di Rossella Morricone*

Rossella Morricone. è una madre. L’altro volto della stessa odissea, fra Roma e Trieste che ha raccontato Roberto Morsucci. Con sguardo di madre e, soprattutto, di donna, che nonostante tutte le difficoltà, i momenti di angoscia, il dolore, sempre si allarga ad abbracciare anche il mondo intorno, attraverso i colori di un giardino, le architetture delle case, il grande lago calmo del mare di Trieste… Una testimonianza che è anche un forte invito a trovare sempre una strada per non perdere se stessi. 

 

Ho iniziato a scrivere questo testo per dar seguito alle mie emozioni, alle mie angosce, alle riflessioni che questo percorso mi ha fatto fare e mi continuerà a dare.

Tutti gli anni passati e quelli che verranno non sono stati anni sprecati. Anni vissuti intensamente, pieni di ricerca di equilibri temporanei e sempre diversi, di esperienze sempre nuove pur con una tematica sempre uguale. Equilibri più o meno stabili che mi hanno dato l’opportunità di andare avanti, di non piangermi addosso, ma di combattere sempre e rialzarmi ogni volta.

Vorrei che questo fosse il mio messaggio da dedicare a tutte le donne che come me ogni giorno vivono questa esperienza.   

Spronarle a lasciarsi andare alla propria vita, a crearsi spazi diversi che non siano solo salute mentale, a non essere solo mamme, sorelle, mogli, ma ad essere donne. Essere sì vicine ma lontane dal proprio familiare, perché la vita va vissuta e non sopportata. 

Nessuno mai deve sentirsi ostaggio di qualcuno o qualcosa e tantomeno di sé stessi

 

Febbraio 2010: partenza – arrivo

 

Lasciata la mia città, nascosta dietro i bagagli che occupavano il sedile posteriore, con un tremendo nodo alla gola, in lontananza svaniva la giovane figura di mio figlio, appena ventitreenne che sporto sul balcone ci salutava. Non aveva voluto lasciare il suo mondo, le sue amicizie, il lavoro, e nitida davanti a me si affacciava la sagoma piena di ansie e speranze dell’altro figlio più giovane, che mi riportava al motivo di questa partenza. Lasciavo il certo per l’incerto o forse   il contrario. Iniziava un lungo viaggio. Quello stesso viaggio che quando i ragazzi erano piccoli, nel periodo estivo, ci portava sulle Dolomiti, su quei ruscelletti dove si intrecciavano giochi nell’acqua corse sui ciottoli e mani alla ricerca di pietre colorate, passeggiate sulle altovie alla scoperta di frutti di bosco commestibili, ai profumi emanati dalle resine degli abeti, all’odore di letame delle mucche al pascolo, ricordi di serenità.  

Dopo un viaggio lungo 740 chilometri, dove avevamo attraversato una gran parte della penisola, lasciando indietro il mar Tirreno, avanzavamo verso gli Appennini per poi ridiscendere avvolti nella nebbia verso la pianura padana, le grandi coltivazioni di mais, girasoli rivolti verso il sole sempre alla ricerca della calda luce, fino ad arrivare sulla costiera dove in lontananza si intravedeva il Castello di Miramare che imponente padroneggiava sul mar Adriatico.    

Eravamo arrivati a Trieste ed iniziava una nuova vita, un nuovo percorso. 

Ed eccomi qua, in questa casa ammobiliata, accogliente, circondata dal giardino, un angolo con il barbecue ed un enorme ciliegio. L’edera aveva preso possesso degli alti muri di cinta e si era srotolata come una coperta sulla terra nell’attesa che qualcuno la sollevasse e risvegliasse dal sonno l’erba e le piante assopite.

Avevo sempre desiderato una casa con il giardino, e ora eccola qua. C’era tanto lavoro da fare, ci passavo le ore, il mio sfogo, il mio contatto con la natura, con la terra che mi riportava alla casa della mia infanzia, a quel giardino dove c’era sempre qualcosa da raccogliere, dalle foglie secche dei pioppi alla frutta dagli alberi. In quel giardino forse avevo ritrovato una parte della mia vita spensierata passata insieme ai miei genitori. Nel giardino c’era un giovane melo, un altrettanto giovane albicocco, un albero di nespole e un fico, i cui frutti non riuscii mai a mangiare. Iniziai a potare con qui pochi attrezzi che avevo alcune siepi, tagliando tutti i legni a misura per seccarli. Erano utili per il barbecue e il caminetto. Provai anche a fare un piccolo orto, ma la terra era arida e non ottenni nulla. Legai tra il ciliegio e l’albicocco un cordino da montagna, dove poter stendere le lenzuola al vento ed al sole, che asciutte avevano un odore di altri tempi. 

In tutto questo fare mi dovevo far forza nel mostrarmi contenta, incuriosita della nuova città, delle cose nuove che avrei scoperto e delle nuove possibilità di una vita migliore per Giacomo. Avevo fatto questa scelta razionalmente e responsabilmente da genitore, certo non con il cuore, il mio cuore rimaneva a Roma. Allo stesso tempo pensavo a Gianni, solo ad affrontare la sua nuova vita. Forse dovevamo essere più fermi e farlo partire con noi senza lasciargli la scelta. Vedevo in lontananza la minuta sagoma di mia madre che mi salutava e con lo stesso nodo alla gola che avevo io, mia sorella parte integrante di me, un affollamento di pensieri, di ricordi, di sensi di colpa che si strozzavano in gola e sgorgavano dagli occhi ogni volta che pensavo a loro. Mi sembrava di aver tradito tutti.

Nelle giornate seguenti, iniziai a fare conoscenza con la città, attenta a parlare senza inflessioni dialettali, non si sa mai, ero in una città del Nord, ultima spiaggia prima di lasciare definitivamente l’Italia. Mi trovai subito di fronte ad un incomprensibile dialetto.  Poche persone parlavano in italiano o “in lingua” come dicevano loro e sempre di più mi aggrappavo al  mio italiano   con le cadenze dialettali.  

