di Mario Spada

La guerra in Ucraina e le minacce di crisi di governo mettono un po’ in ombra il PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza) ma  non fermano l’orologio che scandisce la tempistica del percorso di attuazione delle riforme previste dal Piano. Governo Regioni e Comuni dovranno intensificare gli sforzi per la realizzazione dei progetti superando le difficoltà dovute principalmente ad una macchina amministrativa nella maggior parte dei casi obsoleta, inficiata dal mancato turnover, restìa a occuparsi di altro che non sia l’ordinaria amministrazione.

Tra le riforme previste è compresa quella del Sistema Sanitario che ha dato pessima prova di sé nel corso della pandemia. Sono stati gli stessi medici ospedalieri e di base nella fase acuta del contagio e dei ricoveri in terapia intensiva a denunciare la crisi di un sistema  incentrato sugli ospedali, privo di  ramificazioni territoriali cioè di strutture sanitarie di prossimità che avrebbero consentito la cura domiciliare dei casi meno gravi. Il PNRR non poteva non prendere in considerazione questa grave carenza alla quale pone rimedio con la missione 6 componente 1 che prevede di rafforzare i servizi di prossimità e domiciliari con la realizzazione di 1288 Case della Comunità che avranno il compito di coniugare specialità mediche e assistenza sociale in una visione olistica della cura.  La Casa della Comunità sarà una struttura fisica in cui opererà un team multidisciplinare di medici , infermieri di comunità  e  assistenti sociali . Secondo indicazioni più dettagliate ci dovrebbe essere una Casa della Comunità ogni 25.000 abitanti e di conseguenza il numero delle Case dovrebbe essere quasi raddoppiato secondo una ricerca di Nomisma.  A causa dell’ implicito obbligo contenuto nel PNRR di non produrre consumo di suolo Comuni dovranno rapidamente indicare quali  strutture edilizie esistenti da ristrutturare potranno ospitare l’insieme dei servizi previsti . Non sarà facile reperire contenitori di idonee dimensioni. Inoltre, ammesso che siano rispettati  i tempi di ristrutturazione , dovrà essere definito il piano di gestione e attivato prima della scadenza  del 2026. Insomma il percorso è in salita soprattutto se si pensa alle difficoltà economiche insorte a causa della guerra in Ucraina che è presumibile si aggraveranno nel corso del tempo.

 Ma quale sarà il modello di gestione delle Case della Comunità?  Alcune Regioni hanno ottenuto l’approvazione dei progetti per la sperimentazione delle strutture di prossimità in attuazione dell’Intesa Stato Regioni del 4 agosto 2021( Rep. Atti n. 134/CSR). L’ attività di sperimentazione dovrà conformarsi alle linee di indirizzo indicate dal Ministero della Salute e concludersi entro la fine del 2022 .  Tra le Regioni che hanno deliberato in proposito c’è la Regione Emilia-Romagna che non ha avuto difficoltà a presentare il progetto in quanto deve solo implementare le strutture esistenti denominate “Casa della Salute” (delibera n. 240 del 29-11-2021 della Giunta Regionale) trasformandole in Case della Comunità . Obiettivo primario è quello di  sperimentare nuovi progetti di prevenzione e promozione della Salute intesa come benessere bio-psico-sociale sia individuale che comunitario, coinvolgendo attivamente volontariato associazioni di categoria e tutta la comunità.  Per raggiungere l’obiettivo si prevede di realizzare una rete di servizi di cui  la   Casa della Comunità costituisce l’hub, con tutte le strutture e le istituzioni che nel territorio sono luoghi nei quali si produce salute (scuole, mondo del lavoro, espressioni culturali sia formali che informali).  E’ inoltre prevista la formazione di nuove figure professionali come il facilitatore comunicativo/ agente di comunità capace di leggere il contesto sociale e intercettare i più deboli anche grazie al coinvolgimento di esponenti della comunità locale.

Sono parole che  richiamano il progetto “microaree” avviato a Trieste nel 2005 con il quale si sono sperimentati nuovi percorsi di salute mentale in contrasto con la cultura dell’internamento e del ricovero, verificando la possibilità di curare partendo dalle condizioni di vita dei soggetti nel loro habitat. E’ una sperimentazione efficacemente descritta nel libro “La città che cura” di Giovanna Gallio e Maria Grazia Cogliati Dezza pubblicato nel 2018  .

