Di Salvatore Marzolo

Nel buio, un falò

Proverò attraverso le questioni, le contraddizioni, gli interventi raccolti durante la pratica clinica ad aprire tagli critici nel mio lavoro psichiatrico quotidiano. I vissuti a esso correlati infatti spesso rimangono non elaborati, non digeriti, per le loro valenze angoscianti e traumatiche e l’assenza di spazi di pensabilità. Ho scelto di selezionare due storie, tra le molte che rimangono appiccicate addosso, incontrate nel lavoro quotidiano e molto diverse tra di loro. Spero possano aiutarci in questa nostra breve incursione nel buio e rimango in attesa di un falò rinnovato per poterne discutere insieme, ancora una volta.

Salvatore è là ma non si trova

Chiama il pronto soccorso per una consulenza, agitazione psicomotoria, anonima solita agitazione psicomotoria. Aspettiamo la macchina del servizio che tarda a venire e ci muoviamo. In pronto soccorso attraversiamo l’intero corridoio pieno di barelle e esistenze impantanate: signori anziani lasciati soli con flebo e cateteri, ragazzi giovani che si guardano intorno aspettando un’altra consulenza chirurgica, donne con occhi lividi, rianimatori, corse, urla. I corridoi sono un labirinto infiammato e noi cerchiamo il nostro filo di Arianna che ci conduca verso la fantomatica “agitazione psicomotoria”. Appena ci vedono da lontano i colleghi medici che ci hanno chiamato in consulenza ci rispondono tra lo scocciato e il contento “ecco gli psichiatri, è là”. 

Nessuna notizia anamnestica, nessun familiare ad accompagnare o a portare un pezzo di storia, nessun filo insomma, sappiamo soltanto che è là. E questo ci deve bastare. Anche per oggi.

Ci barcameniamo allora tra i corpi sofferenti dei pazienti e degli operatori che vanno avanti e indietro con provette, richieste per i laboratori, garze per i punti, e alla fine forse lo troviamo, o almeno così sembra. È in un angolo distante dagli altri degenti, senza una scarpa, legato ai polsi e alle caviglie alla meno peggio, con una bombola d’ossigeno poggiata tra le gambe, la pancia parzialmente scoperta, russa sonoramente, sedato.  Mi avvicino per vedere se respira almeno, gli tocco la spalla. È altrove. È là, ma non c’è. 

I colleghi del 118 sanno dirci soltanto che sembra stesse disturbando da qualche giorno al commissariato di polizia per avere il reddito di cittadinanza che gli avevano interrotto. Proviamo a capire almeno il nome di quel corpo crocifisso. Il collega del servizio territoriale che lo segue non sa darci notizie sulla terapia e sulla sua condizione psicopatologica. L’assistente sociale, allo stesso modo, sembra non conoscerlo da come ne parla. Non ha familiari raggiungibili, una sorella è “chiusa” in una comunità riabilitativa da molti anni. 

Ci siamo noi e lui, siamo tutti là, apparentemente senza scampo.

Ripercorro con la memoria la risposta che Basaglia da in una conferenza del 18 giugno a San Paolo, “avevamo già capito che un individuo malato ha come prima necessità non solo la cura della malattia ma molte altre cose: ha bisogno di un rapporto umano con chi lo cura, ha bisogno di risposte reali per il suo essere, ha bisogno di denaro, di una famiglia e di tutto ciò di cui anche noi medici che lo curiamo abbiamo bisogno. Questa è la nostra scoperta. Il malato non è solamente un malato ma un uomo con tutte le sue necessità”. 

E ancora nel saggio “l’esclusione come categoria socio-psichiatrica” raccolto nell’Utopia della Realtà, continua dicendo: “il malato mentale è un escluso che, in una società come l’attuale, non potrà mai opporsi a chi lo esclude, perché ogni suo atto è ormai circoscritto e definito dalla malattia”.

Quando sono state scritte queste considerazioni mi chiedo? Ieri? Oggi? Domani?

Provo ad allargare la prospettiva per non rimanere sullo scacco matto, per rendermi più lieve l’angoscia. Provo a farlo almeno per un attimo, per non rimanere legato anche io alla bugia dell’emergenza, dell’” è successo all’ improvviso”. 

Mi chiedo chi ho davanti?  Chi è che è contenuto meccanicamente e farmacologicamente? È solo lui, e solo ora, o le fascette sono solo quello che si vede di un internamento e una segregazione invisibile, microfisica? E noi operatori di fronte a un corpo senza nome e senza storia, senza scarpe o giaccone per il freddo, senza alcun appiglio alla sua rete, ove mai se ne fosse costruita una intorno; incastrati tra il mandato custodialistico e il desiderio del prendersi cura? E i colleghi del pronto soccorso immersi in una società estremamente medicalizzata, sommersi da nuovi ingressi da visitare, consulenze da chiamare, infarti e politraumi, posti letto da trovare? E il paese di provincia, lontano dalla città, vissuto nello smantellamento dei servizi territoriali a scapito del privato privato o del privato convenzionato? E le istituzioni, come stanno oggi, ora le istituzioni all’interno delle quali ci muoviamo e operiamo? Come sta la famiglia, il gruppo di amici, le piazze socializzanti, la scuola, il mondo del lavoro? Come sta l’ospedale, la medicina? Che ne abbiamo fatto di loro, che ne hanno fatto di noi?