Dopo due giorni dall’arrivo, venne il figlio da Roma con un suo amico a portarci il resto dei bagagli e fu subito luce. Avevo tanti sensi di colpa nei suoi confronti: lo avevo abbandonato, lasciato in balia di sé stesso ad affrontare forzatamente una vita da solo. Si era trovato di fronte ad una scelta fatta che forse era troppo grande per lui. Avere una casa a disposizione, feste con gli amici. Cosa può desiderare di più un ragazzo di 23 anni? Ma alla prima febbre, alla prima lavatrice che aveva tinto tutto di rosa, alla prima lampadina fulminata c’era bisogno della mamma e del papà, che erano lontani, noi non eravamo lì ad aiutarlo, potevamo solo consigliarlo e rassicurarlo. Cominciava a crescere quel fardello sulle mie spalle, già pieno di tante frustrazioni. Gli ultimi ad arrivare in quella casa furono Wollas e Meghi, i miei due gatti. Cresciuti dentro un appartamento, erano intimoriti da quel giardino, incuriositi dalle lucertole, dal muoversi delle foglie, dall’erba bagnata dalla pioggia ed anche per loro fu tutta una scoperta. 

 

San Giovanni

 

Facendo un passo indietro, io e mio marito avevamo letto vari libri sulla salute mentale e tra tutti ci aveva colpito e rassicurato quello del Prof. Peppe Dell’Acqua, direttore del Dsm, allievo di Franco Basaglia. In quel periodo fu trasmesso il film “c’era una volta città dei matti”, che raccontava la storia del Manicomio di San Giovanni, a Trieste, delle lotte fatte da Basaglia per ridare una individualità alle persone, fino a distruggere con Marco Cavallo quei muri che toglievano la libertà di rinascere, di essere cittadini come gli altri a quelle persone rinchiuse ed offese da anni.

Immaginate l’emozione provata nel trovarmi in quel magnifico Parco, davanti all’imponente azzurro di Marco Cavallo. Trovarmi in quei luoghi, dove anni addietro giravano uomini, donne e bambini come spettri senza anima. Grazie al grande psichiatra, Franco Basaglia, a tutti quei giovani medici, infermieri, all’attenzione di classi politiche che si arrivò alla legge 180 che aboliva i manicomi e dava un senso diverso alla psichiatria applicata fino ad allora. Ancora oggi si legge su uno di quei manufatti, “la libertà è terapeutica”.  Il parco era immenso ed era diventato parte integrante della città. Era attraversato da strade e stradine che collegavano la città da un quartiere a un altro. Nel parco scoprii il Posto delle Fragole, bar, ristorante, luogo di incontro, la sartoria Lister, dove lavorano persone con disagi o senza. Una sartoria creativa, dove si riciclava di tutto, persino gli ombrelli abbandonati e distrutti dalla bora diventavano delle comodissime borse per la spesa. Le cravatte usate si trasformavano in segnalibri, in comode borsette da viaggio. Borse e vestiti create dai jeans. La sartoria delle meraviglie.  

C’era anche la sede del Dipartimento di salute mentale, palazzine adibite a università, il bellissimo giardino delle rose, con una infinità di specie di rose, luogo di appuntamenti musicali e poesie. In primavera diventava una tavolozza piena di colori arricchiti dal profumo che le rose emanavano. Spazi per bambini, un teatro che ospitava vari eventi, un luogo per allestire mostre di vario genere, una pista per accogliere gruppi locali, eventi musicali.

Quando arrivava giugno, nei primi anni, veniva organizzato l’evento “Impazzire si può”, progettato e messo su dagli stessi utenti che, diventando protagonisti portavano oltre alle loro storie e lavori fatti, brevi rappresentazioni, relazioni e discussioni aperte a tutti. Un grande evento al quale partecipavano familiari, associazioni, cooperative, operatori sanitari non solo del luogo ma provenienti da tutta Italia. L’evento si concludeva con l’accensione dei fuochi nel giorno di San Giovani, dove ognuno gettava nel fuoco il bigliettino dei desideri che insieme ai lapilli si innalzavano in quel cielo stellato nella speranza che qualcosa mutasse. 

Nel vedere tutto questo anche la mia emozione era salita, tutto era così grande e quasi irreale. 

 

Csm – Dsm

 

Ritornando alla ragione della partenza, ci mettemmo in contatto da subito con il Dipartimento di Salute Mentale e il Centro di Salute Mentale di appartenenza (che in seguito chiamerò solo Dsm e Csm).

Fissato l’appuntamento presso il Csm di appartenenza, insieme a Giacomo, entrammo in quell’edificio che, tutto sembrava, meno che un centro medico. Non riuscivo a distinguere chi fossero gli utenti e chi gli infermieri o i medici. Niente camici, grandi spazi  con poltrone, tavolini, vasi rossi, una bacheca con le attività che si potevano svolgere, accoglienza. Ripensai, allora, a quello che era il Csm del mio quartiere, Ostia Lido – Roma. Rividi quella angusta e sporca stanza con uno sportello che serviva solo per avere ricette e prendere appuntamento con il medico. Mi tornò in mente il reparto di psichiatria nell’ospedale del quartiere, con le porte chiuse a chiave, con gli infermieri sempre nelle loro stanze, rividi le persone legate al letto, trascurate e maleodoranti, lo sciame di psichiatri dentro i loro camici bianchi, dispensatori solo di farmaci ma non di amore, accoglienza. Giacomo, appena diciottenne, aveva vissuto tutto questo incubo, quanta paura in quelle notti ricoverato, quanta rabbia verso di noi genitori che lo avevamo recluso come un reo colpevole di chissà che cosa. Lui, noi, eravamo vittime di un sistema sanitario vecchio, dormiente non curante delle esigenze di ognuno di noi, e soprattutto troppo in mano ai privati.

Giacomo fece conoscenza con il nuovo psichiatra, una persona già avanti con l’età, prossimo al pensionamento. Di lì a poco infatti, venne affidato a due medici specializzandi. Due giovani ragazzi, di cui uno veniva da Roma. E fu subito amore, si potrebbe dire. Iniziarono così per Giacomo una serie di incontri, quasi sempre esterni al Csm. Un caffè preso al bar, una passeggiata, una giornata a pesca, una chiacchierata nel giardino di casa. Mi sembrava di vivere in un sogno, dove tra medici e famigliari non esisteva gerarchia, venivi ascoltato, non esisteva divario tra noi e loro, distanze che ti mettevano in difficoltà con la paura di fare domande.

Dopo un po’di tempo gli venne proposto un lavoro presso uno stabilimento balneare che durò qualche mese. Giacomo aveva iniziato il primo dei suoi percorsi e noi con lui. Mi sentivo contenta quasi annichilita da ciò che si era ottenuto in breve tempo.

Infatti mentre a Roma eravamo genitori da non ascoltare, qui iniziammo ad essere parte integrante di ogni percorso, mantenendo sempre il nostro ruolo di genitore e non interferendo mai su quella che era la parte strettamente farmacologica. 

