copertinaAlessia de Stefano, psichiatra, referente romana del Forum Salute Mentale, facendo un trasloco ha fatto un prezioso ritrovamento. Tra gli scatoloni è infatti riapparso il dodicesimo numero dell’Espresso, uscito il 12 marzo 1971 e contenente il Dizionario della Nuova Psichiatria: Noi Matti, documento curato da Franco e Franca Basaglia.

Seppure alcune definizioni risultino certamente superate, quella che riproponiamo è una pubblicazione integrale, in dieci puntate estive. Iniziamo oggi con l’introduzione alla ricerca.

Il 12 febbraio scorso, dopo due anni e mezzo di indagini, il pubblico ministero ha chiesto al giudice istruttore del tribunale di Gorizia l’incriminazione di Franco Basaglia, il più famoso psichiatra italiano, anzi un papa dell’antipsichiatria europea, come lo ha definito, inpropriamente [sic], Le Monde. Se il giudice accetterà le argomentazioni del pubblico ministero, il professor Basaglia sarà processato, insieme con uno dei suoi più diretti collaboratori, il dottor Antonio Slavich, per omicidio colposo. L’omicidio è stato materialmente compiuto da un uomo dimesso per esperimento dal manicomio di Gorizia. Ma l’uomo, sostiene il pubblico ministero, era matto: la responsabilità del suo gesto (ha ammazzato la moglie a colpi di scure) ricade su chi lo ha fatto uscire, «ponendo in oblio i dettami della scienza», come c’è scritto nella requisitoria. E a farlo uscire è stato Basaglia, che allora dirigeva il manicomio, in complicità con lo Slavich.

La richiesta di incriminazione riguarda perciò non tanto la persona di Franco Basaglia quanto le denunce da lui formulate e le proposte da lui avanzate in anni di continua ricerca e di rigorosa sperimentazione. Se si arriverà al processo, insomma, si arriverà di nuovo a un processo sostanzialmente ideologico, politico.

Da circa un decennio la denuncia delle violenze, degli inganni e delle contraddittorietà del nostro sistema manicomiale e insieme la proposta di una sua radicale trasformazione, sono state imposte da Franco Basaglia all’attenzione non solo della scienza medica e psichiatrica ufficiale ma anche e forse soprattutto a quella dei sociologi, dei moralisti e dei politici. Partendo dall’analisi della condizione umana all’interno dei manicomi e dalla ricerca delle cause dell’esclusione dalla società di una percentuale sempre più alta di cittadini, la polemica condotta da Franco Basaglia ha presto coinvolto tutte le istituzioni del mondo contemporaneo, con una insistenza particolare su quelle del nostro paese.

Per questo un eventuale processo contro Franco Basaglia finirà col coinvolgerci tutti. Il problema, è chiaro, non è più quello della vicenda personale di un matto uxoricida. Anzi, non lo è mai stato. Non per nulla, all’inizio della lunga istruttoria, il pubblico ministero aveva chiesto una perizia che decidesse sulla liceità scientifica degli esperimenti avviati da Basaglia nel manicomio di Gorizia; non per nulla nessun perito ha accettato l’impossibile incarico. Gli esperimenti di Basaglia, presi in sé, sono vecchi quanto la psichiatria: discuterne la liceità scientifica sarebbe come discutere la luce del giorno. Tant’è che da decenni in tutti i manicomi si sono sempre dimessi i matti e che sempre si sono verificati incidenti senza che per questo nessun direttore di manicomio venisse mai incriminato. Come nessuno ha mai incriminato uno psichiatra per le violenze esercitate sui pazzi all’interno dei manicomi.

A rendere sospetti gli esperimenti di Basaglia sono semmai altre cose, quelle che egli denuncia prima e propone dopo l’esperimento: l’analisi delle cause per cui un uomo diventa matto, la ricerca dei mezzi per imporre alla società di riprenderselo.

