Non è possibile per la brevità di questo contributo ricordare i percorsi storici che portano a pericolosità e misura di sicurezza, né, tanto meno, criticare l’assetto (e la filosofia) del codice penale che introduce la misura di sicurezza in quella particolare temperie politica nella prospettiva della “bonifica umana” e della “difesa sociale” con il sostegno “ancillare” e rassicurante di quelle culture psichiatriche e giuridiche. Certamente non si può non ricordare che pericolo sociale e misura di sicurezza hanno a che fare col biodeterminismo lombrosiano[1]. Forse serve anche ricordare che in quegli stessi anni l’incontro di quelle psichiatrie con le culture giuridiche del Reich definirono la vicenda umana dei malati di mente “esistenze senza significato, gusci vuoti, inutile peso per i cittadini sani”. Il progetto T4 che prese corpo da quell’incontro fatale portò allo sterminio di centinaia di migliaia di “malati di mente cronici” e alla prima sperimentazione delle tecniche di sterminio di massa.

Nel campo giuridico penale, al principio dell’erogazione della pena e della punizione, si sostituisce quello del controllo e della difesa sociale. Il Codice Penale assume questi concetti e costruisce il così detto sistema del doppio binario per cui se da una parte alla responsabilità dell’autore del reato corrisponde l’erogazione della pena retributiva, alla sua pericolosità sociale l’applicazione della misura di sicurezza.[2]

 

Le concezioni in merito alla malattia mentale che sostenevano nel 1930 il Codice Penale sono radicalmente mutate. Sono cresciute per qualità e quantità le conoscenze, le metodologie di approccio e di comprensione non più della “malattia mentale” ma della persona che questa esperienza vive. Se lo sviluppo del trattamento farmacologico è stato indubbiamente significativo nel corso degli ultimi 40 anni, di maggior importanza si vanno confermando le modalità di avvicinamento alla persona e presa in carico nelle modalità proprie della salute mentale comunitaria.

Le politiche sanitarie conseguenti a queste mutate visioni hanno prodotto un’evoluzione tumultuosa delle forme e delle organizzazioni dell’assistenza psichiatrica.

La concezione deterministica della malattia mentale è tramontata ovunque (anche se nei fatti persistono pratiche che a questa concezione inconsapevolmente fanno riferimento).

La condizione di disturbo mentale non è più rappresentabile come uno stato incomprensibile, permanente, immutabile, il cui destino è la cronicità, il deterioramento, l’inguaribilità.

E’ sempre più evidente oggi che le persone con disturbo mentale agiscono comportamenti e modalità relazionali in rapporto ai sistemi sociali e ai contesti in cui sono inserite. I modelli che intendono spiegare le cause della malattia mentale vengono chiamati di causalità circolare e multifattoriali. Essi aprono a un orizzonte di comprensione e di possibilità l’esistenza e i destini delle persone affette da disturbo mentale e rendono quanto mai incerto il concetto di pericolosità sociale specie quando lo si voglia accostare alle singole persone che vivono l’esperienza del disturbo mentale.

Tutte le ricerche e le osservazioni che sono state messe in atto nel corso del tempo per trovare elementi oggettivi a giustificazione della possibilità di predire la pericolosità sociale in conseguenza di un disturbo mentale ne hanno dimostrato l’assoluta impraticabilità. Non esistono rapporti certi di corrispondenza tra malattia mentale e pericolosità sociale. Per altro, le persone con disturbo mentale sono poco presenti come autori di reati gravi. Si pensi che nel corso di un anno (soltanto) lo 0,1/0,2% con disturbo schizofrenico incorre in una qualsiasi sanzione[3] (in genere di bassissimo allarme) per aver commesso azioni penalmente rilevanti. Come dire che in una città con 600.000 abitanti (tante sono in Italia le persone con disturbo schizofrenico) 700 persone all’anno potrebbero avere “bisogno” di un giudice. Verrebbe da pensare che se fossimo tutti “schizofrenici”…  

Una corposa e metodologicamente rigorosa ricerca condotta negli Stati Uniti tra il 2001 e il 2009, nell’Università del North Carolina[4] ha preso in esame ben 35.000 cittadini americani valutando nel corso degli anni, prima e dopo, la presenza di un disturbo mentale e di eventuali reati commessi. Gli autori della ricerca hanno concluso: “I nostri risultati mettono in discussione la percezione diffusa che la malattia mentale sia una causa principale di comportamenti violenti”. Il risultato cui sono giunti è che il disturbo mentale, anche severo, non è mai associato a futuri atti violenti, i quali sono determinati piuttosto dalla storia individuale della persona, dalla condizione sociale ed economica e da altri fattori contestuali come un divorzio, una separazione o la perdita del lavoro”.

Un’analoga ricerca, condotta in Inghilterra nel 2002[5], ha dimostrato che il contributo dei disturbi mentali severi alla violenza che si riscontra nelle organizzazioni sociali è molto basso. I ricercatori concludono che non è più appropriato, oggi, che le leggi e le politiche sociali siano determinate più dalla preoccupazione per la pericolosità sociale che dalla necessità di disporre risorse e trattamenti terapeutici e riabilitativi efficaci nella comunità.