A noi fu prospettato un corso di dieci lezioni che si svolgeva al Dsm, relazionato da psichiatri, psicologi, operatori, educatori della riabilitazione, utenti ed in chiusura la presentazione dell’Associazione dei Familiari. Posto dove poter liberamente fare domande, esporre i nostri dubbi conoscere altri familiari e le loro storie. In aggiunta a questo, avevamo ogni quindici giorni un incontro con altri familiari e una psicologa al Csm di appartenenza, dove ognuno di noi poteva liberamente dar sfogo alle proprie angosce, alle difficoltà, confrontarsi con le storie di altri, far uscire i sensi di colpa che ti logorano l’anima, piangere, ridere, lasciarsi andare.

Una mattina camminando per il parco, incontrai per le scale il Prof. Dell’Acqua, direttore del Dsm, mi feci coraggio, lo fermai e mi presentai. Fu come incontrare un amico di vecchia data. Persona piacevolissima, carismatica. Negli anni mi rivolsi a lui nei momenti più difficili, quelli in cui la speranza iniziava a mancarmi, dove non vedevo più quella luce in fondo al tunnel. Ci siamo trovati anche a discutere punti di vista diversi, a collaborare insieme, mi ha spinta a farmi avanti, vincendo la mia timidezza e paura di fare o dire cose sbagliate. Mi aveva incoraggiata a riflettere anche quando il dolore aveva preso il sopravvento. Mi ha sempre spronata ad avere speranza. Un grande combattente, un grande uomo.

 

Giornate

 

Le giornate passavano veloci. La mattina spesso uscivo con una mia amica, che avevo conosciuto in uno degli incontri con i familiari.  Mi faceva da cicerone, con lei scoprivo i luoghi più interessanti di Trieste. Quei luoghi che solo una triestina come lei poteva conoscere. Più grande di me di alcuni anni, una donna piena di vitalità, una fonte di idee creative. Nelle vicinanze di casa abitava un’altra signora che aveva un figlio coetaneo di Giacomo. Mi sentivo contenta per Giacomo che aveva trovato un amico. Uscivano insieme quasi tutti i giorni, una lunga passeggiata fino al centro commerciale una bibita e poi il ritorno a casa.

I primi anni passati in questa città, erano pieni di cose da scoprire, tra riunioni, passeggiate sul Carso, la scoperta della vicina Slovenia, dove era nata mia suocera. Mi ero iscritta all’Associazione dei familiari che si occupava di proporre e portare avanti progetti e richieste che potessero migliorare la vita delle persone con disagi psichici e far conoscere meglio alla comunità la potenzialità degli stessi. Qui incontrai la fondatrice dell’associazione. 

Agguerrita sostenitrice da sempre delle persone disagiate, dei loro diritti, una persona che mi ha insegnato la pazienza, a capire di più le dinamiche di queste malattie, dinamiche che si scatenano, si insinuano nelle famiglie.  Un grande cuore e obiettività. Sarebbe diventata nel tempo una sorella maggiore, sempre disposta ad ascoltarmi e nello stesso tempo a farmi riflettere sulle cose. 

Le mie giornate non erano sempre così. 

Mi sono dedicata molto alla pittura, iscrivendomi anche a una galleria d’arte, dove ebbi la possibilità di fare mostre collettive e individuali. 

In un lato del soggiorno, vicino al caminetto, attrezzai una piccola scrivania, con i miei colori e le tele. Il mio angolo creativo. Certo non era come quello che avevo prima, con un grande bancone, libri, tanti cassetti per i colori, un posto tutto mio condiviso solo con la lavatrice e il pozzetto per lavare. 

Il mio primo quadro fu ”il cammino”. Lo iniziai senza pensare razionalmente a cosa volessi descrivere, ma l’inconscio sapeva benissimo come usare quei pennelli. Forse anche ispirata dal libro il cammino di Santiago (Paolo Coelio).  Il pennello tracciò un sentiero senza fine, circondato da piante, fiori, colline che riempivano la lontananza e in primo piano tre pellegrini, un uomo, un ragazzo ed una donna. L’uomo davanti fermo con il suo bastone, il ragazzo dietro con un fardello appeso al bastone poggiato sulla spalla e infine la donna che si riposa insieme ai suoi pensieri appoggiata a un albero. La forza dei colori davano luce e speranza a quel cammino e solamente dopo averlo terminato mi sono resa conto di ciò che avevo rappresentato. Era il nostro cammino. 

Eravamo in febbraio, in pieno inverno e in quel mese conobbi la Bora, un vento che soffia da Nord-Est, freddo più della tramontana, non continuo ma a raffiche che ti colgono di sorpresa mentre cammini, ribalta auto, infrange vetri, sembra voler portar via tutto ciò che è vetusto, malsano.  

Vedevo dalla finestra del soggiorno piegarsi l’albero di oleandro, come in un atto di rispetto verso madre natura, cespugli ondeggiare a tempo di musica, volar via vestiti, oggetti e le persone camminare piegate in avanti. Quando alla bora si univa la pioggia o la neve per me cittadina di mare era un disastro. Mi sentivo spinta in avanti da una forte mano e facevo fatica a non perdere l’equilibrio.

Conobbi un’altra donna, molto diversa da me, attivissima nell’ambito della salute mentale, sapeva di tutto e di più, conosceva tutto e tutti. Lei con suo marito e i suoi figli venivano dalla Campania, come noi avevano fatto il grande passo. C’è voluto del tempo prima che ci trovassimo. 

Diventò una grande amica. Spesso avevamo opinioni diverse, contrastanti e ne discutevamo insieme durante le nostre passeggiate. Con lei e spesso anche con i mariti passavamo giornate più spensierate, una passeggiata, quattro risate, un pranzo insieme e tutto in quella giornata ci allontanava dai nostri pensieri. 

 

Riflessioni

 

Trieste, una città che si sviluppa verticalmente, dal mare sale fino alle verdi colline del Carso in un breve spazio, fatto di strade e stradine strette, con quartieri che cambiano all’improvviso, sembrano piccoli paesini uniti gli uni agli altri. Sbagliando strada mi trovai improvvisamente immersa in un bosco fitto di alberi, dove all’imbrunire passeggiavano indisturbati dei cinghiali. Che scoperta all’interno della città.

