I servizi di salute mentale

Quando parliamo di servizi ci riferiamo in generale alle istituzioni, è a queste che rivolgiamo il nostro sguardo.

Le istituzioni cambiano se cambia la relazione tra cittadini e istituzioni, e se le istituzioni sono in grado di indurre e aiutare questa riqualificazione dei rapporti. Cambiano se i saperi socialmente disponibili sono chiamati a dare una mano in modo meno occasionale e sporadico, e se nessun sapere presume di essere esclusivo e dominante.

Mettendo ora attenzione alla attuale situazione dei servizi di salute mentale in Italia, possiamo dire che se questa appare accettabile per quanto riguarda la quantità, in relazione agli standard previsti dal Progetto Obiettivo per la Tutela della Salute Mentale e dagli stessi Livelli Essenziali di Assistenza (anche se si tratta di una media nazionale dove a fronte di situazione soddisfacenti sussistono aree del paese dove i servizi sono ancora numericamente del tutto insufficienti), la questione critica riguarda  però la qualità del servizio offerto ed è questo il punto cruciale.

I Centri di Salute Mentale (CSM), pressocchè adeguati dal punto di vista quantitativo, pur tuttavia si presentano per lo più organizzati come semplici ambulatori specialistici, con lunghe liste di attesa, aperti solo nei giorni feriali, a volte neanche sulle 12 ore, separati dalla comunità locale. Costruiti e modulati su logiche privatistiche, caratterizzati da spazi ed arredi asettici, a volte degradati, troppo spesso vuoti, sembrano adatti all’evitamento della  presa in carico, ad una attenzione superficiale verso i “quasi normali” e alla rimozione dei “pazienti gravi” che faticano ad accedere alle cure, che infatti rapidamente vengono rimossi verso le strutture private convenzionate.

Lo psichiatra riceve su appuntamento per dispensare psicofarmaci, lo psicologo riceve su appuntamento per dispensare psicoterapia, l’infermiere prende gli appuntamenti e somministra la terapia farmacologica, l’assistente sociale riempie i moduli per le domande di invalidità e l’immissione  nel circuito della cronicità.

E’ assente o rara la pratica della presa in carico della persona, della famiglia e del contesto. La visita domiciliare, in particolare quella infermieristica, è finalizzata per lo più alla somministrazione dei long-acting.

I promotori del Forum ritengono invece che il CSM, luogo complesso, aperto, accogliente, mercato, luogo di relazione e di mediazione di oggetti, è il motore e regista dei percorsi di cura e integrazione sociale dei cittadini/e nel territorio, percorsi unici, individuali, complessi, per una ricostruzione di senso, legami e potere contrattuale, quindi ben-essere. Parliamo di “case”, luoghi aperti sulle 24 ore, 7 giorni su 7, da cui parte il lavoro verso un territorio dato, con una popolazione definita (non superiore a 80mila persone), in cui la città e i suoi gruppi formali ed informali entrano, li attraversano, li trasformano, dove soprattutto, le persone in crisi devono trovare risposte e, se necessario,  accoglienza anche prolungata, anche notturna.

Solo in presenza di CSM così organizzati, servizi “forti” per essere permeabili al territorio, sembra essere stata possibile in Italia l’applicazione piena della riforma. Non abbiamo in questi 25 anni trovato strutturazioni organizzative dotate di una analoga efficacia.

Va sottolineato che il CSM sulle 24 ore richiede una programmazione regionale, aziendale e dipartimentale lucida, consapevole della necessità di investire risorse plurime nella salute mentale. La Prima Conferenza Nazionale del 2001 ha posto l’istituzione dei CSM 24 ore come un fattore discriminante e costituivo di “buone pratiche”.

L’esistenza di servizi forti, ben lungi da essere condizione sufficiente, la riteniamo comunque condizione necessaria nel senso scolastico della parola: necessario come “essere così e non poter essere diversamente”.

In assenza di servizi forti, caratterizzati dall’accoglienza sulle 24 ore, si assiste ad un indiscriminato ricorso al Trattamento Sanitario Obbligatorio (TSO) o al ricovero in strutture private convenzionate,  dove si esaurisce la responsabilità  del pubblico e da cui spesso, una volta dimessi, le persone ritornano a carico dei familiari senza un percorso di cura e un progetto di vita. In assenza di servizi forti le problematiche più cocenti vengono depositate, a volte senza progetto e/o riferimento con i servizi territoriali, negli SPDC o sono destinate all’abbandono.

I Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura (SPDC) in troppi Dipartimenti di Salute Mentale (DSM) sono collocati in luoghi  degradati, situati nei sottoscala o nei piani alti dell’ospedale, privi di spazi aperti, muniti spesso di grate o di telecamere a circuito chiuso. Con le porte chiuse verso l’interno e verso l’esterno, fino all’estremo caricaturale e insopportabile della definizione del tutto extralegale di “reparti per TSO”.

Puramente medicalizzati, separati nella sostanza dal circuito degli altri servizi territoriali, come dal resto dell’ospedale generale, forniscono solo risposte contenitive e dequalificate, cristallizzando e stigmatizzando la sofferenza della persona come non curabile nel suo abituale contesto.

Nella maggior parte degli SPDC (8 su 10) è frequente, se non routinario, l’uso della contenzione fisica (a volte, ci si giustifica, “solo per poco tempo per fare la terapia farmacologica”), ritenuta perfino in alcuni casi strumento “terapeutico” e non violazione dei diritti umani, evento per noi sentinella sul quale interrogarsi ed attrezzarsi affinché venga definitivamente abolito.  Negli SPDC si può assistere contemporaneamente al paradosso che mentre si dimettono impropriamente persone ancora bisognose di cure, affermando che la legge non permette di trattenere più di 7 giorni (periodo invece costantemente rinnovabile sulla base della necessità), vengono impropriamente/illegalmente trattenuti, non si sa in quale regime,  per molti anni persone (quante di queste situazioni esistono?) senza ormai alcun riferimento territoriale, senza alcun progetto.

