di Mario Colucci

Nel libro XII dell’Odissea la maga Circe ammonisce Ulisse: se vorrai ascoltare il canto delle Sirene senza essere da loro sedotto e ucciso, dovrai farti legare all’albero maestro dai tuoi compagni dopo aver tappato loro le orecchie con la cera; verrai stregato e ti troverai nella condizione in cui la tua volontà sarà vinta e allora li implorerai di liberarti; per questo devi impegnarli in anticipo a non ascoltare le tue parole, qualsiasi cosa tu dica, anzi a stringere i nodi ancora più forte se chiederai di essere sciolto.

Forse si tratta del primo esempio di “direttive anticipate”, ossia di una di quelle dichiarazioni rilasciate preventivamente a qualcuno che avrà il compito di tutelarci nel momento in cui non saremo più in grado di scegliere in autonomia: tema di scottante attualità sul fronte della bioetica – vedi il dibattito sul cosiddetto “testamento biologico” – che fa riferimento a tutte quelle situazioni nelle quali, a causa di malattia o di traumi improvvisi, la persona perde la capacità di esprimere il proprio consenso o dissenso a un trattamento medico al quale potrebbe essere sottoposta.

Per alcuni, questo accordo potrebbe essere stipulato anche tra il paziente psichiatrico e il medico durante i periodi di remissione sintomatologica di tutti quei disturbi psichici di grado severo che abbiano un andamento ciclico o recidivante. Esso dovrebbe dare al curante precise indicazioni su quali trattamenti e su quali eventuali restrizioni della libertà personale (limitazione della capacità di agire, coercizione del comportamento, ricovero obbligatorio) sia possibile adottare nel momento in cui intervenga una nuova crisi o un periodo di scompenso. È stato chiamato “contratto di Ulisse”:[1]nome suggestivo, non c’è che dire, tanto che il deputato del PdL Carlo Ciccioli, promotore dell’ennesimo tentativo di revisione della legge 180,[2] lo adotta nella sua proposta del 15 gennaio 2009. Il fatto che la denominazione appartenga da tempo alla letteratura psichiatrica anglosassone, non può però esimere da una certa cautela critica, perché questa immagine, ancorché metaforica, si attaglia comunque male a una proposta di legge sulla salute mentale. Con quale spirito, infatti, si può fare riferimento alla storia di un uomo legato e attorniato da persone sorde, in un paese come il nostro dove la psichiatria è dolorosamente segnata dalla presenza di reparti chiusi ospedalieri, i Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura (SPDC), in cui troppi pazienti vengono legati a letto e troppi operatori non prestano ascolto alle loro invocazioni?

Si può poi rilevare che il fatto di sottoporre a direttiva anticipata una condizione di scompenso quale interviene durante un disturbo psichico e di equipararla a situazioni drammatiche di fine vita, ha suscitato perplessità a livello internazionale sin dalla prima formulazione del “contratto di Ulisse”. Nel primo caso si tratta di una condizione temporanea di crisi in cui il soggetto resta comunque capace di esprimere e comunicare una volontà autonoma, altresì nel secondo caso si tratta di stati comatosi o vegetativi persistenti in cui c’è la perdita irreversibile di coscienza da parte del malato.

Affidarsi in psichiatria a un documento preliminare rischia di invalidare il soggetto nel momento della crisi – che invece è da decifrare perché ad alta significatività esistenziale nella storia di vita di una persona – a meno che tale documento non nasca da un percorso delicato e tenace di dialogo, confronto, scambio, negoziazione, che è il lavoro stesso della salute mentale.[3] Nella proposta Ciccioli, invece, si è soltanto interessati a vincolare il malato a un contratto cogente di cura e a sgravare il medico dalla responsabilità di un lavoro di persuasione e ottenimento del consenso terapeutico, lasciandogli le mani libere per un intervento sbrigativo e senza contestazioni.

