(di Korallina)

Il mondo è un grande autobus all’ora di punta che corre una corsa senza fermate. Scagli la prima pietra quell’esasperato tra noi che non ha detto almeno una volta: fermatelo, voglio scendere! E che mentre lo diceva non gli è venuto da ridere, come si ride al risveglio dopo una notte di sogni surreali e assurdi. Ciò nonostante, è una tentazione dura a morire. Come una droga, se non la madre di tutte le droghe.

Disintossicarci dall’idea che possiamo fermare l’autobus mondo e scendere quando ci pare è, credo, la sfida odierna che ci terrà occupati per un bel po’ di tempo. Sempre che quanto ci interessi sia arrivare al capolinea integri, senza mangiarci l’un con l’altro o come quei polli che pressati nei lager industriali si danno il colpo di grazia da soli, sgozzandosi a colpi di becco proprio.

Anni fa in un’intervista in occasione dell’uscita del suo libro “Illuminismo e illuminazione” il filosofo Giangiorgio Pasqualotto disse: «Un individuo non “entra in relazione” ma è relazione. […] L’Io si può associare a una comunità ma, a ben vedere, non “entra in una comunità”, perché di per sé è già una comunità».

Una teoria ovvero sguardo sul mondo ribadita dal filosofo anche in un recente incontro interreligioso a Genova, dove esponenti di scuole di pensiero e ancor prima di vita differenti hanno dialogato intorno all’arduo tema della convivenza.

Mi piace immaginare che lo spazio vitale sull’autobus mondo possa organizzarsi su un simile illuminato (e non illuministico) criterio. Lo stesso che una certa filosofia orientale, nella fattispecie l’insegnamento del “Sutra del Loto” – il più autorevole e rivoluzionario testo buddista a noi pervenuto – definisce “origine dipendente” o eng(h)i. Secondo il quale, usando una metafora, noi si è tronchi e rami e foglie di un albero con una sola radice oppure un mazzo di palloncini fluttuanti nell’aria tenuti insieme da un unico nodo. Vasi comunicanti, in termini di cruda fisica.

L’individualismo, l’esistere fini a noi stessi slegati dall’altro, gli altri e il contesto sociale, sembrerebbe essere pertanto una pia illusione, e che come qualsivoglia chimera distrae dal presente qui e ora in nome di un altrove che non esiste. Non a caso sempre più diagnosti, laici come religiosi, riconoscono la causa dei nostri mali proprio in questa visione deforme della realtà. La medesima che ci autorizza a credere che si possa fermare l’autobus mondo e scendere. Per andare in quel dove che non c’è.

Tutto fa credere che l’umana dimensione sia la vicinanza. Quando viene a mancare, ogni cosa perde senso, e lentamente noi si muore, dispersi in noi stessi. Al di fuori della prossimità vivere è faticoso, alle volte insopportabile. Allo stesso tempo altrettanto faticoso risulta vivere gomito a gomito con gli altri; gli esempi in un verso e nell’altro sono infiniti.

Che si fa, allora? A chi o che cosa l’ingrato compito di renderci la corsa non solo sostenibile, ma confortevole, piacevole, quel genere di viaggio che potendo tornare indietro lo si rifarebbe, senza cambiare virgola.

Non penso che la soluzione sia votarci a qualche santo seduto in parlamento o nell’alto dei cieli. Penso a poteri questi sì altri, ma solo in quanto inesplorati, di cui abbiamo poca consapevolezza se non nulla. Poteri morbidi che in noi dormono ma che basta un niente a destare, come per esempio il benché più remoto sospetto che un mio gesto, una singola parola faccia la differenza. Che con me o senza di me non è la stessa cosa. Che quella benevolenza verso il prossimo talvolta così difficile a inventarsi inizi dall’empatia con un me che rifiuto, antipatico e sfigato. Che se ti respingo o ti evito, è perché non so andare incontro a me stesso, accogliermi. Che il bello che non vedo in te è il non bello di me che non so trasformare. Perché mi sono convinto di non averne la capacità. La forza. La tenacia. Il coraggio. Non so benvolere perché non so benvolermi, nessuno me lo ha insegnato, tutto qui.

Tutto qui, appunto. Se sono un asino in fatto di tabelline non mi resta che impararle. Se voglio che i conti mi tornino devo fare esercizio.

L’aritmetica della vita non è dissimile da qualunque altra. La si impara sbagliando. Possiamo imparare a vivere e convivere proprio perché non lo sappiamo fare. Allora l’intolleranza, la violenza e l’odio cui sembriamo destinati nostro malgrado, non saranno che l’infelice partenza di un felice arrivo. E la corsa, il viaggio saranno di quelli che un giorno qualcuno racconterà come la più stupefacente delle avventure. Del genere che ha cambiato la storia, in meglio se occorre specificare.

1 Comment

  1. Leda Cossu

    L’individuo, il contesto sociale. L’io e la relazione,i poteri morbidi di ciascuno di noi nell’autobus-mondo di Korallina.. dove il viaggio migliora se faccio un gesto.
    Eh si, è la magia della vita e degli incontri, anche con me stessa, ogni giorno diversa io e diverso il mondo, scoprirlo lascia col fiato sospeso, è un’emozione la vita, da incontrare ogni giorno, perfetta no, saremmo degli dèi crudeli a pretenderla perfetta. L’imperfezione ha un senso in sè, e l’errore o il mancante è quello spazio che dà la possibilità agli altri esseri umani di fare un passo avanti.. un gesto. La magia della vita accade se c’è un movimento, un gesto… di vita, un incontro con me stessa e con un altro essere umano. Ciao Korallina, Leda

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