di Pietro Pellegrini

da Il Manifesto

Il 4 ottobre 2019 nella Questura di Trieste avviene l’omicidio di due agenti di Polizia e il tentato omicidio di altri otto. L’imputato, un trentenne, è stato sottoposto a due perizie psichiatriche, risultando ridotta imputabilità per la prima e non imputabile per la seconda. Venerdì 6 maggio 2022, la Corte d’Assise lo ha assolto per “vizio totale di mente”, “il fatto è stato commesso da una persona non imputabile”. In attesa delle motivazioni e tralasciando l’interrogativo sul perché di fronte a perizie contrastanti non sia stata effettuata una perizia collegiale, un dato è certo: la Corte d’Assise ha applicato il Codice Rocco del 1930 che prevede il “doppio binario”. Di fronte a una tragedia di questa portata la parola “assoluzione” (proscioglimento) appare in sé ingiusta. Non fa bene a nessuno, nemmeno all’autore del reato.

A seguito dell’assoluzione per totale infermità mentale, il riconoscimento della pericolosità sociale apre la via della misura di sicurezza detentiva in Ospedale Psichiatrico Giudiziario, oggi chiuso, un carcere dove si poteva restare 30 anni o spesso tutta la vita. Assolto e detenuto!

Questo avveniva quando il Codice Rocco aveva come riferimento l’abrogata legge 36 del 1904. Oggi vi è una distanza abissale fra Codice Rocco e le leggi 180/1978 e 81/2014. Questa ha chiuso gli OPG sostituendoli con un sistema di welfare di comunità, di cui fanno parte i Dipartimenti di Salute Mentale al cui interno operano le REMS (Residenze per l’esecuzione della misura di sicurezza). L’assoluzione per incapacità d’intendere e volere, avvertita come iniqua, scarica tutte le conseguenze sulla psichiatria, chiamata all’impossibile compito di curare e custodire insieme. Due mandati inconciliabili perché la cura della psicopatologia, può realizzarsi nella relazione, attraverso il consenso, la partecipazione attiva nella libertà, la capacità di autodeterminarsi (“nulla su di me senza di me”).

La psichiatria, invece, dovrebbe curare alle condizioni decise dalla giustizia, custodire e un po’ anche punire come richiede l’opinione pubblica, e al tempo stesso prevenire con un controllo (onnipotente) gli agiti dei malati di mente.
le Rems sono strutture sociosanitarie, residuali e transitorie. Non è pensabile restarvi 30 anni, snaturandone il mandato, ma secondo le esigenze del programma terapeutico. O si vogliono Rems dove mettere sine die e senza condizioni, persone disturbate, disturbanti, indagate, prosciolte o condannate, come nuovi “mini OPG”?

Per l’atto commesso tutte le persone devono avere il diritto al processo e, se colpevoli devono essere condannate a una pena come previsto dall’art 27 della Costituzione. La persona con disturbi mentali ha bisogno della parola della legge che dialoga, giudica e stabilisce la durata e le modalità di esecuzione della pena, lasciando intonse le competenze della psichiatria. Non giova un proscioglimento incomprensibile per un fatto che rimane molto presente nel mondo interno della persona che è sempre molto di più della sua malattia e del reato. Il proscioglimento crea una nebulosa che può far sprofondare tutto nel buco nero del non senso dell’alienazione.

La cura richiede chiarezza, fiducia, speranza, possibilità di elaborazione e riparazione. Questo è fondamentale anche per le vittime e i loro familiari. Affinché i vissuti siano compresi e l’evoluzione sia possibile vi è bisogno di ancoraggi alla verità giudiziaria. Ciò rende possibile l’elaborazione psicologica, storica ed etica (l’umana pietas) di fatti umani molto inquietanti perché connessi alla vita e alla morte. Ovviamente con la possibilità di misure alternative alla detenzione. In carcere. A fronte dell’omicidio dei poliziotti di Trieste, la tragedia sia l’occasione per una risposta politica di alto livello approvando con urgenza la Proposta di legge n. 2939 a firma del l’on. Riccardo Magi che può rifondare su basi nuove il “patto sociale”, la giustizia e la cura delle persone con disturbi mentali.

Da: https://ilmanifesto.it/a-trieste-sentenza-abnorme-torna-lopg