La cultura che permea lo spirito del legislatore nel presente disegno di legge è chiaramente una cultura medica, interventista e di stampo ospedaliero, in cui le sirene della psichiatria sono quelle delle ambulanze: la malattia è vista nella prospettiva dell’emergenza, attraverso le stimmate dell’evento improvviso e potenzialmente pericoloso, e il malato è oggetto di scelte direttive, non negoziabili, perché di fatto ritenuto incapace di poter esercitare una libera volontà riguardo alla sua salute nel momento della crisi. Basti considerare l’insistenza con la quale si vogliono modificare le procedure di intervento sanitario che si spinge fino al cambiamento del loro nome: il trattamento sanitario da obbligatorio diventa necessario, la sua durata da sette passa a quindici giorni all’interno di un SPDC ospedaliero, e addirittura a sei mesi rinnovabili fino a un anno in comunità accreditate o residenze protette extraospedaliere.[4]

Ancora una volta non si coglie l’importanza delle parole: come già sottolineato in ambito giuridico e psichiatrico,[5] quando si parla di obbligatorietà si fa riferimento a una scena di relazione fra soggetti, portatori di diritti e di doveri, a un riconoscimento dell’altro che rientra in uno scambio simbolico, a una contrattazione fra ragioni divergenti da ricomporre. Altresì, la necessità pertiene a decisioni ineluttabili, determinate da esigenze di legge, che devono essere eseguite con una perentorietà che esclude qualsiasi negoziazione con l’altro: è il provvedimento d’urgenza che per il suo carattere di cogenza e di eccezionalità fa a meno del tempo del dialogo. Il conflitto viene silenziato e la situazione di rischio “messa in sicurezza”. Peraltro, in più punti del disegno di legge viene evocato lo spettro del pericolo all’incolumità delle persone: è evidente che non si tratta tanto di una sollecitudine nei confronti dell’integrità dei soggetti sofferenti di disturbo mentale, che nella realtà sono sempre più spesso vittime invece che autori di violenza, quanto di un tentativo di strumentalizzare le loro famiglie, che continuano a essere illuse dalla suggestione dell’intervento risolutore, capace di sciogliere d’incanto il carico dell’assistenza al malato attraverso un’espulsione dello stesso dall’ambiente domestico. Gioco irresponsabile – a cui per fortuna non presta fede la quasi totalità delle associazioni dei familiari del nostro paese – perché criminalizza gli utenti e schiaccia i familiari stessi sotto indicibili sensi di colpa dietro il pretesto di una loro salvaguardia.[6]

Il disegno di legge Ciccioli riscrive con qualche astuzia assunti già visti all’opera in precedenti proposte di revisione apparse negli ultimi anni, seguendo un identico copione, fatto di furore ideologico contro il consenso culturale “di sinistra” attribuito alla 180 e di misconoscimento di tutte quelle pratiche di cura che funzionano bene nel nostro paese.[7] Il canto delle sirene che cerca di ammaliare l’opinione pubblica è sempre lo stesso: ci vogliono più procedure di controllo del malato, cioè unità ospedaliere “ad alta protezione”, comunità accreditate per la lungodegenza e trattamenti sanitari più restrittivi e più lunghi, perché la malattia è obnubilamento della coscienza, incapacità di giudizio e di scelta, comportamento inadeguato e pericoloso, cronicità e carico assistenziale.

Se è vero che tale visione è stata purtroppo favorita dalla crescita disomogenea e dall’inadeguatezza della rete dei servizi di salute mentale in Italia, soprattutto in regioni che si sono rese responsabili di disastri organizzativi e gestionali e spreco di denaro pubblico, tuttavia oggi si sa – grazie anche al percorso di deistituzionalizzazione suggellato dalla 180 – quali sono le buone pratiche nel campo della salute mentale, quali servizi possono essere costruiti e quali errori devono essere evitati: ad esempio, garantire una risposta sollecita e qualificata nel territorio, non significa piegare la logica della cura a un modello emergenziale, né potenziare un SPDC, con le sue consuete violenze istituzionali di reclusione e contenzione, né allestire équipe mobili “castigamatti”[8]o stabilire per legge il tempo di un intervento.[9] Il problema sta a monte, nell’incapacità di troppi tecnici e amministratori di uscire dalla cultura ospedaliera e di concepire un modello territoriale di salute mentale che possa cambiare le pratiche misere di Centri di Salute Mentale fatiscenti, aperti poche ore al giorno, prevalentemente ambulatoriali, ad alto tasso di medicalizzazione e con una “cronica allergia” sia al lavoro domiciliare che all’integrazione sociosanitaria.