Le architetture dei palazzi passavano da quelle strettamente asburgiche, imponenti, dalle tinte color pastello, alle case decorate in stile liberty con a volte grandi mostri che ti scrutavano dall’alto. Palazzi dichiaratamente di architettura dell’epoca fascista nelle loro forme lineari, strutture moderne in cemento armato che si stagliano verso il cielo con la loro tristezza. 

Durante le mie visite alla città, non poteva mancare il famoso Castello di Miramare, con le sue bianche torri rivolte al cielo, a picco sul mare. Il suo immenso parco, luogo dove il principe Massimiliano D’Austria, amante di botanica piantò innumerevoli specie di piante. Il grande parco offriva delle bellissime vedute della costa, viali e vialetti dove forse si intrecciarono storie di amori e conflitti della famiglia reale Asburgica.  Dove Carlotta morì in preda alla follia per la perdita di Massimiliano. Ora il Castello era diventato un interessante museo.

Altra grande scoperta fu la Val Rosandra, uno scenario quasi dolomitico, con il ruscelletto a valle e tante camminate, arrampicate su massicci rocciosi. All’inizio del primo sentiero si potevano vedere ancora i ruderi di un acquedotto romano.  La scoperta del ruscelletto fu grande, perché a Trieste zona carsica, i fiumi scorrono sottoterra e la città ne è attraversata in lungo e largo. Ecco questo per me era il posto più bello, immerso in una natura incontaminata, con il chiassoso rumore delle acque e la cascata che scendeva a valle. E tutto questo distendeva la mia mente che si riempiva dei suoni della natura, gli occhi si riempivano di colori e le narici si estendevano nel cercare il profumo di spezie e fiori.

Ho camminato tanto per questa città, tra il molo Audace, piazza Unità d’Italia che mi ricordava Bruxelles, i paesi del nord Europa, piazza Sant’Antonio con il Canal Grande. Mi fermavo sul canale con lo sguardo verso il mare e pensavo a quanti velieri avevano un tempo attraccato su quelle rive. Ai grandi commerci che avevano reso questa città una grande potenza economica. E poi attraversando la zona di Cavana, la città vecchia, il ghetto. Una volta borgo di pescatori, piccole botteghe artigiane, ora una zona residenziale, un’isola pedonale piena di negozi, antiquari, luoghi di incontro, bar, ristoranti. Vicoli e vicoletti che ricordavano Venezia. Stradine che ti portavano in alto verso la chiesa di San Giusto, l’arco romano di Riccardo e altri ruderi di epoca romana. 

Ma l’eco del dialetto rimbombava in quei vicoli di Cavana mischiandosi con la lingua slovena, con il croato e tutto diventava in me più nebuloso. Camminavo in una terra che non era la mia, mi sentivo straniera nel mio Paese, ma io che ci facevo lì. Era come entrare in una vecchia pellicola in bianco e nero, d’altri tempi. Passeggiando per Barcola sul mare, scoprii la spiaggia dei Triestini. Da un lato una pinetina, riparo dal sole estivo, dall’altro gli scogli. Si accedeva all’acqua tramite scalette, o attraverso piccolissime spiaggette di ciottoli, chiamate infatti “topolini”, posti graditi soprattutto ai giovani. Pensavo al mio mare, alle passeggiate sulla riva, assaporando l’acqua che mi bagnava i piedi mentre sprofondava nella sabbia ferrosa, la salsedine che si posava sul viso e le tante conchiglie da cogliere. 

Quel mare che parla quando la forza del vento sbatte le onde sul bagnasciuga e ti fa capire chi è il padrone.

Tutt’altra sensazione mi aveva dato il mare di Trieste, un grande lago sempre calmo, un mare che non emetteva suoni, vibrazioni interne, ma freddo senza voce.

Mi sentivo soffocare da questa città, troppo piccola, città morente. Una città che soffriva e si dimenava tra i ricordi del passato e l’irruenza del nuovo che voleva prendere piede.  La città del “non se pol”.  Poi dovevo ritornare al perché ero lì e chiudere i cassetti dei ricordi, cercare di andare avanti per lui. Quanto era difficile accettare e non avere rimpianti.

Mi fermavo spesso seduta a un bar e aspettando che mi portassero un “capo”, (l’equivalente di un cappuccino in tazzina da caffè), riflettevo sugli incontri con altri familiari. Dai loro racconti capii che, in qualsiasi modo avessi educato mio figlio, da qualsiasi estrazione sociale e culturale fossi provenuta, non era mia la colpa della sua malattia. Non dovevo sentirmi in colpa se non ero stata una mamma super protettiva ma una mamma che voleva rimanere sempre anche una donna.    

C’erano giorni in cui volevo mollare tutto, avvilita, stanca delle cose che negli anni avevo sentito dire, delle riunioni dove le parole dette e ripetute svanivano dietro i volti di chi ormai non ascoltava più e forse non aveva mai ascoltato. Le stesse persone che come me stavano invecchiando trasfigurate dalla fatica degli anni passati, con ancora figli a casa, ormai uomini e donne adulte che non erano cresciute o semplicemente non erano cresciuti i loro genitori, nella speranza che qualcosa cambiasse come per magia. Il vedere tutto ciò mi creava una ribellione interna, non potevo essere ostaggio della malattia, perché nascosta dentro di essa esisteva un individuo che pensava, ragionava, lottava egli stesso con sé stesso ogni giorno della sua vita e dovevo imparare a dargli quella libertà fisica e psichica di essere.  

Mi trovavo spesso a pensare come sarebbe stata la mia vita se mio figlio non si fosse ammalato e nello stesso tempo ero consapevole che tanto non sarebbe servito a nulla rimpiangere il passato. Era giusto tutto ciò?

L’angoscia saliva tumultuosa come l’onda che pian piano si carica, prende forza per poi sbattere violentemente sulla riva, portando con sé i resti di legni levigati, corrosi appartenuti a chissà quale albero o manufatto.

Quel mare che a volte sentivo chiamarmi per un ultimo abbraccio e che mi avrebbe rilasciata ricoperta da un violaceo velo. Il mare come la vita ti dà, il mare come la vita ti toglie. Ripensavo alle persone che se ne erano andate. Rivedevo quell’albero che avevo disegnato quando era morto mio padre. Una grande quercia che aveva perso uno dei suoi rami. Era rimasto quello iniziale, il più grande, quello che aveva dato la vita e continuava ormai vetusto anch’esso ad alimentare le generazioni nuove di quercia che stavano crescendo. Mia madre!