Siffatti SPDC, manicomi senza spazio, sono il prodotto diretto ed inevitabile  di una organizzazione che non prevede una risposta alla crisi fuori dall’ospedale, che non prevede l’accoglienza, anche delle persone in crisi, in  CSM sulle 24 ore. La compresenza di 16 persone in crisi acuta, in spazi tali, come già descritti, non può non generare violenza, illegalità.

Il Forum ritiene che l’SPDC, superata la mera funzione di contenimento e reclusione, costituisca “uno” dei luoghi del DSM deputati al ricovero, in accordo con il CSM che detiene il progetto terapeutico, utilizzato soprattutto per persone che necessitano anche di cure ospedaliere.

Collocato come struttura semplice sempre all’interno del Dipartimento di Salute Mentale, deve condividere e seguire i progetti elaborati dalla struttura complessa CSM competente territorialmente, a salvaguardia della continuità terapeutica e dell’espletamento del progetto terapeutico integrato individuale.

Gli SPDC possono (lo abbiamo sperimentato) essere organizzati come spazi amichevoli, aperti, attraversabili onde sviluppare le condizioni atte a coniugare la cura con il rispetto dei diritti e delle libertà individuali. Ciò è possibile; ma  diventa certamente impossibile se i servizi territoriali non funzionano adeguatamente. In assenza di CSM sulle 24 ore.

I Centri Diurni spesso si limitano a raccogliere le persone rifiutate o espulse dai CSM, diventando luoghi di stazionamento e di intrattenimento che producono oggetti inutili e dequalificati.

Invece possono e devono rispondere ad una importante funzione formativa ed abilitativa, essere luogo di costruzione di un progetto, di una azione comune in un scambio pratico, intellettuale, affettivo.

Si deve sempre evitare che divengano luoghi separati, ma punti di partenza per integrare le persone in vere attività anche se per un tempo limitato.

Le Strutture Residenziali hanno avuto in questi ultimi anni, in particolare dopo il ’98 a seguito della definitiva chiusura degli ospedali psichiatrici, una notevole crescita numerica: dalla ricerca Progres i posti-residenza dei DSM risultano essere circa 17.000. Peraltro alcune strutture appaiono sovradimensionate nel numero, 40 e oltre utenti, lontane dalla quotidianità dei paesi e dei quartieri, anonime, prive di oggetti, regolate ancora da logiche manicomiali. Spesso separate operazionalmente dal CSM, a volte con  equipe del tutto distinte e con profili professionali inadeguati, si presentano come totalmente autoreferenziali. Sono per lo più luoghi da cui non si esce verso forme di habitat/convivenza più autonome e più integrate nella comunità.

Ci preoccupa l’eccessiva enfasi che negli ultimi tempi viene posta sulle strutture residenziali, quasi come se gli psichiatri, gli amministratori e i politici avessero continuamente bisogno di luoghi, spazi definiti in cui esercitare la cura, il controllo, il potere in cui racchiudere, alla fine.

Il Forum ritiene, e questa appare una esperienza già presente e possibile, che vadano sempre più organizzate convivenze di pochi utenti (5-6) in case di civile abitazione all’interno dei paesi o dei quartieri cittadini, dove si viva una quotidianità vitale, da dove si possa uscire, dove nella normalità dell’agire quotidiano si possa acquisire storia, fiducia, capacità di scelta, possesso di oggetti, ri-appropriarsi di un tempo e di uno spazio, moltiplicare le opportunità.

Infine vanno riconsiderate alla radice forme consociative di patti regressivi tra pubblico, privato e privato sociale che costituiscono ormai la cornice gestionale di tante situazioni residenziali. Questi patti regressivi non sono accettabili, si fondano su una complicità deresponsabilizzata, si coniugano con interessi non validabili, si originano da coincidenze di poteri non finalizzati all’emancipazione dei soggetti; sono l’accettazione di uno status quo, la regola che ne garantisce la sopravvivenza non il superamento. Ma popolano ormai l’ovunque istituzionale rendendoli impermeabili alla critica e alle pratiche trasformative, proprio perché legittimati da interessi convergenti estranei al cambiamento.

Occorre riprendere alla radice, spirito e lettera, della L.328, sull’integrazione socio-sanitaria, e riformulare radicalmente i patti tra servizi sanitari pubblici/privato e privato sociale secondo dispositivi innovativi e finalizzati direttamente non alle strutture ma ai soggetti destinatari, finalmente re-individualizzati come vuole la legge e come noi vogliamo che sia.

A conclusione e per sintetizzare possiamo dire che il Forum vuole più Centri di Salute Mentale degni di questo nome, sulle 24 ore, più laboratori connessi e financo confusi con i luoghi della produzione, luoghi di formazione e di inserimento al lavoro, più case, e, contemporaneamente, meno posti letto in SPDC, nelle comunità terapeutiche e nelle case di cura, quindi nessun abbandono, ma una presa in carico della persona sofferente verso sempre maggiore abilitazione alla vita.

In sostanza si dovrebbe dunque passare da una psichiatria ancora contenitiva e sempre più elementaristica centrata sull’asse ambulatori-SPDC-case di cura-strutture residenziali ad una salute mentale integrata nel tessuto sociale e basata sull’asse CSM-habitat assistiti-forte sostegno sociale/sanitaria-assistenza materiale-percorsi di integrazione sociale e di emancipazione-comunità locale.

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