Abbiamo ricevuto l’invito a promuovere questa intervista a Loretta Rossi Stuart che parla della situazione di suo figlio attualmente in carcere. «Giacomo è bipolare – dice ed è ancora ingiustamente in carcere». L’esperienza che Loretta sta vivendo non è unica. Sappiamo con certezza di altre situazioni simili, molte sicuramente meno drammatiche ma non meno significative, che evidenziano quanto si deve fare ancora per garantire percorsi di cura ora possibili dopo la chiusura degli Opg. La creazione delle residenze per l’esecuzione della misura di sicurezza (Rems) che, con molta meraviglia per l’inaspettata rapidità, si è realizzata in tutte le regioni italiane, non può essere la sola risposta alle singolari e dolorose questioni che vivono le persone. Le Rems non possono (non devono) essere il contenitore che prende il posto degli Opg. La fine del manicomio giudiziario pretende strategie, risorse, culture capaci di prendere in carico le persone con progetti terapeutici riabilitativi individuali; con la presenza necessaria del Dipartimento di salute mentale e di tutti gli attori di quel territorio. Nei luoghi dove questo accade, e non sono pochi, si trovano mediamente alternative alla detenzione, non sempre e non necessariamente nella Rems. E non si parla di liste di attesa.

È di questi giorni la ripresa di una discussione intorno all’articolo 88 del Codice Penale sulla non imputabilità, che Franco Corleone, già Sottosegretario alla Giustizia, propone di abolire. In pratica: tutti gli autori del reato anche quando affetti da un disturbo mentale sono imputabili, devono essere giudicati e, se responsabili, condannati. L’esecuzione della pena dovrà sempre essere condizionata e subordinata al bisogno di cure e sempre, quando necessario, con programmi e misure alternative alla detenzione. La denuncia di Loretta e l’auspicata abolizione dell’infermità di mente convergono in un punto che ormai da decenni, dal lontano 1980, molti di noi hanno cercato di sviluppare e renderne possibile una reale concreta realizzazione.

È sempre più evidente oggi, specie dopo la chiusura degli Opg, che è possibile affrontare la questione del reato, della malattia, del diritto alla cura e del diritto al processo in tutt’altro modo. Le insensatezze che il figlio di Loretta ha dovuto e deve attraversare sono la conseguenza della persistenza di culture e procedure arcaiche e fuori da ogni tempo.

Che cos’è la perizia psichiatrica? Cosa dovrebbe essere oggi? Quanto essa stessa, figlia del tempo glorioso del positivismo scientifico, dovrebbe essere discussa dalle radici alle sue inutili e nefaste conseguenze? E ancora fino a quando dovremo accettare, come un dato indiscutibile, la fragilità, spesso l’inconsistenza, delle reti dei servizi di salute mentale? I servizi di salute mentale devono (dovrebbero) in ogni caso prendere in carico quella persona, produrre insieme a tutte le agenzie di quel territorio, prima fra tutti la magistratura, il progetto terapeutico e condurlo non solo nell’obiettivo della miglior cura nel rispetto dei diritti, ma anche della garanzia della libertà nei limiti dell’esecuzione della pena sempre quando necessario in alternativa al carcere.

Non possiamo che sostenere l’impegno di Loretta. Un abbraccio.

lorettarossistuart1_figlio_[articolo uscito su BipolarInformati]

Oggi vi propongo un’intervista all’attrice Loretta Rossi Stuart, sorella del più noto Kim Rossi Stuart, sul caso di suo figlio Giacomo che è affetto da disturbo bipolare e si trova incarcerato a Rebibbia. Giacomo Seydou Sy, nonostante sia stato dichiarato «inadatto al regime carcerario» da una relazione psichiatrica condotta dal professor Roberto Delle Chiaie, è in carcere anziché stare in una struttura di cura (Rems). Loretta non sia sta battendo solo per suo figlio, ma anche per le altre duecento persone che in Italia si trovano nella stessa situazione.

Come è arrivata la diagnosi di suo figlio Giacomo?