Ecco: se si arriverà al processo sarà per discutere di queste cose, non di un tragico incidente banale nella sua meccanica; e neppure di un conflitto scientifico fra scuole diverse, che non esiste.

Per questo, mentre nelle librerie compare un suo nuovo saggio scientifico, La maggioranza demente, L’Espresso è lieto di poter offrire in esclusiva ai propri lettori l’ultimo lavoro di Franco Basaglia. È un dizionario sociale della psichiatria che egli aveva scritto, come sempre in collaborazione con la moglie, su nostra richiesta e che sarebbe già uscito da qualche settimana se lo sciopero dei poligrafici non ne avesse tardato la pubblicazione. Ma, essendo nel frattempo venuta la richiesta di incriminazione, il ritardo forse giova a rendere più comprensibile l’organicità del documento e a coglierne intera la provocazione, anche sotto i passi più impegnativi quanto a linguaggio e a riferimenti scientifici.

Questa ricerca

Questo abbozzo di dizionario della psichiatria vuole essere un’analisi critica della psichiatria come branca della medicina, e delle condizioni pratiche in cui si trovano ad agire i tecnici di questo settore specifico. Ciò che importa rilevare (e il discorso risulta di una tale ovvietà che lo si deve puntualizzare perché la realtà possa essere riscoperta in tutta la sua violenza) è che anche nel campo della salute si ripropone il meccanismo del privilegio: l’uomo nasce, si ammala e muore con le prerogative della propria classe. Nascere, ammalarsi e morire diventano tappe solo apparentemente comuni nella vita dell’uomo; mentre l’elemento determinante nello svolgersi di un carriera umana o di un’altra è sempre l’appartenenza alla categoria del privilegio o la sua esclusione.

Se è vero che nella nostra società si tende a livellare tutte le esperienze ad un unico comportamento comune socialmente controllabile, è anche vero che, al nostro attuale livello di sviluppo socio-economico, solo la classe privilegiata può permettersi di gestire in proprio la propria vita, la propria salute e la propria malattia, vivendole come proprie esperienze. Il potere contrattuale fra chi dà e chi riceve, anche se si tratta della prestazione di un servizio sanitario, è ciò che determina il modo di svolgersi di ogni esperienza e, quindi, ciò che determina ogni carriera umana: il pagante, il mutuato, il povero assistito dal comune hanno, nella malattia, carriere diverse che portano a evoluzioni spesso diverse della malattia stessa, e non solo in psichiatria. La malattia non è dunque un valore negativo assoluto, ma è sempre relativa al potere contrattuale del malato rispetto ai servizi che dovrebbero occuparsi di lui.

Il principale obiettivo della lotta contro le istituzioni psichiatriche, sviluppatasi in questi ultimi anni in Italia, consiste dunque nel denunciare il carattere della psichiatria come ideologia: cioè nel rivelare la sua funzione discriminatoria e classista, rivolta a fornire una copertura scientifica a delle contraddizioni sociali spesso estranee alla malattia.

Ma se la psichiatria si è rivelata un’ideologia, è possibile accettare la medicina, di cui la psichiatria fa parte, come scienza neutrale, accontentandosi di inserire in questo contesto il malato mentale che finalmente sarà trattato come tale e curato? Il passo successivo dovrà essere l’individuazione pratica della medicina come ideologia, attraverso l’analisi del suo metodo basato esclusivamente sulla terapia dall’alto. Esso si fonda infatti sulla radicale contraddizione fra salute e malattia, dove la salute è ritenuta un valore assoluto, mentre la malattia un accidente oggettivabile dalla scienza. In questo processo di oggettivazione il malato si separa dalla propria malattia (quindi dal proprio corpo) ed è costretto a delegare al medico la difesa dalla malattia e quindi dal suo corpo stesso. Si ripropone in questo senso in medicina il processo di alienazione da sé e dalle proprie esperienze che favorisce lo sfruttamento e il dominio sull’uomo.

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