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di Mattia Feltri

[Pubblicato su La Stampa il 29/03/2017]

L’eterno poema della follia ha trovato una struggente, commovente, irresistibile interprete in Valeria Bruni Tedeschi, che sul palco per il David di Donatello come migliore attrice ha ringraziato Franco Basaglia, che cambiò l’approccio alla malattia mentale, ha ringraziato Barbara che le propose la sua amicizia il primo giorno d’asilo dandole la focaccia, e facendola sentire magicamente non più sola, ha ringraziato Leopardi, Ungaretti, Pavese, Natalia Ginzburg che la illumina e la consola, la sua povera psicanalista, Anna Magnani, Brassens, Chopin, De André, sua mamma, sua zia, sua sorella, gli uomini che l’hanno amata riamati e anche quelli che l’hanno lasciata, il regista Paolo Virzì che la guarda senza paura, il mondo triste buffo e fantasioso del cinema.

Ha ringraziato tutti, interminabile, desacralizzante, ridendo e piangendo. E ridendo e piangendo ha distrutto pezzo a pezzo la liturgia della presentabilità sociale di questi show di cartone, autocelebrativi, mascherati di falsa modestia, fitti di complimenti vicendevoli e speculari, di grazie al pubblico, senza non sarei nulla. Ha frantumato l’ultima inutile recita buttandoci dentro la vita, la bimba che era, la donna che ha amato, ha letto, è cresciuta, il riso e il pianto, la forza fragile e l’abbandono, il profondo e il profondissimo. Dicono i medici che la normalità è una questione statistica, soltanto un comportamento consueto è normale. E poi salta su una donna e dice: è la vostra consuetudine vile a essere folle. Dovremmo ringraziarlo tutti, Franco Basaglia.

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