Il suo primo episodio psicotico è avvenuto a seguito di uso di sostanze, all’età di diciotto anni. Prima di allora nulla era trapelato rispetto a disturbi psichici o della personalità. Dopo una lunga e travagliata fase di non chiarezza rispetto al suo quadro (il limitato uso di sostanze non giustificava tali stati di delirio), si è delineata una diagnosi di bipolarismo di tipo uno, a cura della dottoressa del Sert che lo seguiva, nonché in seguito il Professor Delle Chiaie ha confermato la diagnosi sottolineando il fatto che, se non “amplificato” dall’uso di alcol e sostanze, è un bipolarismo assolutamente contenibile.

Qual è stato l’evento che ha portato all’arresto?

Era in stato di delirio e ha fatto resistenza a pubblico ufficiale la prima volta, motivo per cui ha avuto infermità mentale al momento dell’atto e conseguentemente pericolosità sociale e condanna ad un anno di Rems (residenza esecuzione misura di sicurezza). Ma la Rems non aveva posti e purtroppo, dopo venir rifiutato dalla comunità, ha commesso un piccolo furto sempre in stato mentale alterato, e per questo ha avuto una condanna che ha finito di scontare a maggio scorso.

Perché suo figlio non è stato scarcerato quando è stato prosciolto?

Proprio perché pendeva il procedimento precedente (un anno di Rems) ecco che nonostante fosse finita la sua pena, si è visto trattenuto dal carcere “ad oltranza”, ovvero finché non si liberi un posto nella famosa Rems. Questa è la legge paradossale che crea una sorta di sequestro di persona da parte del carcere per colpa della mancanza di strutture e caos nelle liste d’attesa.

Prima che fosse incarcerato suo figlio era stato accolto in una comunità a doppia diagnosi per cinque mesi. Finito quel periodo gli hanno negato un nuovo accesso. Come mai?

Perché applicano un metodo assurdo e non più adatto ai tempi: richiedono un atteggiamento di volontà e disposizione a percorrere il percorso, cosa che una persona delirante non può garantire, ovviamente… Quindi, dopo il permesso di qualche giorno che gli avevano concesso, dal momento che, purtroppo, il ragazzo era ricaduto e voleva rientrare, la psichiatra non ha ritenuto che avesse l’atteggiamento giusto. Dopo tre giorni l’hanno arrestato. Il problema è che le comunità devono attrezzarsi per queste nuove situazioni che, ahimè, saranno sempre più frequenti, dove l’uso di droghe sintetiche scatena i problemi psichiatrici e con una persona con problemi psichiatrici devi cambiare metodi e strumenti, creare strutture intermedie di sicurezza, che possano contenere i picchi e i momenti di alterazione estrema delle persone.

Cosa non funziona secondo lei nel sistema giudiziario attuale per cui spesso i malati di patologie psichiatriche che compiono anche minimi reati si trovano costretti in carcere?

La riforma del 2015 che ha portato alla chiusura degli Opg, quanto mai necessaria e dovuta, non ha ancora trovato la giusta conclusione: la creazione di realtà alternative più umane come le Rems dove si assistono al massimo 20 pazienti è ancora limitata. In Italia su circa 120 strutture necessarie, ce ne sono 80, nel Lazio sono 4, la lista di attesa è di almeno un anno e nel frattempo? Alcuni si trovano in libertà, a rischio per se stessi e gli altri, ed altri come Giacomo, circa 200 in tutta Italia, si trovano internati, e questo senza nessuna logica o legge: a seconda di circostanze, magistrato che capita e non so cosa altro. Fatto sta che gli stessi avvocati brancolano nel buio, gli stessi magistrati vengono danneggiati da tale caos legislativo, le stesse carceri sono in un certo senso vittime di questo stato di cose.

Le persone bipolari necessitano di cure psichiatriche adeguate e di psicoterapia. Suo figlio è seguito in questo senso in carcere?

Lui è stato tenuto in isolamento un mese appena arrestato perché non avevano altri strumenti per calmarlo, vi rendete conto? Anche una persona equilibrata diventa pazza…ho lottato in ogni modo per farlo trasferire, ho dovuto far uscire un articolo di denuncia, ho minacciato di legarmi sotto Rebibbia…questo forse ha fatto si che lo seguissero un po’ di più. Quindi un supporto psicologico e una cura psichiatrica l’ha avuto, ovviamente il tutto è assolutamente non sufficiente! Penso agli altri, ai figli di nessuno, agli stranieri e vorrei fare qualcosa per tutti loro. Per fortuna ci sono valide persone che lottano e sostengono gli ultimi, come la garante delle persone detenute del comune di Roma, Gabriella Stramaccioni, senza la quale mi sarei sentita perduta.