In quegli anni, anche lei, mi lasciò. Mi sentivo orfana, sola senza quelle parole di incoraggiamento che mi ripeteva al telefono ogni volta che ci sentivamo. Mi aveva lasciata all’improvviso. Una corsa contro il tempo per arrivare a Roma, dopo la chiamata di mia sorella che mi avvisava che mamma era caduta e stava in Ospedale. Nulla faceva pensare che sarebbe morta, non aveva nulla di grave se non forse la stanchezza di vivere ancora. Io e mia sorella non eravamo pronte, la sua morte ci colse di sorpresa, perché per un figlio la madre è eterna, non può lasciarti. 

 

La casa

 

Dopo un paio di anni lasciai la casa con il giardino per cercarne una definitiva, come era diventata la nostra scelta di vivere qui. In questi due anni quel giardino si era trasformato, come la mia vita. 

Il ciliegio si era seccato, non dava più quella abbondanza di frutti che mi aveva visto con le braccia protese verso quei frutti e reso felice come una bambina. I cespugli di rose gettavano rami acerbi che non avrebbero mai dato fiori, sembravano volessero impossessarsi dei muri con le loro carnose spine. L’oleandro troppo piegato sotto le raffiche di bora si era spezzato.

Situata in una zona più movimentata e con molti servizi a disposizione, trovammo un appartamento in una palazzina anni ’50. Provata da tante cose non andate bene, ero stanca ed esaurita. 

Come promesso a mio figlio, la stanza più grande sarebbe stata la sua. La nuova casa era piena di luce, quella luce che in questa città sembrava mancarmi sempre. Dalla cucina si accedeva a un piccolo poggiolo che affacciava su una piazza. Il silenzio del mattino veniva interrotto solo dal volo dei gabbiani che si riunivano roteando sulla piazza fino a planare per prendere il cibo che un anziano signore gli portava ogni mattino. Con la mia tazzina di caffè e la prima sigaretta accesa, scorrevo una per una le mie piantine, controllavo la crescita delle più giovani, accudivo quelle più adulte, pulendole dalle foglie secche, togliendo i fiori appassiti. Ognuno di noi si era creato il proprio spazio, la cuccia, il rifugio.

 Mio figlio rimaneva ore ed ore chiuso nella sua stanza, diventato un laboratorio artistico, dove ogni mobile, ogni oggetto si era tinto di mille colori. Giorni e giorni a respirare l’odore nauseante degli oli, dei lucidi freschi sui quadri che con voracità dipingeva in continuazione. La stessa voracità con la quale, le sue voci riempivano la sua mente. Non gli davano tregua, e noi, soprattutto io, eravamo il suo capro espiatorio. Pur sapendo che era la malattia a farlo parlare in quel modo così aggressivo, ogni volta mi sentivo come colpita da mille frecce cosparse di veleno, che ti bruciavano dentro. Volevo aiutarlo ma non avevo i mezzi per poterlo fare.

Non avevo solo cambiato casa, anche la mia vita stava pian piano cambiando. Ai primi momenti rigogliosi di curiosità, di speranze, si alternavano giorni bui, aridi alla ricerca di quella fonte di luce che mi avrebbe ridato speranza. La città non mi apparteneva, ero solo un viandante in cerca di qualcosa, un turista di passaggio.

Il mio essere, la mia esistenza era divisa a metà e si alternava tra uno scorrere di rotaie avanti ed indietro per la penisola. Tra Roma e Trieste. Questi anni li avevo riempiti di viaggi. A ogni partenza il cuore si riempiva di gioia, la pelle del viso sembrava rilassarsi e gli occhi tornavano a brillare di una luce diversa. Sapevo che mi aspettava l’altro figlio, mia sorella, mia madre, i cari amici. A ogni arrivo alla stazione Termini era come se i miei polmoni ricominciassero a respirare e la leggerezza avesse preso possesso delle mie gambe. La luce della mia città, la grandezza dei palazzi mi faceva scordare tutto. 

A ogni ripartenza, scendeva sul mio volto un velo grigio di nebbia che si bagnava di lacrime.  

Ecco arrivare i pensieri, i sensi di colpa per aver passato delle belle giornate, per aver riso di cuore per non aver sentito le fitte del dolore dentro di me, perché in quei giorni avevo smesso di pensare alla  malattia.

Mi ci è voluto del tempo per capire che non dovevo sentirmi egoista, una cattiva madre ma che quei viaggi erano la ricarica della mia persona, erano la forza per continuare ad amare, ad abbracciare a sorridere a mio figlio. Ero pronta per affrontare le nuove crisi del ragazzo, quelle tra me e mio marito, perché ogni dolore ogni crisi erano anche le mie, le nostre, vissute ognuna con la propria intensità. 

Avevo continuato tra l’altro a sentire e confrontarmi con lo psicologo di Roma. Dopo tre anni di incontri, lo avevo dovuto lasciare per la partenza, ma non scorderò mai le sue parole salutandomi per l’ultima volta. Mi disse: “Io ci sarò sempre per te, non ti abbandonerò”. 

Così è stato, sempre al mio fianco, a rispondere alle mie chiamate alle mie mail, a incontrarci ogni volta che andavo a Roma. Devo a lui la mia prima consapevolezza di avere forza interiore, di sapermi aggrappare a qualcosa pur di andare avanti, che le mille sfaccettature del mio carattere non sono  difetti, ma sono parte integrante della mia personalità, del mio essere. 

 

Comunicazione

 

La cosa più difficile da comprendere e applicare era la modalità di comunicazione, come riuscire a relazionarsi con chi ha dei problemi di salute mentale ed è un figlio, un fratello, un genitore con il quale hai un legame affettivo ed emotivo molto profondo.  

Con l’aiuto degli operatori e con gran fatica cercai di imparare a relazionarmi in un modo diverso, a cambiare alcuni atteggiamenti impulsivi ma non a tacere o nascondere i dispiaceri, gli affanni, i sentimenti. Tutti i componenti della famiglia dovevano dare lo stesso messaggio, ascoltare e   ascoltarsi.  Non lasciare che i diversi punti di vista creassero confusione nel ragazzo, spiazzamento o complicità negativa a discapito dell’uno o l’altro genitore.  

Dovevo rieducarmi come genitore mantenendo le giuste distanze emotive, cosa non facile e nello stesso tempo  rieducare senza togliere l’individualità della persona a me vicina. I conflitti con me stessa erano sempre presenti come i conflitti con mio marito nel dover essere univoci nel comunicare, così che    le teorie degli scritti, delle parole cozzavano sempre con la realtà. 