Il termine “microaree” definisce i contorni dentro i quali si è mossa la sperimentazione, in mezzo ai grandi caseggiati di case popolari o dentro insediamenti abbastanza estesi ma non troppo in modo da poter avviare un processo conoscitivo su due piani paralleli: da un lato la mappa delle risorse esistenti ricostruendo strada per strada le condizioni abitative, la capacità delle persone di convivere, l’accesso ai servizi prioritari; dall’altro lato la mappa dei bisogni raccogliendo informazioni sul campo, esaminando dati statistici, età media, malattie più diffuse, quantità di prestazioni erogate, quantità di farmaci e così via. il progetto basato fin dall’inizio sul coinvolgimento di quanti più soggetti possibili ha attivato la popolazione e le istituzioni che incidono su quel territorio. L’analisi di natura olistica ha preso in considerazione i problemi sanitari insieme a quelli dell’abitare, del convivere, fino ai problemi esistenziali e sociali legati al reddito e al lavoro. Il territorio non è quindi il semplice sfondo dell’azione sanitaria ma la miniera dalla quale estrarre la materia prima che dà forma e sostanza alle attività di cura. Quando curi un paziente in ospedale curi il corpo della persona se lo curi a casa sei obbligato a vedere dove abita, la qualità dell’ambiente, chi gli sta intorno. Il lavoro sperimentale delle microaree ha influenzato il funzionamento dei distretti sanitari di Trieste che sono stati concepiti come dispositivi che aggregano tutte le risposte sanitarie relative a un determinato territorio compresa la prevenzione delle malattie, la cura dei cibi ,il monitoraggio della salubrità dell’aria  dell’acqua eccetera. Si è formata cosi una visione olistica che vede le malattie dentro la vita non dentro un letto d’ospedale. Se si mette il capitale sociale della comunità locale al centro dei dispositivi sanitari la città si configura come “una città che cura” . Nell’ambito del progetto microaree è stata realizzata una iniziativa di progettazione partecipata nel quartiere “Gretta”  in collaborazione con “Kallipolis” un’associazione di architetti e ingegneri esperti di progettazione partecipata. Dichiara  Michela De Grassi una delle animatrici del progetto: la microarea deve essere considerata un sistema complesso adattivo formato da molte componenti in interazione tra loro che giorno per giorno lo trasformano al di là della nostra capacità di prevedere o di calcolare. Perciò il lavoro di microarea che si alimenta delle sue stesse emergenze e capacità di auto-organizzazione esige un approccio olistico. Viceversa nel lavoro di distretto tutto quello che fai viene computato e certificato e il protocollo riduce fatalmente la creatività la fantasia l’innovazione. 

Complessità, interazione, approccio olistico, autorganizzazione, innovazione: sono queste le parole che sono risuonate anche nel workshop “prove di prossimità” nell’ambito della VI° edizione della Biennale dello spazio pubblico al quale ha partecipato Maria Grazia Cogliati Dezza coautrice del libro “la città che cura”

 http://www.biennalespaziopubblico.it/2021/05/il-punto-di-vista-di-2/ 

Dal workshop è emerso che si deve ripensare la città in una prospettiva  di rifondazione dei suoi principi costitutivi, una città a misura d’uomo che non tragga le principali energie dalla conflittualità bensì dalle reti collaborative di prossimità .

L’esperienza di Trieste e la sperimentazione della Regione Emilia Romagna indicano una comune interpretazione della cura che, in buona misura, traspare anche nelle sintetiche indicazioni contenute nel PNRR relative alle   Case della Comunità. Queste potranno svolgere compiutamente la loro missione se si integrano nel tessuto sociale promuovono partecipazione civica e inclusione, costruiscono interazioni tra servizi primari .  Nuovi modelli urbani più sostenibili  dal punto di vista ambientale e sociale sono in fase di studio e stanno vedendo la luce le prime applicazioni concrete  come il progetto che prende il nome di “città in 15 minuti” con il quale si intende la possibilità di raggiungere da casa tutto ciò che serve per vivere, studiare, lavorare e divertirsi nel tempo di una salutare camminata o  di un giro in bicicletta, con l’ulteriore beneficio di una netta riduzione della mobilità veicolare e del conseguente inquinamento atmosferico. E’ un progetto impegnativo che diverse città in tutto il mondo cercano di realizzare con la consapevolezza che ci vorrà molto tempo per rovesciare il punto di vista e cambiare gli stili di vita . La “città in 15 minuti”, che preferiamo chiamare “città della prossimità”, si avvale di accattivanti disegni che evocano una utopica città felice. Sono immagini che contrastano drammaticamente con le immagini che provengono dalle città devastate dalla guerra in Ucraina. E’ difficile pensare a città che pensano alla propria “felicità” incuranti di ciò che succede in un Paese vicino dove ciò che resta di alcune città è un cumulo di rovine. Eventi drammatici che ci ricordano che le città all’occorrenza vanno difese, che i più deboli vanno protetti e curati, che non c’è “felicità” se i diritti fondamentali sono violati.  

 

Mario Spada (architetto, presidente onorario Biennale spazio pubblico)

7.4.2022