Bisogna puntare sulla capacità di accogliere e di rispondere con continuità ai bisogni quotidiani della persona e della sua famiglia in Centri di Salute Mentale aperti possibilmente nell’arco delle ventiquattro ore: servizi di prossimità, resi trasparenti e a bassa soglia, proattivi, ad alta mobilità territoriale, con una conoscenza dettagliata della comunità di appartenenza e integrati a rete con le altre realtà socio-assistenziali che vi lavorano. Non si tratta di utopia, ma di realtà già attive nel nostro paese che permettono di affrontare e di smontare, giorno per giorno, la crisi nel contesto di vita della persona sofferente, di contrastare la cronicizzazione e di porre le basi per un percorso di ripresa e spesso di guarigione: esperienze innovative e disseminate, già riconosciute a livello internazionale, spesso in sofferenza ma vitali, che non si meritano certo né ulteriori ritardi nella piena applicazione della 180, né l’ennesima avvilente proposta di revisione legislativa.


[1]Howell T, Diamond RJ, Wikler D. “Isthere a case for voluntarycommitment?” In: Beauchamp TL, Walters LR, eds.Contemporaryissues in bioethics[2nd ed]. Belmont: Wadsworth Publishing Company, 1982: 163-8.

[2] Il testo unificato del Disegno di Legge “Disposizioni in materia di assistenza psichiatrica”, è stato approvato dalla Commissione Igiene e Sanità della Camera il 17 maggio 2012. Ad esso si riferiscono gli articoli di legge citati.

[3] Per questo motivo, tale disegno di legge non ha niente a che vedere con l’interessante proposta di “testamento psichiatrico” quale quella avanzata dalla Rete Regionale Toscana Utenti Salute Mentale che promuove percorsi di autonomia ed emancipazione per gli utenti favorendo il protagonismo e l’empowerment. In tale proposta la dialettica delle posizioni nel rapporto fra utenti e operatori è proprio il frutto di una negoziazione, nella quale la volontà dell’utente è fondamentale per misurare l’azione dell’operatore e tutelare adeguatamente i propri diritti: questo potrebbe avvenire anche attraverso la nomina di fiduciari che rappresentino degli intermediari preziosi nel momento della crisi della persona, capaci di impedire interventi sanitari inadeguati (come le terapie elettroconvulsivanti) e di fornire sostegno personalizzato all’utente in caso di TSO. Si rinvia al sito www.retetoscanausm.org.

[4] Cfr. artt. 4 e 5.

[5]Daniele Piccione, Dottore di ricerca in Teoria dello Stato e Istituzioni politiche comparate presso l’Università La Sapienza di Roma e Consigliere parlamentare del Senato della Repubblica, avanza forti riserve sotto il profilo della legittimità costituzionale nei confronti del presente disegno di legge. Cfr. sito del Forum Salute Mentale (https://www.news-forumsalutementale.it/brevi-note-di-un-costituzionalista-sul-ddl-ciccioli/). Cfr. anche P. Dell’Acqua in Fogli d’informazione, Anno XXXIX n. 218, luglio-dicembre 2010.

[6] “Nei casi in cui la convivenza con la persona affetta da disturbi mentali comporta rischi per l’incolumità fisica della persona stessa o dei suoi familiari, il dipartimento di salute mentale, in collaborazione con i servizi sociali del comune di residenza del malato, trova una soluzione residenziale idonea alle esigenze della persona nell’ambito degli alloggi di edilizia residenziale pubblica” (art. 10).

[7] Si fa riferimento fra gli altri ai ddl del deputato Burani Procaccini (n. 174 del 2001), dei senatori Carrara, Bianconi e Colli (n. 348 del 2008) e del deputato Guzzanti (n.1423 del 2008).

[8] “Le regioni e le province autonome istituiscono, inoltre, équipe mobili per le aree metropolitane, nonché per interventi urgenti, garantiti ventiquattro ore su ventiquattro, a livello territoriale e domiciliare” (art. 3).

[9] Cfr. art. 8 sull’obbligo del medico psichiatra del servizio pubblico di recarsi al domicilio del paziente entro cinque giorni dalla segnalazione.

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