La convivenza era sempre più difficile, non era sempre facile parlare, meglio restare in silenzio e quando capivo che non ci riuscivo, andavo fuori di casa per calmarmi e camminavo per la città o prendevo un autobus fino al capolinea e poi tornavo. Era un susseguirsi di giornate estenuanti che non si placavano neanche di notte, l’orecchio sempre teso verso la sua stanza e il cuore in gola. Il pensiero che questa sarebbe stata la mia vita per sempre. La speranza che mio figlio riuscisse a stare meglio, che non ci avrebbe più visto come nemici, così come lo erano la maggior parte delle persone, che le sue paurose voci sparissero, che la vita gli donasse un po’ di serenità.   Ora c’eravamo noi, che almeno gli potevamo togliere  le preoccupazioni primarie, ma dopo? 

Tutti questi pensieri si aggrovigliavano nella mia mente. Sarei mai riuscita ad avere un giusto dialogo con mio figlio, ad aiutarlo se io ero la prima a non essere tranquilla, serena e a volte non disponibile.  

Occorreva staccarsi per il suo e il nostro futuro, prepararlo ad andare a vivere da solo, a superare le difficoltà quotidiane e a convivere con le proprie paure.   

 

Progetti

 

Ci fu proposto dal Csm un primo progetto sperimentale di sei mesi “La Recovery House” in collaborazione anche con terapeuti provenienti dall’estero.

Otto ragazzi tra maschi e femmine ospitati in una villetta con educatori e operatori sempre a loro disposizione. Ognuno aveva la propria stanza, regole per la convivenza, liberi di avere anche i loro spazi privati, liberi di uscire. 

Non fu un percorso facile, tra alti e bassi. Era sperimentale anche per gli educatori e anche loro furono messi a dura prova.

Si susseguirono interruzioni di terapia, giorni e giorni di difficoltà, di rabbia, speranze buttate al vento. Il cammino diventava sempre più arduo.

Seguirono altri progetti, questa volta la convivenza con altre due persone, anch’esse con grandi problemi. Ogni progetto era una speranza, tentativi spesso andati a vuoto. 

Non era la stanchezza fisica, ma quella psicologica. E’ quando la speranza ti viene a mancare, quando tutti i discorsi che hai sentito non ti appartengono più, quando si aprono i mille cassetti pieni delle emozioni, rabbia nel sentirmi impotente di fronte alle crisi di Giacomo, rabbia per essere lontana da Gianni (quante cose della sua vita avevo perso) soffocata a volte dalla paura profonda che ti toglie la linfa che scorre e  la tua colonna vertebrale si curva verso il pavimento e la notte pensi, pensi, pensi finché anche questa stanchezza ti fa chiudere gli occhi.

Spesso, quando tutti i fantasmi mi assalivano prima di addormentarmi, mi imponevo di pensare a cose belle, a fantasticare in mondi magici come una bimba dopo aver ascoltato una bella favola.

A ogni fine o interruzione del progetto il ritorno a casa era traumatico per tutti noi.  

Dovevo domare la rabbia, le angosce, il fallimento, le paure e allora mi programmavo un nuovo viaggio verso la leggerezza, la sopravvivenza, Roma. 

I colloqui con i medici mi fecero capire che l’unico aiuto era non farlo vivere più con noi, metterlo di fronte alla quotidianità, vivere per conto suo. Noi ci saremmo sempre stati, lontani ma vicini, anche noi dovevamo continuare la nostra vita. 

Un passaggio tortuoso. Cercammo insieme una casa in affitto che poteva piacergli e allo stesso tempo essere subito disponibile.

Ne vedemmo alcune, ma ogni volta c’era qualcosa che non andava da parte degli affittuari.

Allora mi resi conto con molta tristezza e rabbia che lo stigma stava avanzando, che vedere un ragazzo pieno di tatuaggi, un po’ assente non dava le giuste garanzie. Certo, ho provato a mettermi nei panni di quegli agenti immobiliari, ma io come madre, ferita per qualcosa di cui nessuno aveva colpa, dovevo in ogni caso trovare una soluzione.

Ricominciai a vedere case, questa volta da sola e facendo capire non apertamente che dovevamo io e mio figlio allontanarci da casa, una pre separazione da mio marito. Per quanto mi riguardava, dissi anche che trascorrevo periodi tra Roma e Trieste per seguire l’altro figlio.  

Trovai subito una casa in affitto e così fu l’inizio di un’altra avventura. Non mi aveva fatto piacere dover mentire, inventarmi una storia, ma che altro potevo fare? Per i primi tempi mi facevo vedere spesso in quella casa, poi  passavo ogni tanto. Quanto sarebbe stato più facile dire la verità, ma la verità veniva letta negli occhi di mio figlio. Anche se mi trovavo in questa città, dove si erano combattute tante battaglie, lo stigma esisteva lo stesso.

Giacomo traslocò nella sua prima casa, anche questa piena di luce, già arredata. Comprammo tutte le cose che gli mancavano per finire di arredare il bagno e la cucina. Era contento e spaventato nello stesso tempo. Si sentiva, forse mandato via da casa. Era stato preparato a questo cambiamento, avevamo fatto degli incontri tutti insieme. Veniva sempre seguito da educatori che lo andavano a trovare, lo aiutavano nella gestione della casa. All’inizio sembrava andare tutto bene, noi sempre una presenza non invasiva. Fu affidato a un educatore il budget di spesa mensile, per il sostentamento e per gli hobby. 

Il nostro compito era quello di incontrarlo il meno possibile, farlo salire a casa poche volte, lasciare che se la sbrigasse da solo. Giacomo sapeva cavarsela bene nelle faccende pratiche di vita quotidiana, con i suoi metodi, con le sue scelte. Ne ero stata sempre convinta, in fondo gli avevo dato delle dritte fin da piccolo. 

In quel periodo ripensai alla frase scritta sul muro a San Giovanni, “la libertà è terapeutica”. 

Certo la libertà puramente fisica, ma quella psichica?

Come poteva essere libero, se le sue paranoie, le sue voci affollavano sempre la sua mente, se le paure si ingigantivano sempre di più anche aiutate da interruzioni continue di terapie, se non si accettava fisicamente, se non accettava la malattia stessa. Un susseguirsi di incontri sbagliati pur di aggrapparsi a qualcuno per avere amicizia, ma quella era solo complicità per un bicchiere in più.