Insomma chi contiene chi? 

Che fare in tutto ciò, che posizione prendere. 

Quando abbiamo perso la fiducia e la creatività di inventare istituzioni creative? Ma forse esagero, esistono istituzioni creative? Sono pensabili o ripensabili oggi?

Risognare Susy, al di là del problema della gestione:

Ma allora, “Cosa possiamo dire? Tutto è finito, chiudiamo il libro e torniamo a casa? No, io penso che se noi siamo dei buoni militanti, dobbiamo approfondire la logica di questa falsa dialettica e se non facciamo questa operazione spereremo sempre in qualcosa che non arriverà mai. Non credo che una persona malata possa vivere in questa società, perché questa società la uccide”.

Dopo un TSO Susy ha deciso che non voleva essere più seguita dal nostro Centro di Salute Mentale. Ha circa 40 anni, appassionata di danze popolari e artigianato, rimane sfiorita, senza più affacci sul mondo e le persone che lo abitano, segregata in casa con due genitori anziani e sempre più appesantiti e stanchi di questa situazione rimasta sospesa, inesplicabile. Sono i genitori a rivolgersi di nuovo al servizio per chiedere aiuto. Susy infatti inizialmente non è d’accordo a ricevere nessun intervento che la riguardi, e al CSM non vuole più venire. Si organizza pertanto all’interno del CSM una riunione di equipe dove emergono molte contraddizioni e visioni divergenti tra gli operatori. Alcuni hanno perso le speranze per la sua storia, ad altri è completamente indifferente, altri ancora, i più giovani forse (e non intendo anagraficamente) vorrebbero ancora provarci, provarci ancora a sfidare il paradigma della cronicità, dell’“ormai è così”. “Fino ad oggi a Susy è stato proposto soltanto un supporto farmacologico”, qualcuno ricorda e quindi pensa che si può ancora provare qualcosa. La richiesta di aiuto dei genitori non rimane quindi inascoltata e in accordo con il direttore del CSM si costruisce una team multiprofessionale costituita da una collega tecnico della riabilitazione, un’infermiera, e io un giovane psichiatra per programmare degli incontri familiari settimanali. Questi incontri però si propongono fin da subito di non essere soltanto finalizzati a fornire chiarimenti in merito alla terapia farmacologica o ad addestrare la famiglia a tecniche codificate di comunicazione efficace o problem solving. Il team, e il servizio tutto, insieme alla famiglia e all’utente, si propone infatti un obiettivo più ambizioso che riassumo in quest’altro ritaglio dalle Conferenze Brasiliane, “solo se la psichiatria riesce a sfuggire a questo circolo infernale e comincia a smettere di essere psichiatria e a diventare vita, relazione, può cominciare a prendere forma il tentativo di costruire una nuova scienza dell’uomo, un nuovo umanesimo”. E la vita non solo può essere esclusivamente gestita, addestrata o somministrata, essa sgorga incessante nel e dall’incontro.

Per non cadere in quella trappola già descritta da Basaglia quando diceva che “oggi la grande nouvelle vague della salute mentale è che non si deve curare ma prevenire la malattia, ovvero creare un novero infinito di operatori per controllare la vita sociale. Prevenire la malattia in generale e non solamente la follia è molto importante ma il problema è che questa prevenzione ha come solo riferimento la produttività, il modo di produzione”. Oggi diremmo il funzionamento.

Come fare allora oggi, per resistere al “potere che tutto riprende”, al fatto che “aprire il manicomio non vuol dire nulla. Lo si può fare senza problemi in modo burocratico”? Come resistere cioè a ridurre la psichiatria a una scienza di gestione della follia, di natura esclusivamente manageriale (che ovviamente è una competenza necessaria, ma non può rimanere esclusiva) ma rilanciare su una psichiatria che sappia tenere conto nel suo operare delle dimensioni antropologiche, filosofiche, poetiche, oltre che biologiche, sociali, per risignificare/ risognare la sofferenza di ciascuno di noi uomini e donne e non soltanto gestirla, renderla produttiva? Come riuscire a rimanere vigili ed impedire che “questa minoranza catturata, può diventare la nuova maggioranza riciclata?”

Concludo riprendendo un altro frammento delle Conferenze Brasiliane in cui Basaglia afferma che “la testimonianza è fondamentale”. E ancora di più oggi è importante che le testimonianze che si sono prodotte in tutti questi anni di territorio vengano raccolte e messe in rete, e serve raccogliere sia quelle di chi sta al primo banco sia quelle di chi da sempre è rimandato a settembre. “Perché ognuno ha provato a fare qualcosa di quello che gli altri hanno fatto di lui”, così l’utente così l’operatore. È questa libertà, in ogni caso, non deve passare inosservata, non deve perdersi per conservare tutto il suo valore rivoluzionario di memoria e prassi quantomeno tentata.