Sono molto d’accordo con la richiesta di UNASAM (vedi) che si dia vita ad una II Conferenza nazionale per la salute mentale e che la stessa sia punto di arrivo di un lavoro severo, serio, approfondito sullo stato dell’assistenza psichiatrica italiana: il trattamento dei pazienti nei servizi deve ridiventare una questione generale, conquistare l’attenzione, il rispetto e l’impegno della politica e delle istituzioni a livello nazionale ed anche europeo.

La norma del 1978 ha definito l’attuale assetto istituzionale della psichiatria italiana conferendole un esplicito mandato, rigorosamente sanitario: prevenire, curare, riabilitare.

Ma esiste, non lo dimentichiamo, un mandato implicito, inespresso, sempre pesantemente presente, che attiene piuttosto alla domanda di controllo sociale. Di qui la necessità di mettere a fuoco la questione del cosa devono sapere e saper fare i professionisti che operano nelle istituzioni della salute mentale, di concentrare l’attenzione sulla qualità della formazione degli operatori.

a)      In Italia la riforma dell’assistenza psichiatrica è stata portata avanti da un movimento di psichiatri e altri operatori sanitari che lavoravano nei manicomi pubblici, insieme a famiglie e ad associazioni di famiglie; a differenza di quanto accaduto nei paesi anglosassoni e nell’Europa continentale, pazienti/utenti singoli e organizzati vi hanno avuto una presenza e un ruolo marginali. Questo ha significato, e continua ancora a significare, che le opinioni personali dei medici psichiatri , le pratiche che ne conseguono, le scelte da loro adottate nelle singole situazioni date, hanno un peso incomparabile rispetto a quelle di tutti gli altri attori della “scena” psichiatrica.

b)      Nella stagione della de-istituzionalizzazione, la seconda metà del secolo scorso, la formazione degli operatori avveniva nei luoghi di lavoro, si apprendeva nelle pratiche dei gruppi; oggi invece la formazione avviene principalmente nelle Università nelle quali prevalgono le culture di una “fascinazione neo-scientista e psicofarmacologica ad oltranza” (Giacanelli); spesso vi si fa riferimento a modelli scientifici ed a scelte culturali di orientamento solo clinico o psicologico; il più delle volte risultano riproduzioni di modelli estranei alla realtà in cui operano i servizi.

c)       Le scuole di formazione pubbliche sono sottodimensionate: il numero di psichiatri specializzati disponibili sul mercato, ma anche di tecnici della riabilitazione e di infermieri professionali e di educatori, è sicuramente inferiore a quanto appare necessario per un buon funzionamento dei servizi. E la qualità dei percorsi formativi è troppo spesso inadeguata perché non tiene conto delle norme vigenti, del dibattito a livello dell’OMS ed europeo, delle indicazioni del Comitato nazionale per la Bioetica, della Conferenza Stato-Regioni.

d)      Prima, appena laureati o diplomati, si cominciava a lavorare subito nei servizi manicomiali e non; da tempo, per i giovani laureati trovare occupazione è diventato più difficile; il lavoro è spesso precario e nelle Aziende sanitarie, fortemente gerarchizzate alle dipendenze di manager ( a loro volta rigidamente subordinati agli amministratori regionali che li hanno nominati) non è garantita la libertà di parola e spesso nemmeno di pensiero. E la torsione che sta assumendo l’articolazione del Ssn, Regione per Regione, porta alla costituzioni di Aziende sanitarie di grandi dimensioni sovra provinciali, nelle quali la dimensione e la voce della “rappresentanza politica” delle comunità locali finiscono con lo sparire in nome dell’efficienza e del controllo di gestioni sempre più centralizzate.
Così, psichiatri, infermieri ed educatori professionali, ciascuno con la propria storia personali e i propri retroterra culturali, non hanno trovato, talvolta non hanno nemmeno cercato, ambiti più ampi di stimolo, confronto e verifica del proprio lavoro. Da qui ha origine, a mio avviso, una delle cause principali del tratto della frammentazione dell’esperienza italiana, da cui la caratterizzazione “a macchia di leopardo” del grado di implementazione dei percorsi a garantire un servizio pubblico di salute mentale degno di questo nome.

E come dimostra l’azione in corso per “riuscire a fare a meno dell’opg”, il raggiungimento pieno dell’obbiettivo si ottiene se cambiano culture professionali, se si mettono in discussione e si riformano, anche qui, culture e prassi giuridiche.

Per tali ragioni è necessario:

  • porsi l’obbiettivo di costruire e far conoscere percorsi ispirati alle culture della salute mentale e della recovery, dare una svolta alla formazione dei professionisti, criticare lo strapotere del “modello medico”;
  • restituire centralità alla dimensione comunitaria, “locale” nel lavoro per la salute mentale, senza cadere nei localismi cui paiono ispirarsi recenti iniziative di “riforma della riforma” ;
  • interpellare l’Istituto Superiore di Sanità, le associazioni professionali e scientifiche di psichiatri, infermieri, assistenti sociali, psicologi, educatori professionali, degli operatori che si occupano delle dipendenze e delle disabilità mentali;
  • portare a termine una indagine nazionale sui protocolli in uso a regolamentare le contenzioni nei servizi di psichiatria;
  • interpellare avvocati, magistrati e le loro organizzazioni professionali nella discussione sulle norme del Codice Rocco in tema di imputabilità e diritto al processo dei pazienti con diagnosi psichiatrica autori di reato.

In conclusione, ritengo necessario, urgente cogliere l’occasione della richiesta II Conferenza nazionale per la salute mentale per garantire una formazione professionale di base e permanente di facile accesso, per verificare che cosa si insegna nelle Università, come si trasmette cosa bisogna sapere fare , come consentire destini di vita diversi dalla coartazione, dall’abbandono nella lungodegenza per ciascuna delle migliaia di persone che, anche dopo la chiusura dei manicomi pubblici, continuano a subire trattamenti di tipo manicomiale. Questo nella convinzione che un tale lavoro può dare solide basi ai servizi, consentire la bontà degli esiti degli investimenti di risorse nella sanità pubblica, della scelta di direzioni delle Aziende Sanitarie all’altezza della sfida, e di amministratori locali impegnati a garantire benessere alle loro comunità con il sostegno all’associazionismo delle famiglie e degli utenti.

Alcune esperienze italiane dimostrano che si può: garantendo una buona qualità dell’accoglienza, ponendo attenzione alla qualità della vita quotidiana, riconoscendo alle persone dignità. responsabilità e potere, tutto quanto è stato nel precedente tempo di vita espropriato a seguito della stigmatizzazione della condizione di “sofferente mentale”.

Da ultimo, e non per ultimo, i servizi di salute mentale si devono sempre più misurare con il lavoro di tutela della salute mentale delle persone detenute nelle carceri e delle persone immigrate in Italia che portano con sé concezioni e interpretazione del disturbo mentale appartenenti a molte culture non europee. È una sfida inedita alla quale il nostro sistema formativo appare del tutto inadeguato, una sfida che mostra fra l’altro, se ce n’era bisogno, la inconsistenza delle pretese “universalistiche” dei modelli biomedici occidentali e che dovrebbe obbligarci a riconoscere le nostre ignoranze, a rivedere i percorsi e integrare le nostre conoscenze con nuovi approcci e saperi: per un lavoro competente, utile, aggiornato.

Luigi Benevelli

Mantova, 26 ottobre 2016

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