Una libertà piena di solitudine, senza la speranza di avere una compagna, di farsi una famiglia. 

Noi eravamo diventati i suoi grandi nemici, lo avevamo abbandonato mandandolo a vivere da solo.

Ormai i miei cassetti erano stracolmi di negatività che traboccavano, spargendo in terra impotenza, rabbia, delusione, mi sentivo ostaggio dei miei sentimenti, di tutto ciò che mi girava intorno. Volevo scappare per sempre, lontano da tutti, mettere la testa sotto la sabbia per non vedere soffrire mio figlio, me stessa.

Quell’affaccio sul balcone che la mattina mi dava serenità, era diventato un incubo. Come una ladra dietro le tendine della finestra, scrutavo mio figlio seduto nella piazza. Non mi doveva vedere, altrimenti sarebbe salito. Lo vedevo avvicinarsi a un barbone che con il suo bricco di vino in mano gli offriva da bere in cambio di sigarette. Oblio per la sua mente. Che male dentro nel vederlo così perso! 

La piazza era diventata un incubo, soprattutto la notte.  Lasciai l’Associazione e tutto ciò che poteva essere inerente alla salute mentale. La salute mentale mi stava soffocando.

Mi sentivo come in una navicella spaziale rimasta a ondeggiare nell’infinito universo, pieno di silenzi, circondata da nebulose che davano insicurezza e nello stesso tempo attraversata da continue meteoriti, pronte a spingermi in un’altra dimensione, verso buchi neri.

In quindici anni avevo attraversato tante, troppe dimensioni parallele alla vita di mio figlio. 

Non sapevo più se fosse stato giusto trasferirmi qui, alla ricerca di una vita migliore per mio figlio e una tranquillità per noi. Non esisteva una strada giusta né qui, né a Roma, né altrove, ma una fitta rete di strade, incroci, tunnel che non finivano mai, allora tutto questo a cosa era servito? Pensavo allora a ciò che avrebbe trovato mio figlio nelle strutture di Roma, solo dispensatori di medicine, nessun progetto riabilitativo, nessuna accoglienza. E a come sarebbe stata la vita dell’altro figlio rimasto a Roma se non fossimo partiti. Si era sposato e ci aveva dato un bel nipotino. Che emozione nel vedere che la vita si era rinnovata. Ero diventata nonna e non mi persi neanche un attimo di quella nascita, in quella notte così lunga insieme agli amici dei ragazzi, alla sorella e al padre della moglie di Gianni.

Arrivai alla conclusione che la nostra partenza, pur piena di sofferenza aveva salvato almeno la vita di un figlio. L’altra non avrei mai potuta cambiarla.  

Iniziavo una vita molto più solitaria, avendo chiuso tutti i collegamenti con gli altri. Mi dedicai al volontariato in chiesa, che mi portava di fronte ad altre realtà che potevo vivere con distacco emotivo. La città non mi interessava più, mi stavo chiudendo e ne ero consapevole. Forse la presunzione di sentirmi troppo diversa da chi mi circondava. Ma questa sensazione mi ha sempre seguita negli anni, anche da bambina e poi da ragazza. Non che io mi sentissi superiore agli altri, anzi il contrario, ma ostinata nelle mie idee, nei miei modi di fare e di essere. Categorica su alcuni aspetti della vita e anarchica in altri. 

La piazza

 

Ero arrivata ad avere timore di mio figlio, a non sopportare più le sue paranoie, le sue crisi seguite da ricoveri, la sua solitudine, le sue voci, le corse dagli avvocati per cercare di riparare quello che accadeva quando era in crisi. 

Il colmo arrivò in una notte di maggio, nella stessa piazza che mi aveva rallegrato con le grida dei bambini che giocavano, con le babe (signore anziane) pronte ad intrecciare discorsi e pettegolezzi.

In quella notte di fine maggio tentarono di uccidere mio figlio e solo la sua forza di chiedere aiuto e la prontezza di alcune persone gli salvò la vita. Ricevetti la mattina seguente una telefonata dall’Ospedale, mi avvisava che mio figlio era ricoverato per un incidente. Presi un taxi e dicendomi di rimanere calma, dal pronto soccorso mi mandarono  al reparto di rianimazione. Un macigno mi si era  posato in testa, ma dovevo mantenere l’equilibro, stendere dritte le gambe che si piegavano sotto quel peso e rimanere lucida, indifferente al dolore, dovevo affrontare la situazione. I Medici mi spiegarono accuratamente cosa gli avevano fatto e come erano intervenuti. La frase, fuori pericolo, fu come un laser che frantumava una parte di quel masso che avevo in testa, alleggerendone il peso. Lo vidi, in quella stanza di rianimazione, ossigeno, tubi e tubicini che uscivano dal costato, ma nel sentirlo quasi brontolare, mi risollevai. Pochi minuti potevo rimanere, uscii per ritornare poi nel pomeriggio.     

Come un torrente, che  scende e prende forza fino a raggiungere il punto di vuoto dove le sue acque precipitano violentemente giù a valle, così tutta la fermezza che avevo avuto fino a quel momento, mi scendeva giù, sempre più veloce precipitando in un irrefrenabile pianto mentre chiamavo mia sorella, mio figlio a Roma. 

Dovevo calmarmi, riacquistare lucidità e fermezza, mio marito stava tornando dal lavoro, non gli avevo detto nulla di proposito, preoccupata dalla reazione che avrebbe avuto.  

Il crollo di un padre e di una madre che avevano fatto di tutto, avevano allontanato il figlio da una città che poteva avere più pericoli, da una sanità quasi inesistente eppure proprio qui, in questa piccola città era accaduto il fatto più grave della vita del proprio figlio. Il nostro era stato un fallimento completo.  

Arrivarono nello stesso pomeriggio il fratello e la zia che dopo la mia telefonata si misero subito in macchina.   La nostra forza è stata sempre quella di avere vicino il resto della famiglia, unico grande conforto della mia vita. Nessuno dei nostri parenti si era allontanato da tutta questa vicenda, avevano sempre cercato di capire, di aiutarci, di spronarci a superare e sperare nel futuro. Molte sono le realtà in cui le famiglie si frantumano, va avanti un solo genitore, e i parenti scappano o non vogliono sapere.   

Da quel giorno la piazza per me non fu più la stessa. La sera prima di coricarmi facevo fatica a chiudere le finestre che si affacciavano sul luogo del misfatto, era piena di ombre, di ricordi.