 

Nella pratica e nel contesto italiano queste conclusioni permettono di dire che le modalità di affrontamento della sofferenza e del disagio individuale che alcune Regioni mettono in atto, si muovono nella corretta direzione. Mi riferisco qui alla modalità della presa in carico, da parte dei servizi di salute mentale, e del progetto terapeutico riabilitativo individuale (Budget di Salute). In alternativa all’internamento le organizzazioni socio sanitarie locali, i Dipartimenti di salute mentale, possono mettere a disposizione una risorsa economica, mediamente dai 3.000 ai 5.000 € mensili, per il tempo da uno a 3 anni per costruire un progetto individualizzato, condiviso e condotto dal servizio di salute mentale, da cooperative sociali, da associazioni. La scelta “di disporre risorse e trattamenti terapeutici e riabilitativi efficaci nella comunità” (leggi: centri di salute mentale H24, presenza in carcere degli operatori dei servizi e investimento di risorse economiche, professionali e umane in un progetto riabilitativo individuale) è la ragione della significativa differenza tra le regioni nel ricorso all’opg. Se mediamente su 100.000 cittadini italiani, 2 sono internati in opg, ci sono regioni che arrivano a 4, il doppio, e regioni che stanno intorno alla metà. La Regione Friuli Venezia Giulia, con un sistema di servizi articolato nei termini che prima ho tratteggiato, si attesta sul tasso più basso: 0,65 ogni 100.000 abitanti. Trieste, la citta dove lavoro, da 4 anni non “usa” l’opg.

 

D’altra parte è evidente a chi osserva con più attenzione che la maggior parte delle persone riconosciute socialmente pericolose hanno a che vedere con comportamenti devianti e condotte asociali che forzatamente vengono accostati al disturbo mentale.

Gli strumenti e le metodologie finora utilizzate per predire il comportamento del “malato di mente” autore del reato si sono rivelati imprecisi, assolutamente inadeguati e hanno preventivato pericolosità sociali (e carriere istituzionali) in eccesso piuttosto che in difetto.

Spesso è la gravità dell’evento e l’emozione che suscita il gesto reato, l’efferatezza, la riprovazione sociale, i precedenti penali, gli atteggiamenti sgradevoli, irrispettosi, bizzari, anomali che assumono significato nella valutazione e dunque spostano la questione nel campo della malattia mentale, del rischio, della pericolosità e infine nell’ineluttabilità della misura di sicurezza.

Se si ha la pazienza di valutare le motivazioni delle proroghe che succedono al riesame, si scoprirà che la predizione del rischio viene addebitata in toto al “malato di mente”, come egli è in quella circostanza istituzionale così particolare, trascurando i fattori di rischio (e protettivi) socio ambientali e culturali che hanno parte preponderante nel sostenere i comportamenti, le relazioni, l’esperienze delle persone. Oppure dando valore assoluto all’assenza o fragilità di questi fattori – “siamo in presenza di un disturbo delirante”, “il servizio non ha strumenti per farvi fronte”, “non esiste una comunità terapeutica idonea ad assumere questo carico” – dunque: la persona è pericolosa.

Nelle numerose situazioni, come quelle sinteticamente citate, come si vede viene sottovalutato o ignorato l’aspetto dinamico, relazionale ed evolutivo del disturbo mentale, come se la staticità, la persistenza e l’immutabilità del disturbo mentale stesso fosse l’oggetto.

Tutti i giudizi di pericolosità, infine, sono conseguenti a un gesto reato, a un passaggio all’atto e non a un disturbo mentale. Se il gesto reato non vi fosse stato quella stessa persona, con lo stesso disturbo mentale, non sarebbe stato definito socialmente pericoloso. Non avrebbe perduto per sempre il suo diritto di essere cittadino ancorchè matto, infermo di mente, disturbato, psicolabile, ecc. ecc.

Non avrebbe perduto il suo passaporto.

Ha scritto Susan Sontag:  “La malattia è il lato più oscuro della vita, una cittadinanza gravosa. Tutti noi che siamo nati abbiamo una doppia cittadinanza: nel regno dei sani ma anche nel regno dei malati. E anche se tutti preferiremmo usare il passaporto buono, prima o poi ognuno è costretto a diventare, almeno per poco, cittadino dell’altro regno”.

Per pochissimo e per carità senza riesami, perizie e proroghe senza fine.

 


[1] Francesco Migliorino: Il corpo come testo. Storie del diritto, Bollati Boringhieri, Torino 2008, pag. 128 e segg., sull’origine del manicomio criminale

[2] Ugo Fornari “Psicopatologia e psichiatria forense”, UTET Torino, 1989, pag. 62, 63

[3] Elizabeth Walsh e Thomas Fahy, “Violence in society – Contribution of mental illness is low”, British Medical Journal, vol. 3257, settembre 2002

 

[4] Eric Elbogen e Sally Johnson, “The Intricate Link Between Violence and Mental Disorder”,  Archives of General Psichiatry, 2009

[5] Elizabeth Walsh e Thomas Fahy, già citata.

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