Che cosa le racconta suo figlio della dura esperienza che sta vivendo?

Convive con i mostri incontrati in questa dura e buia esperienza. Io lo sostengo tantissimo, spronandolo a sradicare la sua dipendenza, a riprendere la sua vita in mano e a far sì che lui possa un giorno mettere in guardia le giovani generazioni dall’abisso della droga. L’aspetto del bipolarismo lo affronteremo, alla fine siamo tutti un po’ bipolari, bisogna individuare ciò che ci aiuta a mantenere l’equilibrio tra gli opposti. Io per esempio uso la meditazione e il contatto con la natura, cosa che ho cercato di trasmettere ai miei due figli.

Che cosa la preoccupa di più come madre?

Mio figlio maggiore è molto equilibrato, si sta laureando, è super responsabile, ha le sue fragilità come tutti, ma non mi preoccupa. Ovviamente ha risentito molto di questi anni di continua emergenza con Giacomo, motivo per cui da un paio d’anni l’ho “costretto” a pensare alla sua vita, rassicurandolo che io ce la farò da sola. Ora è una fase delicatissima con Giacomo, siamo ad un bivio, o salvezza o fine. La sua fragilità psichica è tale che non potrà più neanche bere una birra, e questa sarà la meta, il momento che uscirà dal carcere, diventare un monaco-atleta, lui è un potenziale campione di boxe. Sto combattendo perché al più presto venga trasferito in comunità, con la speranza che questa volta la struttura sia all’altezza e Giacomo più maturo.

Lei ha organizzato lo scorso 12 novembre a Roma un convegno su detenzione e disagio psichico. Cosa è emerso dal convegno?

Una piccola vittoria! Con la garante e delle dottoresse “guerriere” che mi hanno affiancato, siamo riuscite a sottoporre all’assessore alla sanità della regione Lazio la problematica delle liste d’attesa per le Rems, facendogli capire che il problema sorge dalla mancanza di comunicazione tra magistratura, centro salute mentale, Sert e carceri. Ci sono persone in Rems che non ne hanno più bisogno ma tolgono il posto a chi ne ha. O peggio persone che nel frattempo si sono tranquillizzate, hanno trovato casa e lavoro, ma vengono dopo più di un anno richiamate ad entrare nella Rems quando non ne hanno più bisogno. Abbiamo quindi chiesto che, oltre alla realizzazione di nuove strutture (e l’assessore D’Amato ci ha dato in occasione del convegno la notizia che a gennaio ne aprirà una per 15 posti a Rieti), venga istituita una commissione per la valutazione “personalizzata” dei casi, con la collaborazione di operatori appositi in modo da evitare l’intasamento delle liste d’attesa. Una grande soddisfazione: la proposta da parte di una dottoressa di chiamarla commissione Giacomo!

In che modo sta portando avanti la sua battaglia e chi la sta aiutando?

Alla squadra si sono aggiunte due avvocatesse a dare sostegno all’angelo custode che è l’avvocato di Giacomo, Giancarlo Di Rosa. Loro sono esperte della Corte Europea dei Diritti Umani e con loro daremo corso ad una battaglia che andrà a beneficio di tutte le persone che si sono trovate illegalmente detenute come mio figlio.

Cosa potrebbe fare chi ci legge per supportarla nella sua causa?

Quando avrò riacquisito la forza e la lucidità mentale necessaria (ora le mie ultime energie le devo dedicare al trasferimento di Giacomo), mi piacerebbe creare un’associazione di mamme o chiunque abbia bisogno di confrontarsi con le problematiche che ho incontrato io. Mi scrivono madri disperate, abbandonate dalle istituzioni, ma anche donne coraggiose che mi esprimono stima e solidarietà. Non so ancora bene, nel caso, vi farò sapere come unirvi a me, di certo da sole non ce la si può fare.

Write A Comment