 

La Fenice

 Ogni volta mi ero rialzata ed anche questa volta dovevo farlo, la più difficile in assoluto, raccolsi tutte mie forze, dovevo andare avanti!

La permanenza nella casa in affitto durò un anno, ritornò da noi. Seguirono giorni, mesi tremendi, pieni di fantasmi che giravano tutt’intorno. Rifiutava le cure e tutto si ingigantiva, tutti complottavano contro di lui, ogni persona era un nemico che voleva toglierli la libertà, l’anima.

Riacquistare la fiducia nel suo medico, in noi, sembrava una realtà impossibile, la città gli era contro e l’avevano dimostrato tentando di ucciderlo. 

La mia reazione era combattere e farlo a testa alta. Guai a chi in strada lo guardava con occhio strano, il mio sguardo diventava feroce e protettivo come quello della leonessa che nel pericolo difende i suoi cuccioli. Eravamo stati messi a dura prova tutti, medici, educatori, infermieri e proprio con loro iniziammo un lavoro collettivo, ognuno per le proprie competenze. Venimmo chiamati dallo psichiatra che ci informò su un nuovo farmaco. Quest’ultima aveva dato dei buoni risultati in molte persone, ma era l’ultima occasione da provare, sempre che Giacomo l’accettasse. Ormai Giacomo, stremato dall’ennesima interruzione dei farmaci, dall’aggressione, da tutte le sue paranoie e paure accettò il nuovo farmaco.

Il progetto stava portando dei buoni risultati, la rinascita dalle ceneri, come la fenice.

Una nuova casa, un nuovo inizio per tutti. Aveva incontrato anche un suo amico che andò ad abitare con lui, aveva un lavoro. Non avevamo mai visto Giacomo così positivo, contento del lavoro che aveva, contento di avere un amico in casa con il quale scambiare parole, passare del tempo.

Non ero mai stata così tranquilla e contenta come in quel periodo, il più lungo. C’era stata una rinascita, un cambiamento inaspettato. Era ritornato il sorriso su tutti noi, l’ansia ci aveva lasciato. I rapporti interpersonali erano cambiati, si riusciva a parlare di varie cose, a fare battute di spirito senza che venissero travisate. Ogni domenica si stava insieme per una breve passeggiata e poi a pranzo fuori. Andammo in vacanza una settimana portando con noi il suo amico.

Che bello vederli andare a spasso insieme, prendere il sole e bagnarsi nel vicino ruscello. 

Sentirli ridere e parlottare tra loro. 

In quei momenti mi sentivo in uno stato di grazia, quanti abbracci ci siamo scambiati. 

Speravo che anche lui avesse capito come la sua vita era migliorata e che forse era arrivata una certa stabilità con la consapevolezza che i farmaci andavano presi sempre. In quel periodo lo avevo visto sorridere, scherzare con l’amico, il suo sguardo non era più di un profondo cupo. Vivevo quegli attimi di felicità, la mente si era sgombrata perché quel sorriso era apparso come il raggio di sole che con tutta la sua forza aveva scansato le nuvole cariche di poggia per ridare splendore e calore alla terra. Poi arrivò il Covid-19 che bloccò le attività, limitò gli incontri con gli operatori e in quella stasi forse cominciò a cambiare qualcosa. Ma il “Mostro” così come chiamavo io la sua malattia, era sempre in agguato. Pronto come il polpo che nascosto nella sua tana, sta lì nell’oscurità aspettando che la preda  si avvicini per prenderla con i suoi tentacoli. 

Già prima di partire per questa vacanza, erano iniziate le prime avvisaglie, sottili, latenti. Richiamato a riprendere il lavoro, dopo il lockdawn, non aveva accettato. L’entusiasmo per il nuovo farmaco stava scemando fino al punto di non prenderlo più. Andammo in vacanza, ignari che ormai aveva preso la sua decisione. Nulla in quella settimana faceva prevedere l’ennesima crisi data dall’interruzione dei farmaci. Il mostro aveva riagguantato la preda.

Ogni interruzione rendeva sempre più difficile il recupero. Si ricominciava daccapo, con nuove strategie da elaborare, con nuovi distanziamenti, nuovi ricatti nei nostri confronti, silenzi assordanti con gli operatori e il medico. 

Nella mia mente rimbombava la solita domanda: “supereremo anche questa?”

 

Una guerra infinita

Ero arrivata a definire questa vita una guerra infinita, si combatteva su fronti ogni volta diversi. Spesso nemici sullo stesso fronte, spesso disertori per sopravvivenza, ma senza vinti o vincitori.

Nemici invisibili, creati dalla mente. Una guerra dove c’erano delle vittorie ogni tanto ma che si annullavano di fronte ai cadaveri dei sentimenti, delle emozioni colpite da proiettili fantasmi.

Ferite profonde che si rimarginavano in tanto tempo e bastava poco per farle sanguinare.

Assalti per riprendere una postazione perduta, un nuovo avanzamento pieno di grida di gioia, di abbracci, di tregue per ricominciare a respirare, per calmare la rabbia e l’impotenza di una guerra fatta da un nemico che rifletteva la sua immagine come in uno specchio, ripetendo sempre la stessa tattica come se la memoria ed il dolore delle ferite non rimanesse impresso nella mente.

Avevo capito e cercato di accettare che questa era la realtà della mia vita, della nostra vita. Questa città aveva fatto tanto per la nostra famiglia e ci aveva reso più forti e consapevoli. Insegnato a cogliere gli attimi più belli e a dissipare i momenti più brutti. A saper cogliere la sofferenza, a saperla digerire, reinventandosi ogni volta.  Non è stato facile capire e accettare la malattia mentale che non mostra segni evidenti se non al culmine di una crisi. Si lotta con un nemico, che non vede come vedi tu, che non sente quello che senti tu. Le emozioni, le frustrazioni, le ansie sono scoperte come una ferita causata dal fuoco, si può provare a curarle, a sanarle ma nessuno mai finora ha trovato la causa di queste ferite. La società ha ancora molto da imparare. Siamo ancora tutti impauriti dalle così dette diversità non capendo che ci appartengono, ne facciamo parte perché ognuno di noi è una diversità.  

 

Conclusione

 

Ho narrato la mia esperienza con la salute mentale. Il coinvolgimento e lo sconvolgimento che ha portato in me, nella mia famiglia ed in tutto ciò che la circonda.     

E il cammino continua … 

 

*Rossella Morricone attiva nelle associazioni di cittadini e familiari per la salute mentale