casettoDi Giovanna Del Giudice, portavoce Campagna nazionale …e tu slegalo subito

È passato un anno e mezzo dalla morte di Elena Casetto. Il 13 agosto 2019, nel Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura dell’ospedale Giovanni XXIII di Bergamo, Elena, 19 anni, che scriveva poesie, che sognava di studiare a Londra, che chiedeva aiuto per il suo dolore, è morta carbonizzata in un letto, sola, legata mani e piedi, in una stanza chiusa a chiave.

Nei giorni scorsi, si sono concluse le indagini preliminari, istruite dal Sostituto Procuratore della Repubblica del Tribunale di Bergamo dott.ssa Letizia Ruggeri, con il rinvio a giudizio di due addetti della squadra antincendio dell’Azienda Ospedaliera Papa Giovanni XXII, dipendenti da una impresa appaltatrice del pronto intervento antincendio.

Agli atti si legge che i due uomini vengono indagati del reato di cui all’art.113, 449 c.p., perché «cagionavano per colpa l’incendio della stanza di degenza n.4 T7 017, nonché degli arredi e degli impianti in esso presenti. […] Con la conseguenza che il giorno 13 agosto 2029 presso il reparto di Psichiatria menzionato, dopo che il personale aveva provveduto a mettere in essere le procedure di contenzione nei confronti della paziente Casetto Elena, costei dava fuoco al letto e a se stessa con un accendino, facendo attivare l’impianto rilevazione fumi e l’allarme e antincendio.» E altresì gli stessi sono indagati per il reato di cui all’art.113, 589 c.p., in quanto «cagionavano per colpa la morte di Casetto Elena. […] A causa dell’inadeguato (imperito e negligente) intervento degli Addetti Anticendio, l’incendio si propagava oltre al letto sul quale era contenuta Casetto Elena, a tutta la stanza, agli arredi, ai serramenti e al soffitto cagionando il decesso della predetta paziente in seguito all’arresto cardio respiratorio dovuto all’inflazione dei fumi e vapori bollenti e allo shock termico.»

Sconcertante come le indagini preliminari si siano concluse portando a giudizio l’ultimo anello, il più debole, di una catena di responsabilità che hanno portato alla morte di Elena. In qualche modo legittimando tutti i passaggi precedenti.

Quello che sappiamo su questo tragico evento è poco, appreso dalle notizie di stampa, dalle dichiarazioni dell’Azienda ospedaliera di Bergamo e dal rapporto del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà. Ma pure apre squarci impressionanti. Sappiamo che «La paziente deceduta era stata bloccata pochi istanti prima dell’incendio, a causa di un forte stato di agitazione, dall’équipe del reparto.» Nello specifico: la “paziente” era stata legata mani e piedi, fissata al letto con una fascia toracica e sedata, dopo che era stata trovata che tentava il suicidio stringendosi un lenzuolo attorno al collo.

Sembra non possibile, e certamente appare inaccettabile, che operatori della salute mentale possano rispondere alla sofferenza, ad una richiesta di aiuto quale è un tentativo di autosoppressione, con un gesto di negazione e di violenza che toglie all’altro dignità, soggettività e diritto, e che ha portato ad una morte atroce. Invece di accogliere, supportare e farsi carico di quel dolore, dare attenzione, vicinanza, ascolto. La contenzione meccanica, cioè il legare, fissare, bloccare una persona in cura per impedirle il movimento volontario, viola l’art.13 della Costituzione e l’art.15 della Convenzione dei Diritti delle persone con disabilità. Eppure è pratica ancora diffusa nella maggior parte dei sevizi psichiatrici ospedalieri italiani.

Nella sentenza il giudice di Bergamo non sembra volgere uno sguardo su quanto occorso ad Elena prima dell’incendio. Non pare interrogarsi sulla legittimità della contenzione meccanica, neppure dopo la sentenza n. 50497 del 2018, della V Sezione penale della Corte di Cassazione, che conclude il processo sulla morte di Francesco Mastrogiovanni. La Corte afferma che la contenzione meccanica non rientra in nessuna delle categorie che definiscono l’atto medico, «trattandosi di un presidio restrittivo della libertà personale che non ha né una finalità curativa né produce materialmente l’effetto di migliorare le condizioni di salute del paziente» e che al contrario «può concretamente provocare, se non utilizzata con le dovute cautele, lesioni anche gravi all’organismo», fino alla morte.

Non pare interrogarsi sulle modalità con cui la contenzione è stata attuata dal momento che pure ad Elena è stato possibile prendere un accendino e di darsi fuoco. Né sul fatto che legata è stata lasciata sola e che la stanza è stata chiusa a chiave.

Non tiene conto del rapporto del Garante nazione dei diritti delle persone private della libertà che nella lettera del 13 settembre 2019 al Direttore Generale dell’ATS di Bergamo dichiara: «Indipendentemente da valutazioni circa la decisione medica di attuare la contenzione della paziente, che non attengono a questa Autorità garante, resta indiscutibile che [omissis] era al momento privata della sua libertà personale e che è deceduta in tale condizione e, presumibilmente, in conseguenza di tale condizione.» Il Garante nazionale inoltre «rileva, con particolare disappunto, che non è stata osservata la specifica raccomandazione rivolta al personale sanitario relativa al controllo dell’eventuale possesso di accendini o fiammiferi da parte del paziente, prevista nel paragrafo 8 del Protocollo.» Come sottolinea «l’inosservanza della disposizione contenuta nel citato Protocollo in merito alla registrazione dell’applicazione dell’atto contenitivo nei confronti della ragazza nei registri cartacei e informatici che deve essere tempestiva, anche al fine di non far sorgere problemi relativi all’articolo 13 della Costituzione, nonché all’articolo 5 comma 1 lettera e) della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.» Il Garante inoltre «ricorda che tutti gli operatori hanno l’obbligo giuridico di protezione del paziente e pertanto devono contribuire alla verifica delle condizioni di pericolo per l’applicazione della contenzione sia al momento dell’adozione, sia successivamente.»

Pur non condividendo la logica di delega tout court al giudiziario di quanto come tecnici ci riguarda, ma continuando nell’impegno teorico e pratico per una organizzazione e cultura dei servizi che metta al centro i diritti, non possiamo non indignarci per le conclusioni dell’indagine preliminare e chiedere “verità e giustizia” insieme alla madre di Elena e alle associazioni di familiari della salute mentale che tante in Bergamo si sono mobilitate per la sua morte, in modo che tali crimini di pace non si ripetano più.

Il 5 novembre 2020 la Sottosegretaria alla Salute on. Sandra Zampa ha presentato al Tavolo Tecnico sulla Salute Mentale del Ministero il documento “Raccomandazioni per il superamento delle contenzione meccanica nei Dipartimenti di Salute Mentale” con l’obbiettivo del raggiungimento di “contenzione zero” nel prossimo triennio nei servizi della salute mentale, come primo atto per il superamento della contenzione nelle strutture socio sanitarie che accolgono i vecchi e le persone con disabilità. Le Raccomandazioni costituiscono una cornice di carattere generale, uno strumento di indirizzo per il superamento della contenzione da parte delle Regioni e si articolano in azioni che interessano il livello istituzionale, delle persone, dei servizi e della cittadinanza. Guardano quindi al sistema complessivo dei servizi della salute mentale e al paradigma che lo sostiene, ma anche alle culture e ai poteri dei fruitori dei servizi e della comunità.

Riteniamo questo atto estremamente importante e ci auguriamo un sollecito iter istituzionale. Perché non succeda più di morire legati. Perché si curi nel rispetto della dignità e dei diritti, della persona in cura e degli operatori.

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